Nell’articolo “La figlia di Iefte – Storia di un sacrificio umano“, abbiamo parlato della storia del condottiero Yiftach (Iefte), narrata nel Libro dei Giudici, e dello sciagurato voto con cui egli sacrificò a Dio la propria figlia.
Rifacendoci a uno studio della Dr. Avigayil Rock z”l, nell’articolo abbiamo affermato che il narratore biblico non giustifica l’atto compiuto da Yiftach, anzi lo condanna in maniera implicita presentandolo in contrapposizione al mancato sacrificio di Isacco.
Alcuni, però, non sono d’accordo con questa lettura. Un nostro lettore, Piero, ha scritto:
Se leggete attentamente un passo contenuto nell’ultimo capitolo del Levitico (27:19) scoprirete che gli Ebrei facevano regolarmente sacrifici umani secondo l’esplicito comandamento di Y-H-V-H!
Nulla di strano, quindi, nella vicenda di Iefte.
Un altro utente, Marco, che ci propone spesso i suoi interventi molto critici, ha commentato:
A mio parere c’è una stretta correlazione fra il passo di Levitico 27:29 e il voto di Iefte, essendo il primo la norma (sui sacrifici umani) e il secondo un esempio di applicazione della stessa. Ciò si potrebbe evincere dalla circostanza che Iefte si stracciò le vesti quando scoprì che era sua figlia la persona che gli toccava immolare e che non poteva rimangiarsi quella promessa.
Potete trovare l’intero commento accedendo a questo link.
Secondo queste interpretazioni, il sacrificio umano compiuto da Yiftach sarebbe quindi in perfetto accordo con quanto prescritto dalla Torah, in particolare dalle leggi sui voti di consacrazione contenuti nel Levitico.
Come stanno dunque le cose? È vero che il Levitico prescrive, o almeno ammette, i sacrifici umani? Yiftach ha violato la Torah nell’immolare sua figlia, o al contrario l’ha fedelmente applicata? Oggi risponderemo a queste domande con l’intento di chiarire un argomento che è spesso fonte di confusione e perplessità tra i lettori della Bibbia.
Levitico 27: voti di consacrazione
Il capitolo 27 del Levitico contiene una serie di norme relative alla “consacrazione”: attraverso un voto o un giuramento, ogni Israelita poteva scegliere di “dare a Dio” qualcosa, ossia cederlo ai sacerdoti, i quali non avevano alcuna eredità in Israele e vivevano quindi anche grazie a questi doni.
Il testo ci dice che era possibile cedere terreni, case, bestiame e anche persone (vv. 1-25). Ma in cosa consisteva la consacrazione di esseri umani o animali? Ciò avveniva forse tramite un sacrificio? Nel caso di animali adatti a essere offerti nel Santuario (ovini, bovini e alcuni uccelli), la risposta è sì: sembra che queste specie venissero consacrate con l’unico scopo di essere sacrificate sull’altare (vv. 9-10).
Il verso 11 afferma però che era possibile donare al Santuario anche animali “impuri” non adatti al sacrificio, come asini e cammelli. In questi casi, l’esemplare ceduto veniva prima valutato e poi messo in vendita dai sacerdoti (v. 12). Dunque, nella Torah, “dare a Dio” un essere vivente non equivale a sacrificarlo: tutto dipende da cosa si decide di consacrare.
Cosa avveniva, allora, nel caso in cui qualcuno decideva di consacrare il proprio figlio o un proprio servo? Bisogna notare innanzitutto che il Levitico, nei suoi primi capitoli, elenca in maniera dettagliata i diversi tipi di offerte obbligatorie e facoltative dalla Torah. Per ognuna di queste tipologie, il testo illustra la procedura da eseguire, le specie animali e vegetali che possono essere offerte e altri dettagli. Il Levitico, insomma, è molto preciso, e non ammette la possibilità di “fare di testa propria”: una semplice offerta di incenso non richiesta poteva comportare conseguenze devastanti.
Ebbene, in nessun caso il Libro prescrive il sacrificio di vite umane. Anzi, nella sua condanna delle depravazioni dei Cananei, esso vieta esplicitamente di sacrificare la propria prole: “Non lascerai passare alcuno dei tuoi figli a Moloch e non profanerai il nome del tuo Dio. Io sono HaShem” (18:21), precetto ribadito in Deuteronomio 18:10: “Non si trovi in mezzo a te chi fa passare suo figlio o sua figlia per il fuoco”.
Cosa significava allora cedere un essere umano a Dio? Possiamo scoprirlo leggendo il racconto di Channàh (Anna), che secondo il Libro di Samuele, nel pregare Dio affinché gli concedesse di avere un figlio, fece un voto dicendo: “Se tu mi darai un seme d’uomini, io lo darò ad HaShem” (1 Sam. 1:11).
In base alla logica di chi sostiene che la Bibbia prescriva i sacrifici umani, qui la devota Channah starebbe promettendo di sgozzare e bruciare il suo futuro figlio sull’altare del Tabernacolo (!). Ma come sappiamo, il voto qui espresso ha ben altro significato.
Più avanti, dopo la nascita del figlio tanto atteso, Channah dichiara:
Ho pregato per [avere] questo fanciullo, e HaShem mi ha dato ciò che gli avevo chiesto. Perciò anche io [a mia volta] lo darò ad HaShem: finché egli vive sarà ceduto ad HaShem (1 Sam. 1:27-28).
Il fanciullo, che è il profeta Shmuèl (Samuele), inizia così una vita dedicata al servizio del Santuario alle presenza del sacerdote Eli (3:1). Ecco dunque cosa significa “donare qualcuno a Dio”: Channah ha applicato in tal modo ciò che era prescritto dal Levitico.
Che questo sia il vero senso del voto di consacrazione è comunque già intuibile dal verso di Numeri 18:6, secondo cui tutti i Leviti sono “dati ad HaShem” (netatim l’HaShem). Non perché debbano essere immolati sull’altare, ma “per prestare servizio nella Tenda di Convegno”.
