In merito al nostro articolo introduttivo “La Torah e i popoli del mondo“, un nostro lettore, che ha firmato il suo commento con il nome “Alessandro”, ha proposto una serie di interessanti obiezioni e riflessioni. Vista l’importanza dei temi affrontati, abbiamo deciso di presentare il suo commento in questo nuovo articolo assieme alla nostra risposta.
Riguardo il rapporto fra ebrei e gli altri popoli come raccontato nelle storie bibliche, non è possibile restare indifferenti sulla violenza che vi è descritta circa l’insediamento degli israeliti nella terra promessa, una terra già abitata da sette nazioni che sarebbero state tutte, come afferma la Torah, più numerose di Israele e talmente malvagie da meritare il genocidio.
Dato che Dio è onnipotente e aveva fissato i confini delle nazioni, è normale chiedersi perché non avesse riservato al suo popolo una terra che non fosse abitata. Pressappoco come fanno i ristoratori quando riservano ai loro clienti un tavolo libero, non uno già occupato da altri clienti.
La questione qui sollevata è di natura molto ardua e complessa, tale da meritare certamente un articolo separato. Bisogna innanzitutto comprendere che il termine “genocidio” applicato alla conquista della Terra di Kenàn risulta equivoco e in gran parte inappropriato. La Torah non comanda di lottare contro un popolo in senso etnico, una “razza”, e neppure una nazionalità (in termini moderni), bensì contro una cultura corrotta. L’opposizione è di natura morale e religiosa. Non esiste, nella Bibbia ebraica, alcuna affermazione su una presunta inferiorità etnica innata dei Cananei o di altri popoli. La Torah dice BeTzelem Elohim barà otam: Dio li creò (gli esseri umani, senza distinzioni) ad immagine di Dio.
Il Cananeo che si separa dai costumi immorali della propria nazione (tra cui il più grave è certamente da identificare nella pratica dei sacrifici umani dei bambini offerti alle divinità) si sottrae automaticamente dalla condanna che la Torah gli rivolge. Rachav (Raab), la prostituta cananea, fu accolta nel popolo ebraico. I Gabaoniti, nonostante il ricorso a uno stratagemma poco onesto, divennero alleati degli Israeliti, che li difesero in guerra, e quando Saul iniziò a sterminarli, l’ira di Dio si accese contro di lui. Il Talmud parla di discendenti del generale Sisera e degli Amalekiti che siedono in sinagoga a studiare la Torah.
Le uniche nazioni che Israele aveva il divieto di attaccare erano tre, i cui capostipiti avevano legami di sangue con gli antichi patriarchi d’Israele: moabiti ed ammoniti erano i discendenti di Lot (ma frutto di un rapporto incestuoso di costui con le proprie figlie), e gli edomiti, i quali discendevano dal fratello di Giacobbe, il superficiale e carnale Esaù (che per di più aveva generato la propria stirpe da tre mogli cananee). “Cugini” di Israele dunque, ma di ceppo inferiore date le loro ascendenze impure, e comunque in qualche maniera da rispettare a motivo della lontana parentela.
La proibizione di attaccare le nazioni di Moav, Ammon e Edom è esplicitata per il semplice motivo che tali nazioni, confinanti con Israele, si trovavano sul percorso compiuto dagli Israeliti per giungere nella terra promessa. Altri popoli, come Ismaeliti e Benè Keturah, benché “cugini” degli Israeliti, non sono menzionati, in quanto residenti in Arabia. È poi da chiarire cosa si intenda per “ceppo inferiore” e “ascendenze impure”, espressioni che sembrano derivare almeno in parte da considerazioni estranee alla Torah.
Ma Deuteronomio 20:10-15 permette l’aggressione di altre nazioni, diverse dalle tre sopracitate, per renderle tributarie, e decreta inoltre che tutti i maschi di quelle città che hanno opposto resistenza siano uccisi e le donne e i bambini ridotti in schiavitù.
Tale norma è riferita, però, esclusivamente alle popolazioni lontane dalla terra promessa (o Canaan). Per i residenti, invece, non erano possibili trattative per la resa. Di conseguenza le popolazioni cananee erano destinate al genocidio (Deuteronomio 20:16-18) affinché facessero spazio al popolo eletto. I gabaoniti, una di queste popolazioni autoctone, erano disposti ad arrendersi pur di avere salva la vita, ma essi poterono salvarsi solo per essere riusciti, con l’astuzia, a strappare a Giosuè il giuramento di non sterminarli. Pure Raab di Gerico ottenne la salvezza per sé e per i propri parenti grazie al fatto che anche lei ottenne un giuramento analogo dalle spie israelite che aveva avuto l’occasione di aiutare.
