Cosa sono il “firmamento” e le “acque di sopra” nella Genesi?

E disse Dio: «Sia una distesa in mezzo alle acque e sia separazione tra le acque e le acque». E fece Dio la distesa, e separò le acque che sono sotto la distesa dalle acque che sono sopra la distesa. E così fu (Genesi 1:6-7).

Uno degli elementi creati da Dio nella prima settimana dell’universo, secondo il racconto del Libro della Genesi, è la Rakìa(רָקִ֖יעַ), termine ebraico tradotto di solito con “firmamento”, “distesa”, oppure “volta celeste“.

Rakia‘ deriva dal verbo raka’, che indica l’atto di martellare, lavorare il metallo o estendere una superficie (Numeri 16:39; Isaia 40:19; Geremia 10:9). La parola fa pensare quindi a una lastra o a un rivestimento che il Creatore avrebbe dispiegato sopra la terra. La poesia biblica la descrive talvolta come una tenda che ricopre il mondo per volere divino (Salmi 104:2).

Il racconto della Genesi precisa che lo scopo di tale lastra era quello di dividere le “acque di sopra” dalle “acque di sotto”. In seguito, Dio pose un limite a queste ultime, facendo ritirare il grande oceano primordiale e permettendo così alla terra asciutta di emergere (Genesi 1:9).

Se sull’identificazione delle “acque di sotto” (i mari) non possono esistere dubbi, molto più difficile è per alcuni immaginare cosa siano invece le acque superiori, così come la misteriosa “distesa” che le separa dalla terra. A cosa si riferisce la Torah?

Acque sospese nel cosmo?

I Saggi d’Israele, in accordo con l’opinione prevalente nel mondo antico, concepivano il firmamento come una cupola solida che sovrasta la terra. Per questo il Midrash (Bereshit Rabbah 4:2) riporta: “I cieli erano liquidi il primo giorno, ma si indurirono il secondo giorno”. Tale affermazione è in armonia con Giobbe 37:18, dove si legge che il firmamento è “solido come uno specchio di metallo”.

Da una simile idea si discostarono però molti secoli dopo Ibn Ezra e Radak che, influenzati da conoscenze più avanzate, nei rispettivi commenti a Genesi 1:6 suggeriscono che la Rakia sia in realtà composta da aria. Molto più criptico è invece Nachmanide, che commentando lo stesso verso scrive:

“Questo argomento è uno dei misteri della Torah. I versi, nel loro significato semplice, non richiedono un’interpretazione, dal momento che la Scrittura stessa non si dilunga in dettagli, e divulgare un’interpretazione è proibito persino a coloro che ne sono a conoscenza”.

Oggi, per restituire un senso a dei termini che possono suonare enigmatici, oltre che per cercare di rendere la Bibbia rilevante alla luce del sapere scientifico odierno, molti esegeti identificano la distesa del cielo con l’atmosfera terrestre, mentre alcuni hanno proposto arditamente di intendere le “acque di sopra” come le comete, o più in generale come il ghiaccio presente al di fuori del nostro pianeta (si veda il libro La grande svolta di Zamir Cohen).

È bene però ricordare che lo scopo della Torah, come scrisse Samuel David Luzzatto, è quello di “illuminarci circa i nostri doveri, non circa gli arcani della natura”. Il racconto della Creazione non fa alcun accenno a realtà rimaste ignote all’umanità per gran parte della sua storia, ma menziona soltanto elementi con cui il popolo d’Israele aveva piena familiarità all’epoca in cui la Bibbia fu scritta.

Se la Genesi utilizzasse un linguaggio scientifico accurato e attuale, non parlerebbe di “cielo e terra”, ma di galassie; non farebbe comparire il sole e la luna nel quarto giorno, addirittura dopo i vegetali; non tralascerebbe dettagli sui meccanismi che rendono possibile la vita e sulla struttura del cosmo.

Per comprendere allora cosa siano la Rakia e le acque superiori non dobbiamo ricorrere alla scienza moderna, né a tradizioni esoteriche lontane dal senso letterale delle Scritture. Piuttosto, è necessario calarsi nella mentalità degli Israeliti di tremila anni fa e provare a ricostruire l’immaginario biblico oggi perduto.