Si noti inoltre che, in base a quanto stabilito in Levitico 27:9-10, se un animale consacrato a Dio è idoneo al sacrificio, colui che l’ha donato non può riaverlo indietro né sostituirlo con un altro esemplare: ciò che è stato ceduto per essere sacrificato non può essere privato della sua consacrazione. Se invece si tratta di un animale non adatto al sacrificio, il suo proprietario può riscattarlo con denaro (v. 13).
Seguendo tale criterio, se l’essere umano fosse una specie che può essere sacrificata (al pari del capro o del toro), allora la legge non dovrebbe permettere il suo riscatto. E invece, uomini e donne possono essere riscattati attraverso una certa somma di denaro (vv. 1-8), esattamente come quegli animali “di cui non si può fare un’offerta ad HaShem” (v. 11).
Il Cherem o “voto di sterminio”
In base alle norme del Levitico, la possibilità di riscattare con denaro ciò che è stato consacrato non riguarda solo gli esseri umani e gli animali impuri, ma anche i terreni e le case (vv. 14-24). Esiste però un’eccezione:
Ma ogni cosa interdetta che qualcuno ha interdetto per HaShem fra tutto ciò che gli appartiene, persona, animale o campo del suo patrimonio, non sarà venduta e non sarà redenta. Tutto ciò che è interdetto è cosa santissima per HaShem (Levitico 27:28).
Ciò che è stato consacrato attraverso un voto speciale chiamato chèrem (“interdizione”), non può quindi essere per alcun motivo restituito al suo proprietario o venduto ad altri, ma deve rimanere in possesso dei sacerdoti (come è confermato anche in Numeri 18:14). E nel caso in cui si tratti di un essere umano, il testo indica chiaramente quale sia il suo destino:
Ogni interdizione che è stata interdetta fra le persone non sarà riscattata: dovrà essere messa a morte (27:29).
Per interpretare questi versi, la prima cosa da chiedersi è cosa sia esattamente il cherem. I sostenitori della tesi dei sacrifici umani sono naturalmente convinti che si tratti appunto di un’offerta cruenta a Dio: la persona soggetta al cherem veniva immolata nel Santuario senza possibilità di riscatto, proprio come accadde alla sfortunata figlia di Yiftach, a proposito della quale è scritto che “il padre fece di lei quello che aveva promesso con il voto” (Giudici 11:39). Questa lettura è però insostenibile per i motivi che ci apprestiamo a illustrare.
La parola cherem, che non compare mai nella vicenda di Yiftach, è spesso intesa come “interdizione”, “divieto”, ma anche “distruzione”. In molte edizioni della Bibbia è tradotta con l’inquietante espressione “voto di sterminio”. Alla lettera, la sua radice verbale (charam) indica l’azione di isolare, segregare o proibire qualcosa. Vediamo allora in quali contesti il termine è usato nelle Scritture:
In Numeri 21:2 gli Israeliti, apprestandosi a combattere contro il re cananeo di Arad, fanno un voto a Dio dicendo: “Se tu metterai nelle mie mani questo popolo, voterò alla distruzione (cherem) le sue città”.
Secondo il Deuteronomio, le immagini idolatriche delle nazioni cananee sono cherem, e vanno perciò distrutte (7:25-26), così come tutto ciò che si trova in una città israelita che si ribella alla Torah (13:16).
In Giosuè 6:17-18, l’empia città di Gerico è dichiarata cherem “con tutto ciò che è in essa”; pertanto gli Israeliti, dopo averla conquistata, non possono trarre alcun beneficio dal bottino. Allo stesso modo, in 1 Sam. 15, al re Shaùl è comandato di “votare allo sterminio (cherem)” ogni cosa che appartiene ad Amalek.
Nel libro di Isaia, Dio preannuncia il suo giudizio su Edom, definito “il popolo votato alla distruzione (cherem) per fare giustizia” (34:5); e più avanti, la stessa minaccia è rivolta contro Israele, che a causa dei suoi peccati è “dato allo sterminio (cherem) e all’obbrobrio” (43:28).
In questi e in tutti gli altri casi in cui compare, il termine cherem si riferisce a qualcosa che deve essere bandito o annientato in quanto esecrabile, di solito in un contesto di guerra. Non si parla quindi di un sacrificio, che invece è qualcosa di positivo e gradito a Dio.
Ma se le cose stanno così, perché allora in Levitico 27:28 è scritto che “tutto ciò che è cherem è cosa santissima per HaShem“? Come si può attribuire una tale sacralità agli idoli dei cananei, alle nazioni empie e al bottino delle città annientate?
Dobbiamo ricordare che il termine “santo”, oggi usato comunemente per indicare qualcosa di spiritualmente elevato e venerabile, nel linguaggio biblico significa invece “separato e dedicato a un uso esclusivo”.
Quando ad esempio la Torah ordina che nessuno, eccetto i sacerdoti, mangi la carne e il pane dei sacrifici di espiazione poiché sono “cose sante” (Esodo 29:33), il senso che è questi cibi sono dedicati a un unico scopo specifico, e non possono quindi essere consumati come del cibo comune. E quando Dio dice agli Israeliti: “Sarete santi per me, poiché io, HaShem, […] vi ho separati dagli altri popoli” (Levitico 18:26), si vuole intendere che il popolo ebraico deve essere distinto dalle altre nazioni in quanto stirpe dedicata al servizio divino.
Dunque sottoporre qualcosa al cherem significava sottrarlo del tutto all’uso umano, isolarlo, impedire che fosse fonte di qualsiasi beneficio. Ciò che era stato interdetto non faceva più parte del dominio umano, ma apparteneva soltanto a Dio, ed era in tal senso “santissimo per HaShem”.
Nel caso di una terra, come il suolo di Gerico dopo la distruzione della città, il cherem comportava il divieto di ricostruire quanto era stato abbattuto (Giosuè 6:26). Nel caso di un uomo, il voto era adempiuto mettendo a morte la persona interdetta, senza possibilità di riscatto (Levitico 27:29).