Sull’argomento delle leggi relative alla guerra abbiamo dedicato un articolo apposito (seppur non esaustivo), a cui rimandiamo.
Trattative per la resa, in relazione ai Cananei, erano possibili eccome. Sia Mosè che Giosuè proposero la pace a questi popoli prima di attaccare battaglia. Le affermazioni contenute in alcuni versetti del Deuteronomio appaiono troppo categoriche e severe in proposito, e vanno lette alla luce dei brani in cui si parla di trattative di pace e considerando il linguaggio aspro tipico dei documenti contrattuali dell’epoca.
“Affinché facessero spazio al popolo eletto” è un’altra affermazione che sottintende premesse fallaci. Deuteronomio 9:4-6 spiega chiaramente che la conquista della terra promessa non avviene in conseguenza di un’eventuale superiorità degli Israeliti. Al giusto Abramo, come narra Genesi 15:16, non fu permesso di conquistare la Terra di Kenàn poiché l’iniquità dei popoli residenti non era ancora giunta al colmo: essi non meritavano ancora di essere privati della terra santa.
Le ragioni riguardanti la necessità dello sterminio dei cananei sono dichiarate negli stessi versetti della Torah:
1. Si trattava di popoli in abominio a Dio perché i loro costumi erano empi, e pertanto meritavano lo sterminio dal lattante al vecchio.
2. Se fossero stati risparmiati, data la convivenza avrebbero traviato gli ebrei con i loro culti iniqui.
Sebbene Hashem non consideri “superiori” gli israeliti, la concezione razzista rimane dato che qualifica come “inferiori” sul piano etico, al punto da meritare il genocidio, tutti gli abitanti di Canaan (Deuteronomio 9:4-6), come se gli individui fossero responsabili della cultura nella quale sono stati allevati.
Bisogna notare che lo sterminio dei Cananei è presentato nella Torah come via secondaria rispetto a quella di strappare a questi popoli il possesso della terra. Si veda a questo proposito l’accurato studio di Reuven Kimelman dal titolo “The Seven Nations of Canaan”.
Inoltre, è necessario comprendere che, nella Bibbia, quella contro i Cananei non è presentata come una battaglia degli Israeliti, ma come una battaglia di Dio. L’annientamento delle sette nazioni è da equiparare al Diluvio universale e alla distruzione di Sodoma e Gomorra: un giudizio divino, seppure, in questo caso, mediato attraverso l’azione di un esercito umano. Lo sgomento e la perplessità che ci pervadono quando leggiamo delle stragi compiute contro i Cananei, devono essere gli stessi che proviamo leggendo le storie dei giudizi divini sul mondo intero. Sono storie praticamente impossibili da digerire, soprattutto per il lettore moderno, ma comunque estranee ad ogni forma di razzismo.
Basti pensare, come esempio che viene proprio dalla Torah, al “giusto” Lot. Secondo il narratore biblico egli rappresenta l’uomo retto, dato che fu disposto a barattare la vita delle sue due figlie (senza avere almeno la cortesia di chiedere loro se fossero disposte a farsi stuprare a morte da tutta la popolazione maschile di Sodoma) per salvare due uomini a lui sconosciuti che aveva ospitato nella propria casa. La morale della storia? Il giusto sa come rispettare gli ospiti! Tale insegnamento etico è confermato nel libro di Giudici dal vecchio di Ghibea, che invece offre ad una folla di uomini violenti la sua unica figlia e in aggiunta un’altra donna (che era sua ospite!) per salvare la vita di un levita. Fu poi quest’ultimo che consegnò a quegli uomini quella donna, la quale per inciso era sua moglie, affinché la violentassero al suo posto fino a farla morire.
Nella concezione di giustizia dei redattori biblici, l’uomo giusto è disposto a sacrificare donne della sua famiglia (quindi inferiori perché femmine) pur di salvare uomini che neppure conosce ma a cui ha dato ospitalità.
Alla luce della sensibilità moderna (e delle moderne legislazioni penali) Lot ed il vecchio di Ghibea non sono dei giusti bensì dei criminali. Ma essi agivano secondo la cultura che li aveva formati, esattamente come avveniva per i cananei.
Questa analisi dei racconti biblici è piuttosto superficiale. Nella Torah non esiste bianco e nero, e i personaggi positivi, anche se presentati come uomini giusti e devoti, finiscono quasi sempre per commettere errori e peccati, anche se non sempre ciò è esplicito nel testo.