L’azzurro che ci sovrasta

Il significato di queste espressioni bibliche diviene molto più intuibile se consideriamo il fatto che l’umanità ha sempre visto il cielo come una fonte d’acqua: giungendo dall’alto, la pioggia rappresenta il segno più ovvio dell’esistenza di “acque di sopra”.

Nel suo Commentario alla Genesi (JPS), il grande studioso ebreo Nahum Sarna scrive in proposito che le acque superiori erano intese proprio come l’origine dell’acqua piovana.

Questa, secondo gli antichi, discendeva dall’alto attraverso delle misteriose aperture nella volta celeste e veniva poi trasportata e distribuita dalle nubi. L’idea che l’acqua ritornasse poi in alto sotto forma di vapore (ciclo dell’acqua) era già nota nei tempi biblici (Amos 9:6; Giobbe 36:27).

Durante il Diluvio, secondo Genesi 7:11, le aperture del cielo, chiamate qui “finestre” o “cataratte”, si spalancarono bruscamente facendo riversare le acque celesti sulla terra senza controllo, causando la distruzione di quell’ordine stabilito in principio.

Nel racconto della Creazione, leggiamo anche che gli uccelli “volano sopra la terra, davanti alla distesa del cielo”, o meglio, alla lettera, “sulla faccia della distesa del cielo” (Genesi 1:20). Come spiega Umberto Cassuto, questa frase riflette la prospettiva di chi volge lo sguardo in alto e scorge gli uccelli muoversi in aria sullo sfondo del cielo e delle nubi.

Anche il sole e la luna, in base al medesimo racconto, furono posti da Dio “nella distesa del cielo per far luce sulla terra” (1:17). Nonostante oggi sappiamo che ciò non sia vero alla lettera – è noto che i corpi celesti si trovano ben al di là dell’atmosfera – possiamo ancora riconoscere che la descrizione biblica sia coerente dalla prospettiva di un osservatore umano, che vede il sole e la luna illuminare il cielo proprio come se fossero poco più in alto delle nuvole.

Conclusione

Ritenere che il primo capitolo della Genesi parli di fenomeni irrilevanti per la vita sulla terra e incomprensibili agli antichi (le comete, gli anelli di Saturno o realtà ultraterrene spirituali), tralasciando al contempo elementi palesi su cui l’umanità si è invece sempre interrogata, sarebbe inconcepibile e illogico.

Il testo della Torah non parla di misteriosi ghiacci cosmici, così come non parla di cellule, dinosauri e neppure di canguri. Parla invece della maestosa distesa che tutti vediamo sopra di noi, il cielo azzurro verso cui si sono sempre innalzati gli sguardi affascinati dell’uomo. Tale distesa è presentata in termini umani, arcaici e poetici, secondo le convenzioni di un linguaggio che non richiede di essere adattato alle scoperte scientifiche di ogni epoca.

Quello che in passato era noto come “firmamento”, oggi è per noi l’atmosfera terrestre: è in essa che si raccolgono le “acque di sopra”, da cui deriva la pioggia; è sullo sfondo di essa che vediamo gli uccelli volare, ed è qui che sono presenti per noi il sole e la luna, non fisicamente ma con la loro luce.

Nel fare riferimento alla volta celeste, la Torah non vuole trasmettere nozioni su come sia strutturato il cielo, quanto piuttosto insegnare che il mondo non è un teatro di scontri confusi tra forze opposte, ma un regno armonioso in cui il Giudice ha instaurato un ordine rigido anche attraverso progressive suddivisioni tra gli spazi. Come è scritto nei Salmi: “Un decreto Egli ha dato, e non sarà violato” (148:6).

Questo concetto, che prescinde dai dettagli astronomici e cosmologici (la cui conoscenza è destinata a mutare e a perfezionarsi nel corso dei secoli), non perde la sua rilevanza, ed è anzi giunto fino ai nostri giorni con lo studio delle leggi che regolano l’universo.

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