A questo proposito, nel Talmud (Arakhin 6b) i Maestri affermano che qualsiasi criminale condannato a morte era soggetto al cherem e non poteva perciò essere riscattato con denaro prima dell’esecuzione. Questa lettura, per quanto sembri discostarsi dal contesto delle norme di Levitico 27, vuole in realtà essere un’applicazione di quanto la Torah dispone altrove, in Numeri 35:31: “Non accetterai un prezzo di riscatto per la vita di un omicida, reo di morte, perché dovrà essere messo a morte“.
Il Cherem non è un sacrificio
Alla luce di quanto abbiamo spiegato, non bisogna cadere nell’errore di credere che il cherem sia un sacrificio: nel mondo biblico, questo voto riguardava la messa al bando o la distruzione di nemici, oggetti considerati aberranti o luoghi moralmente contaminati. Il contesto era quello della guerra, non quello dei riti del Santuario.
Una prova evidente del fatto che il cherem non sia assimilabile ai sacrifici ci viene fornita dal già citato racconto biblico dello sterminio di Amalek (1 Samuele 15). Qui il profeta Shmuel ordina al re Shaul di votare alla distruzione tutto ciò che appartiene ai nemici Amalekiti.
Ma Shaul disobbedisce poiché decide di risparmiare il re di Amalek insieme al “meglio delle pecore, dei buoi, degli animali grassi e degli agnelli” (v. 9). Davanti all’ira del profeta, Shaul prova a giustificarsi:
E Shaul disse a Shmuel: «Io ho ascoltato la voce di HaShem, ho compiuto la missione che HaShem mi ha ordinato, [...] ma l'esercito ha preso dal bottino buoi e pecore, le cose migliori del cherem, per farne sacrifici ad HaShem, il tuo Dio» (vv. 20-21).
Secondo le parole del re, le truppe avrebbero quindi preso una parte del bestiame sottoposto a interdizione per offrirlo in sacrificio a Dio. Ciò ha senso soltanto se si comprende che il cherem e i sacrifici non sono la stessa cosa; anzi, a giudicare dalla reazione di Shmuel, che rimprovera Shaul dicendo: “Gradisce forse HaShem i sacrifici quanto che si ascolti la sua voce?” (v. 22), si intuisce che i due concetti sono ben distinti e incompatibili.
A questo punto, un altro errore in cui si potrebbe cadere è quello di immaginare che la Torah conceda a qualsiasi uomo la facoltà di imporre il cherem su altre persone a lui sottoposte, creando di fatto un diritto generalizzato a compiere stragi di figli, mogli e servi sotto gli auspici di un voto sacro.
Immaginiamo la seguente situazione: nell’antica società biblica, un ricco proprietario terriero vuole liberarsi di uno dei suoi schiavi. La Torah (unica fra i codici di leggi dell’epoca) prevede la pena di morte per chi uccide uno schiavo (Esodo 21:20). Ma il ricco potrebbe facilmente aggirare tale rischio pronunciando un voto di interdizione sul suo odiato schiavo: con questo espediente, l’omicidio che egli intende compiere cesserebbe di essere un crimine e diventerebbe un obbligo sacro.
È evidente che nessun sistema morale o giuridico potrebbe funzionare se si accordasse un simile potere al singolo individuo.
Sebbene la legge espressa in Levitico 27 non riporti indicazioni su eventuali limiti e circostanze di applicabilità del cherem, dall’analisi dei racconti biblici in cui è menzionato questo tipo di voto si evince, come abbiamo già notato, che esso era invocato solo dai capi del popolo (o dalla nazione nella sua collettività), normalmente dopo una diretta ingiunzione da parte di Dio, nel corso di azioni militari contro nemici che rappresentavano una minaccia esistenziale per Israele.
Yiftach: eroe devoto o deviato?
Possiamo ora tornare a concentrarci sulla tanto discussa vicenda di Yiftach, la cui svolta infausta è presentata in questi versi:
Yiftach fece un voto ad HaShem e disse: «Se tu mi metti nelle mani gli Ammoniti, colui che uscirà per primo dalla porta di casa mia per venirmi incontro, quando tornerò vittorioso dagli Ammoniti, sarà per HaShem e io l’offrirò in olocausto». [...] Così gli Ammoniti furono umiliati davanti agli Israeliti. E Yiftach tornò a Mitzpah, verso casa sua; ed ecco, gli uscì incontro la figlia, con timpani e danze. Era l’unica figlia: non aveva altri figli, né altre figlie. Appena la vide, si stracciò le vesti e disse: «Ah, figlia mia, tu mi hai rovinato! Anche tu sei con quelli che mi hanno reso infelice! Io ho dato la mia parola ad HaShem e non posso ritirare [il mio voto]» (Giudici 11:30-35).
In qualsiasi modo si voglia interpretare la narrazione dal punto di vista etico, è tuttavia chiaro che il voto pronunciato da Yiftach non aveva nulla a che fare con il cherem: l’intento del vittorioso condottiero non era quello di votare alla distruzione la prima persona che gli sarebbe venuta incontro al ritorno dalla battaglia, ma di sacrificarla come olàh (olocausto, offerta di elevazione).
Ma se ciò è corretto, perché allora Yiftach dichiara che il suo voto non può essere ritirato (v. 31)? Non abbiamo forse letto che, secondo il Levitico, il cherem è l’unico caso di consacrazione irreversibile, senza possibilità di riscatto? Se quello di Yiftach non era un voto di interdizione, allora perché egli non ha salvato sua figlia pagando il prezzo di riscatto, come previsto dalla Torah?
Queste domande si basano su un equivoco di fondo: Yiftach non ha mai giurato di consacrare (cioè cedere al Santuario) il primo che sarebbe uscito dalla porta di casa sua, bensì di sacrificarlo! Channah, la madre di Shmuel, qualora l’avesse voluto, avrebbe potuto riscattare suo figlio dal servizio del Tabernacolo come previsto da Levitico 27; ma il caso di Yiftach è del tutto diverso, dal momento che il suo non era un semplice atto di consacrazione che potesse essere ricondotto alle norme del Levitico.