Lot, nel racconto della distruzione di Sodoma, è ben lungi dall’essere presentato come il perfetto giusto. Il suo atto immorale di offrire le proprie figlie alla folla inferocita sarà punito middah keneged middah: Lot stesso sarà “stuprato” dalle sue figlie e diventerà il padre di una discendenza che, come la Torah ci mostra, non sarà che l’erede spirituale di Sodoma. Ci sono altri segnali nel testo che rivelano la natura traballante della giustizia di Lot e della sua famiglia.
Il racconto parallelo del libro dei Giudici va anch’esso letto nella sua complessità. La studiosa Yael Leibowitz, in una sua lezione presso la Yeshiva University, ha mostrato come l’episodio della concubina del levita sia il punto più basso di un percorso tracciato dal testo biblico sulla decadenza della condizione della donna nell’Israele del periodo pre-monarchico.
Si rivela assai più illuminato della Torah il padre della storia, Erodoto, che racconta degli usi e costumi spesso bizzarri di molti popoli del suo tempo senza però mai giudicarli, ma osservando come il senso etico sia relativo al luogo di nascita.
Erodoto è uno storico, la Torah si presenta invece come un codice etico, una guida della morale e della religione. La Torah non può quindi sottrarsi al compito di giudicare un popolo che sacrificava i propri bambini alle divinità.
La concezione dell’intolleranza e della discriminazione che emerge dalla lettura della Torah è confermata in Deuteronomio 23, dove ammoniti e moabiti residenti in Israele, a causa di colpe storiche dei loro antenati, non soltanto non potevano mai mettere piede nell’assemblea del Signore, ma in più nei loro riguardi l’israelita era comandato a nutrire avversione eterna, come è comandato nel versetto 7:
“Non cercherai né la loro pace, né la loro prosperità, finché tu viva, mai.” (CEI)
Se la passano meglio l’idumeo e l’egiziano, i quali non dovranno essere odiati e, perlomeno alla terza generazione, potranno entrare nell’assemblea di Hashem.
Non “a causa di colpe storiche dei loro antenati”. Ruth, la moabita, viene accettata nel popolo ebraico proprio grazie al suo atto di sottrarsi ai tratti negativi caratteristici del suo popolo. L’approccio biblico a questi temi è meno schematico di quanto potrebbe sembrare.
Alle discriminazioni etniche si aggiungono quelle derivanti da fattori fisici e genetici:
“Non entrerà nella comunità del Signore chi ha il membro contuso o mutilato. Il bastardo non entrerà nella comunità del Signore; nessuno dei suoi, neppure alla decima generazione, entrerà nella comunità del Signore.” (Ibidem 2-3).
Prima bisogna comprendere cosa significhino i termini ebraici utilizzati petzua daka e mamzer, oltre all’espressione “non entrerà nell’assemblea del Signore”.
Tuttavia non possiamo trascurare i passi biblici che comandano il rispetto verso i forestieri e residenti stranieri (Esodo 22:21). Ma questa norma etica non è prerogativa della Torah. In ogni paese del mondo antico l’ospitalità verso gli stranieri era tenuta in grande considerazione, e nell’antica Grecia era perfino sacra. La ragione era pratica: le difficoltà di comunicazione ed i gravi pericoli durante il viaggio davano luogo a tanti microcosmi connessi tra loro solo grazie a mercanti e viaggiatori; per mezzo di questi circolavano materie prime, mercanzie, tecnologie, conoscenze ed anche informazioni su quello che accadeva nei luoghi lontani. Lo straniero era prezioso e quindi bisognava proteggerlo e dargli assistenza.
Riguardo Israele si pensi ai fenici che costruirono il Tempio di Salomone. Gli israeliti ebbero bisogno dei loro architetti e delle loro maestranze, e di molti materiali provenienti dal Libano e da altre terre lontane. Se non vi fosse stato il rispetto verso i forestieri, Israele avrebbe dovuto continuare a vivere sotto le tende.
D’altra parte, al tempo in cui con ogni probabilità fu scritta la Torah, vale a dire nel periodo dell’esilio babilonese e nell’immediato post esilio, numerose comunità giudaiche ormai vivevano e prosperavano in tutto il medio oriente, in Egitto e in Grecia. La reciprocità rappresentava dunque una ragione in più perché anche in Israele le comunità straniere fossero rispettate.
La differenza con le altre culture consiste nel fatto che la Torah non associa il rispetto per lo straniero a un vantaggio pratico o a motivazioni pragmatiche. Secondo la Torah, lo straniero va accolto e onorato perché “Dio ama lo straniero”. L’usanza dell’ospitalità diviene un principio sacro assoluto, collegato al fondamento stesso dell’esistenza e della morale.