L’affermazione di Yiftach sull’impossibilità di revocare il suo voto non deriva in realtà dalla legge sul cherem (Levitico 27:29), ma dal fatto che qualsiasi voto era considerato irrevocabile, come la Torah stessa riconosce: “Quando uno avrà fatto un voto ad HaShem, […] non violi la sua parola, ma dia esecuzione a quanto ha promesso con la bocca” (Numeri 30:3). Ecco dunque il motivo per cui egli si sentiva obbligato a sacrificare sua figlia.
Naturalmente, questo voto era già a priori del tutto contrario alla Torah e incompatibile con la legge biblica, che vieta in maniera esplicita di sacrificare i propri figli. Il racconto ci presenta Yiftach come un uomo la cui devozione religiosa, pura in apparenza, si rivela contaminata dall’idolatria e dalle pratiche brutali dei Cananei.
Ma è davvero possibile che un potente liberatore di Israele suscitato da Dio, vittorioso nelle sue imprese e mai condannato esplicitamente dalla voce narrante, sia invece da considerare un peccatore influenzato da usanze pagane?
La questione va affrontata considerando che non di rado le Scritture tracciano un quadro ben più complesso ed eticamente problematico di quanto si creda: la Bibbia ebraica non ci mostra banali contrapposizioni tra “buoni” e “cattivi”, ma ci invita a far emergere il suo punto di vista morale andando oltre la superficie del testo grazie ad alcuni strumenti di interpretazione spesso essenziali.
Uno di questi strumenti è quello dei parallelismi e dei contrasti con cui il testo biblico collega due brani differenti permettendo di leggere l’uno alla luce dell’altro. In questo caso, attraverso corrispondenze tematiche e lessicali, il racconto di Yiftach è contrapposto al sacrificio di Isacco, come abbiamo già mostrato nel nostro articolo dedicato a questo argomento, a cui rimandiamo.
C’è però anche un racconto successivo che presenta echi ben riconoscibili della vicenda della figlia di Yiftach, e che ci permette di fare chiarezza sul modo in cui gli autori biblici interpretavano questa drammatica figura. Si tratta della storia del giuramento di Shaul durante la guerra contro i Filistei (1 Sam. 14):
- In entrambi i casi, si narra di un capo militare d’Israele che, pur essendo già a un passo dal trionfo, pronuncia un voto (o giuramento) non richiesto e non necessario.
- Le conseguenze del voto di Yiftach ricadono tragicamente su sua figlia; quelle del giuramento di Shaul ricadono su suo figlio Yehonatan.
- In entrambe le storie, il padre annuncia al proprio figlio che dovrà morire (Giudici 11:35; 1 Sam. 14:44).
- Sia la figlia di Yiftach che Yehontan accettano la loro sorte senza alcuna opposizione (Giudici 11:36; 1 Sam. 14:43).
Le analogie tra i due racconti creano un accostamento tra Shaul, il re rigettato da Dio e divenuto folle e crudele, e Yiftach, il quale appare così un modello negativo agli occhi delle generazioni future.
L’episodio di Yiftach è in verità ancora più oscuro di quello di Shaul: nel secondo, l’esercito riesce almeno a salvare il figlio condannato a morte attraverso un espediente, mentre i contemporanei di Yiftach non fanno nulla del genere. La differenza tra i due epiloghi non può che far risaltare la colpevolezza della società che ha accettato passivamente una simile aberrazione.
Bisogna poi tenere conto del contesto storico, letterario e narrativo di cui la vicenda è parte integrante: il Libro dei Giudici, la cui struttura pone in evidenza il degrado morale dell’epoca in cui “non c’era alcun re in Israele, e ognuno faceva ciò che era giusto ai propri occhi”. Un degrado che non colpisce solo il popolo, ma – nella seconda metà del Libro – anche i suoi capi e condottieri: Avimelekh il tiranno, Yiftach con il suo voto, Shimshon che si invaghisce di donne straniere e prostitute, finché la figura del leader-liberatore sparisce del tutto dal testo.
Lo stesso degrado investe anche il culto: emblematica è la vicenda dell’idolo di Michah (Giudici 17-18), in cui si legge di una donna che impiega dell’argento consacrato a Dio per realizzare una scultura idolatrica, al cui servizio sarà posto poi un Levita.
Lo stesso idolo viene in seguito promosso a divinità ufficiale di un’intera tribù di Israele, anche in questo caso, come in quello di Yiftach, senza che il testo includa alcuna parola di condanna, facendoci assistere invece alla vittoria di chi viola i Comandamenti.
Il Libro dei Giudici, in particolare nei suoi capitoli conclusivi, è insomma il trionfo dell’oscenità e dell’eclissi di Dio. E se fra gli orrori che dilagano nelle sue pagine compare anche il sacrificio di una povera fanciulla, non è perché un simile atto sia ammesso dalla Torah, ma proprio l’opposto.
Molto altro potremmo dire per svelare la complessità del Libro dei Giudici e i lati oscuri dei suoi protagonisti, ma ci proponiamo di riprendere l’argomento in un nuovo articolo, sperando per il momento di aver risposto adeguatamente agli interrogativi posti all’inizio.
Per approfondire:
Deterioration in The Book of Judges – lezione video della Dr. Yael Ziegler (in inglese)
Caro redattore,
Questo tuo articolo è davvero acuto e brillante, per cui penso che mi potrebbe impegnare in diversi commenti – sperando non ci siano problemi con la loro pubblicazione. Intanto vorrei confutare l’assioma che il sacro testo vieti esplicitamente i sacrifici umani. Scrivi:
“Ebbene, in nessun caso il Libro prescrive il sacrificio di vite umane. Anzi, nella sua condanna delle depravazioni dei Cananei, esso vieta esplicitamente di sacrificare la propria prole: “Non lascerai passare alcuno dei tuoi figli a Moloch e non profanerai il nome del tuo Dio. Io sono HaShem” (18:21), precetto ribadito in Deuteronomio 18:10: “Non si trovi in mezzo a te chi fa passare suo figlio o sua figlia per il fuoco”.
In tutto il Tanakh i passi che vietano i sacrifici di esseri umani non sono unicamente i due da te menzionati. In realtà sono VENTICINQUE (25). C’è però un particolare importante. Tutti quei passi – e ripeto, tutti – vietano o condannano specificamente il sacrificio dei propri figli, mai di persone in senso lato.
Se nel Tanakh ci fossero 25 brani che vietano esclusivamente il consumo di carne suina, dovremmo con ciò dedurre che tale divieto è di consumare la carne in genere? Qualora al posto di quei 25 veti ce ne fosse stato uno soltanto, comunque con riferimento solo alla prole, esso si sarebbe anche potuto intendere come una metonimia: vale a dire che il divieto, sebbene parziale, si potrebbe estendere al tutto. Tuttavia, la ripetizione ossessiva che è obbrobrioso il sacrificio della propria progenie, senza che almeno uno di quei passi si riferisca in toto a qualsiasi categoria di esseri umani, toglie ogni dubbio che i soggetti umani diversi dalla prole dell’offerente non sono inclusi in quei divieti.
D’altronde il sesto comandamento del Decalogo recita universalmente: “Non uccidere”.
Riporto di seguito i riferimenti ai 25 brani sopracitati:
Gn 22:1-2; 12 — Lv 18:21 — Levitico 20:2 — Dt 12:31 — Dt 18:10 — Gs 6:26, —1Re 16:34 — 2Re 3:27 — 2Re 16:3 — 2Re 17:17 — 2Re 17:31 — 2Re 21:6 — 2Re 23:10 — Sl 106:37-38 — Is 57:5 — Gr 7:31 — Gr 19:5 — Gr 32:35 —
Ez 16:20-21 — Ez 16:36 — Ez 20:26 — Ez 20:31—
Ez 23:37 — Ez 23:39 — Mic 6:6-7
Scrivi:
“Immaginiamo la seguente situazione: nell’antica società biblica, un ricco proprietario terriero vuole liberarsi di uno dei suoi schiavi. La Torah (unica fra i codici di leggi dell’epoca) prevede la pena di morte per chi uccide uno schiavo (Esodo 21:20). Ma il ricco potrebbe facilmente aggirare tale rischio pronunciando un voto di interdizione sul suo odiato schiavo: con questo espediente, l’omicidio che egli intende compiere cesserebbe di essere un crimine e diventerebbe un obbligo sacro.”
Il proprietario poteva apporre il Cherem esclusivamente sugli schiavi stranieri, che in assoluto erano oggetti di sua proprietà, ma non sugli schiavi ebrei volontari – che in realtà non si vendevano ma si offrivano in “affitto” a tempo determinato. Credo che l’ebreo che accettava la condizione temporanea di schiavitù non fosse così incosciente da ficcarsi nelle fauci del leone se non era protetto da garanzie.
Tali garanzie sono accennate riguardo alle figlie vendute schiave: è chiaro che il padre che vendeva una sua figlia ci tenesse a riaverla indietro dopo sei anni, illesa e in buona salute, quantomeno per cederla nuovamente a qualcun altro… in affitto. Qui ci vanno di mezzo la vita e il denaro. Sebbene la Torah non sia esplicita in merito, è improbabile che l’istituto della schiavitù volontaria potesse funzionare se l’arbitrio del padrone fosse stato assoluto.
Scrivi:
“Sebbene la legge espressa in Levitico 27 non riporti indicazioni su eventuali limiti e circostanze di applicabilità del cherem, dall’analisi dei racconti biblici in cui è menzionato questo tipo di voto si evince, come abbiamo già notato, che esso era invocato solo dai capi del popolo (o dalla nazione nella sua collettività), normalmente dopo una diretta ingiunzione da parte di Dio, nel corso di azioni militari contro nemici che rappresentavano una minaccia esistenziale per Israele.”
Tu evinci da altri passi biblici che il voto col cherem non potesse essere fatto dall’individuo comune. Ma senza andare lontano nelle pagine, penso che sarebbe il caso di soffermarci proprio sul verso 28 di Levitico 27, visto che è il capitolo che stiamo esaminando, che parla esplicitamente di beni appartenenti all’offerente, beni sia inanimati sia animati che questi può interdire con l’apposizione del cherem:
“Nondimeno, tutto ciò che UNO avrà consacrato al Signore per voto d’interdetto, FRA LE COSE CHE GLI APPARTENGONO, si tratti di una PERSONA, di un animale o di un pezzo di terra del suo patrimonio, non potrà essere né venduto, né riscattato; ogni interdetto è cosa interamente consacrata al Signore.” (Lv 27:28-29, Nuova Riveduta).
Riguardo alle offerte votive, io la vedo così:
gli uomini di ogni epoca e luogo hanno sempre fatto voti alla divinità in cui credono per avere in cambio un determinato favore. Il voto religioso altro non è che una rinuncia, la quale è di due tipi:
• Il primo consiste in una rinuncia comportamentale, un’astensione dal fare qualcosa, tipo: non mangerò cioccolata per un anno. Un esempio biblico di ciò è il voto di Anna, a proposito del quale tu scrivi, secondo me equivocando:
“Cosa significava allora cedere un essere umano a Dio? Possiamo scoprirlo leggendo il racconto di Channàh (Anna), che secondo il Libro di Samuele, nel pregare Dio affinché gli concedesse di avere un figlio, fece un voto dicendo: “Se tu mi darai un seme d’uomini, io lo darò ad HaShem” (1 Sam. 1:11).
In base alla logica di chi sostiene che la Bibbia prescriva i sacrifici umani, qui la devota Channah starebbe promettendo di sgozzare e bruciare il suo futuro figlio sull’altare del Tabernacolo (!). Ma come sappiamo, il voto qui espresso ha ben altro significato.”
Bisogna considerare che Anna offrì in voto il suo primogenito maschio, ossia volle dare a Dio ciò che era già di Dio: (“Ogni primogenito è mio… Riscatterai ogni primogenito dei tuoi figli. Nessuno comparirà davanti a me a mani vuote.” – Es 34:19-20)
Ebbene, i primogeniti maschi umani e animali appartenevano alla nascita ad HaShem, per cui non era possibile offrirglieli in dono, ma era doveroso riscattarli. Il prezzo di un neonato maschio era di 5 sicli (Lv 27:6). Si trattava in realtà di una tassa da versare a beneficio del santuario.
Anna era dunque fuori di testa? Certo che no, dal momento che il suo era soltanto uno di quei voti che io ho definito comportamentali: suo figlio sarebbe diventato nazireo a vita; come tale, si sarebbe dovuto astenere dal bere bevande inebrianti e dal tagliarsi i capelli: (“Se non dimentichi la tua serva e dai alla tua serva un figlio maschio, io lo consacrerò al Signore per tutti i giorni della sua vita e IL RASOIO NON PASSERÀ SULLA SUA TESTA” – 1Sm 1:11)
• Il secondo tipo di rinuncia è quello di privarsi di un proprio bene materiale che è donato alla divinità, in sostanza al clero. È solo di questo secondo tipo di voto che si occupa il capitolo 27 di Levitico. O meglio: si occupa delle modalità per riscattare dei beni dati al santuario. E sì, per qualunque ragione l’offerente poteva cambiare idea e decidere di riprendersi ciò che aveva donato; ma non poteva farlo impunemente: per riavere la cosa da lui offerta era obbligato a pagarla in denaro, e spesso con l’aggiunta di un quinto del suo valore. Era questo il riscatto.
I beni donati al santuario potevano essere campi, case, persone e animali. Campi e case divenivano proprietà dei sacerdoti, almeno fintanto che il fedele non se li riprendeva versando il riscatto dovuto. Ma se il fedele dichiarava Cherem il campo o la casa donati, ossia vi poneva l’interdetto, doveva rinunciare a riaverli poiché essi divenivano per sempre proprietà dei sacerdoti (Tutto ciò che in Israele sarà votato all’interdetto sarà tuo – Nm 18:14, N.R.). I sacerdoti potevano trarne lucro affittandoli o vendendoli.
In quanto alle donazioni consistenti in animali e persone: come ho detto in precedenza, tutti i primogeniti maschi del bestiame e dell’uomo appartenevano già a Dio. Di essi, gli animali sacrificabili come agnelli e vitelli venivano immolati, mentre gli animali impuri, non sacrificabili, dovevano essere sostituiti con un agnello oppure uccisi: (“Ogni primogenito è mio; mio è ogni primo parto maschio di tutto il tuo bestiame: del bestiame grosso e minuto. Ma riscatterai con un agnello il primo nato dell’asino; e, se non lo vorrai riscattare, gli romperai il collo.” — Es 34:19-20, N.R.)
Invece i primogeniti maschi umani non si potevano immolare; e quindi, dato che appartenevano all’Eterno, qual era la loro sorte? Semplicemente dovevano essere riscattati dai genitori col versamento di una somma di denaro al santuario.
Ma che ne era degli altri soggetti umani che non fossero primogeniti maschi israeliti, e cioè i secondogeniti maschi, le fanciulle e, soprattutto, gli schiavi stranieri? Ritengo che queste altre categorie si potessero donare con la possibilità del riscatto, tranne nel caso il donatore vi apponesse il cherem.
Cosa se ne faceva il sacerdote di animali e persone avuti in dono? Gli animali puri erano sacrificati e mangiati dai sacerdoti e dalle loro famiglie, però, essendoci un solo santuario in tutta Israele, è da escludere che essi fossero in grado di consumare la carne di decine o centinaia di buoi e pecore che affluivano continuamente da tutto il paese. Quello che avanzava non potevano che venderlo, e così doveva essere per gli animali non sacrificabili come asini e cammelli. Mantenere sterilmente grandi masse di bestiame a vita avrebbe costituito un suicidio economico per i sacerdoti.
In quanto alle persone, quali persone gli israeliti offrivano al santuario?
Presumibilmente schiavi stranieri. Iefte, per esempio, che viveva in esilio nel paese straniero di Tob, offrì in voto una persona qualunque della sua casa, evidentemente uno dei suoi schiavi. I sacerdoti possedevano certamente degli schiavi, e non avevano bisogno di comprarli giacché glieli donavano i fedeli. E, come per il bestiame, gli schiavi in eccedenza erano sicuramente venduti.
Nondimeno, qualora il fedele avesse dichiarato Cherem ciò che aveva donato, gli era preclusa per sempre la possibilità del riscatto.
Sorge ora la domanda: in questo caso l’offerta restava nelle mani dei sacerdoti?
Su questo punto trovo necessaria una precisazione: la rinuncia che, anche ai nostri giorni, il fedele fa con la sua offerta è proporzionata all’entità del favore che chiede alla divinità. Se è molto ciò che chiede, a molto dovrà rinunciare. Apponendovi il cherem, tengo a ripetere, il devoto israelita perdeva irrevocabilmente il bene donato. Poniamo come esempio che il dono fosse un cucciolo che lo inteneriva: non lo avrebbe più rivisto ma almeno gli era di conforto sapere che esso sarebbe stato amato e curato da altri.
Se però il favore da lui richiesto fosse stato immenso, tipo vincere una guerra, allora era tenuto ad alzare la posta al massimo livello. Non doveva soltanto allontanare dalla sua vista la cosa amata: doveva distruggerla col fuoco.
Si osservi, a questo proposito, che Iefte non offrì in olocausto uno schiavo che lui avrebbe scelto, perché in tal caso la sua parzialità lo avrebbe indotto a sacrificare il più infingardo e sleale fra i servitori che aveva nella sua casa; invece lasciò a Dio la scelta: di conseguenza poteva capitargli di far morire il servo più fedele, un amico più che uno schiavo – cosa che lo avrebbe addolorato profondamente. Non un bene di notevole valore economico egli era disposto a distruggere bruciandolo sull’altare degli olocausti, ma un affetto; e forse di servitori verso cui nutriva affezione potevano essercene diversi nella sua dimora di uomo ricco e potente.
Il testo biblico presenta a volte delle lacune nell’esposizione; mi sembra comunque lampante che l’interdizione col cherem prevedesse una gradualità della rinuncia: con quella minore il bene dato e perduto per sempre non cessava tuttavia di esistere poiché finiva in mani altrui; con la rinuncia maggiore il bene era distrutto col fuoco.
Il verso 28 del passo in argomento, in combinazione con quanto stabilisce il 29, tratta di doni dichiarati cherem dal fedele: non riscattabili quindi, ma che neppure potevano essere venduti dal sacerdote in quanto sottratti in assoluto all’uso umano. Il verso 29 fa comprendere che ora il legislatore si sta riferendo agli olocausti. Gli animali offerti nei sacrifici comuni erano cotti e mangiati, ma con l’olocausto venivano inceneriti affinché il loro odore giungesse alla divinità come cibo: “E il sacerdote lo deve far fumare sull’altare COME CIBO (Lett. “pane”. Ebr. Lèchem.) offerta fatta a Geova mediante il fuoco.” (Levitico 3:11, TNM).
Il verso 29 puntualizza che, in questo caso, se il dono era una persona (ed è comprensibile che in tale circostanza riguardo a una persona possano emergere ripensamenti) essa doveva comunque essere sacrificata. E Iefte votò appunto una persona in olocausto.
L’apposizione del cherem da parte sua non è riferita nel testo essendo implicita: trattandosi di un olocausto, l’offerta era ovviamente sottratta all’uso umano proprio perché veniva distrutta.
Scrivi:
“Il Libro dei Giudici, la cui struttura pone in evidenza il degrado morale dell’epoca in cui “non c’era alcun re in Israele, e ognuno faceva ciò che era giusto ai propri occhi”. Un degrado che non colpisce solo il popolo, ma – nella seconda metà del Libro – anche i suoi capi e condottieri: Avimelekh il tiranno, Yiftach con il suo voto, Shimshon che si invaghisce di donne straniere e prostitute, finché la figura del leader-liberatore sparisce del tutto dal testo.”
Sansone si invaghisce di donne straniere perché ciò era nella volontà di HaShem: (“Ma Sansone rispose al padre: «Prendimi quella, perché mi piace». Suo padre e sua madre non sapevano che questo veniva dal Signore, il quale cercava pretesto di lite dai Filistei.” – Giudici 14:3-4)
Frequentare le prostitute è vietato dai cristiani, non dalla Torah. Giuda, il capostipite dei giudei, pare che lo facesse d’abitudine, e Sansone, se sfuggì all’agguato dei filistei mentre era da una prostituta, fu solo grazie alla forza sovrumana che lo spirito di Dio gli infondeva e che non lo abbandonava mai… tranne quando trasgredì il suo voto di nazireo lasciandosi rasare la testa dalla filistea Dalila. Era in ciò che Sansone aveva deviato perdendo di conseguenza il favore divino, non certo in merito alla sua vita sessuale.
Naturalmente erano tempi in cui “ognuno faceva quel che gli pareva”, cionondimeno HaSHem vigilava e castigava immancabilmente chi deviava dalle sue leggi. Il libro di Giudici è il racconto di una continua alternanza di violazioni della Legge e della sua temporanea restaurazione. Anche gli uomini che HaShem eleggeva erano puniti quando sbagliavano: al generale Barak toccò l’umiliazione che il generale nemico fosse ucciso non da lui ma da una donna; di Sansone si è detto, e in quanto a Iefte si vide costretto a immolare l’unica figlia e non, come lui pensava, uno qualunque dei suoi schiavi.
Il caso di Mica da te citato (Giudici 17) è un esempio della confusione dottrinale che regnava in Israele quando il popolo si pervertiva accogliendo culti idolatrici, ma ciò comportava il castigo collettivo, a cui seguiva il pentimento. Al che HaShem poneva in Israele un giudice che controllava e guidava gli israeliti alla stretta ortodossia religiosa, la qual cosa durava fino a quando il giudice era in vita.
Scrivi:
“L’affermazione di Yiftach sull’impossibilità di revocare il suo voto non deriva in realtà dalla legge sul cherem (Levitico 27:29), ma dal fatto che qualsiasi voto era considerato irrevocabile, come la Torah stessa riconosce: “Quando uno avrà fatto un voto ad HaShem, […] non violi la sua parola, ma dia esecuzione a quanto ha promesso con la bocca” (Numeri 30:3). Ecco dunque il motivo per cui egli si sentiva obbligato a sacrificare sua figlia.”
Non sono d’accordo: si intende dire che è l’IMPEGNO a eseguire il voto ad essere irrevocabile. L’irrevocabilità non riguardava il dono poiché questo si poteva riscattare col pagamento di una somma. Diverso è il discorso di chi pronuncia un voto e poi se ne dimentica risparmiando in tal modo il bene offerto o il denaro per riscattarlo. Altrimenti il capitolo 27 – che tratta proprio del riscatto dei beni votati – non avrebbe motivo di esistere. Il verso 29 di detto capitolo definisce irrevocabile la donazione, nel senso che questa non poteva essere permutata con denaro.
Ad ogni modo ammetti che Iefte conoscesse la Torah, al punto da osservarne la regola da te menzionata che imporrebbe (secondo la tua tesi) l’irrevocabilità non solo sui voti ma pure sulle donazioni promesse, nonostante sapesse che l’ottemperanza ad essa era disastrosa per lui. Infatti, uccidendo sua figlia uccideva per sempre anche sé stesso se si considera che per gli israeliti la sopravvivenza alla morte consisteva nella propria progenie e discendenza.
Ciò è incongruente con la figura depravata che tu descrivi di questo personaggio.
Affermi che egli fosse il tipico rappresentante sregolato di un’epoca in cui ciascuno faceva quel che meglio gli pareva, giudici compresi come Sansone. Incredibilmente, però, il debosciato Iefte si rivela rigorosissimo nell’ottemperare, benché contro il proprio interesse, a quella specifica legge della Torah. Specifica, sì, dato che tale norma (ammesso che l’interpretazione che tu ne hai dato sia giusta) andrebbe spulciata con accuratezza nelle pagine del Libro.
Iefte vede la pulce ma non si accorge della montagna, ovvero: ignora il divieto tassativo dei sacrifici umani, giacché nella Torah vi sono ben CINQUE CONDANNE di sacrificare esseri umani (cioè, no… in realtà solo i propri figli, ma io continuo ad attenermi alla tua idea che la Legge proibisca e abbia in odio qualsiasi sacrificio umano).
Gli israeliti erano castigati dal Cielo quando dimenticavano clamorosamente le prescrizioni fondamentali della Legge. Come potevano, pertanto, ricevere il perdono divino se il loro stesso capo credeva che HaShem accettasse che gli si offrissero sacrifici umani? (Sempre volendo ammettere, come tu sostieni, che tali sacrifici fossero davvero proibiti e condannati dalle Scritture).
Non basta. Poiché l’esempio pratico vale assai più dell’insegnamento teorico, va inoltre considerato il fatto che Iefte, con quel voto di sacrificio rivolto proprio ad HaShem… fu da questi esaudito!
Cosa, dunque, potevano aver appreso sia lui sia gli israeliti da tale epilogo?
Evidentemente che i sacrifici umani vengono accolti dal Cielo. Altro che restaurazione dell’ortodossia religiosa per quel popolo che doveva essere una nazione santa e di sacerdoti!
Tanto più che il loro capo nella corretta conoscenza e applicazione della Torah, nei successivi sei anni sarebbe stato, per disposizione divina, un individuo contraddittorio come Iefte: uno così ignobile da mescolare i più orridi culti pagani al candore della legge divina!
In realtà, se non trascuriamo quello che dice il testo, agli israeliti i motivi di tutto il casus belli erano ben noti fin dal principio, ma a quanto pare non proprio a Iefte che viveva lontano dalla patria. Ciò è dimostrato dalla seguente polemica sorta tra HaShem e il popolo eletto ancor prima che cominciasse la vicenda in questione:
“Allora gli Israeliti gridarono al Signore: «Abbiamo peccato contro di te, perché abbiamo abbandonato il nostro Dio e abbiamo servito i Baal». Il Signore disse agli Israeliti: «Non vi ho io liberati dagli Egiziani, dagli Amorrei, dagli Ammoniti e dai Filistei? Quando quelli di Sidòne, gli Amaleciti e i Madianiti vi opprimevano e voi gridavate a me, non vi ho forse liberati dalle loro mani? Eppure, mi avete abbandonato e avete servito altri dèi; perciò io non vi salverò più. Andate a gridare agli dèi che avete scelto; vi salvino essi nel tempo della vostra angoscia!». Gli Israeliti dissero al Signore: «Abbiamo peccato; fa’ di noi ciò che ti piace; soltanto, liberaci in questo giorno». ELIMINARONO GLI DÈI STRANIERI E SERVIRONO IL SIGNORE, il quale non tollerò più a lungo la tribolazione di Israele.” (Giudici 10:10-16, CEI).
Gli israeliti, dopo anni di apostasia, avevano quindi capito la lezione: avevano soppresso gli idoli e, ovviamente, anche i culti pagani. Essi sapevano che quella guerra era gestita da Dio, e che pertanto la vittoria, grazie al loro pentimento, era certa. Dunque erano consapevoli che il voto di Iefte era superfluo, anzi offensivo verso HaShem. Offensivo non perché fosse un sacrificio umano, dato che la Torah li consente con l’eccezione della prole, ma perché Iefte aveva ribaltato le parti in causa: non lui strumento di Dio nella guerra di Dio, bensì Dio strumento di Iefte nella guerra personale di Iefte. Il fatto che egli dovette immolare non uno schiavo – il che era legittimo – ma sua figlia, il che era proibito, faceva comprendere a tutti che si trattava di una punizione celeste. Infatti, i sacrifici della propria prole potevano avvenire in Israele, non per volontà dell’uomo al fine di ottenere un favore da Dio, ma per volontà di Dio come castigo o maledizione. Un esempio è la riedificazione di Gerico, interdetta a tutti gli israeliti. Questi dovettero giurare che, chi di loro avesse voluto riedificarla nonostante quel divieto, avrebbe dovuto sacrificare due dei propri figli.
Secondo me, l’equivoco in cui incorse l’infelice Iefte fu generato dal rancore che lo consumava nei confronti dei suoi connazionali che lo avevano esiliato. Bisogna dare atto che, diversamente da un giudice suo predecessore, Gedeone, il quale era stato avvisato da un messo divino della sua investitura a condottiero degli israeliti, Iefte ne venne a conoscenza dai suoi compaesani: gli stessi che lo avevano cacciato. Ciò fece montare il suo rancore verso di loro e un gran desiderio di rivalsa. Ecco perché si convinse che quella guerra fosse una questione del tutto terrena, una sua guerra personale in cui HaShem poteva entrarci dietro sua richiesta con quel voto. Col suo castigo, doveva essere ben chiaro a lui e al popolo israelita – da poco rinsavito ma che ora rischiava di non capirci più nulla – che quella vittoria non era dovuta a quel pur legittimo voto (di immolare uno schiavo straniero), ma unicamente alla volontà di HaShem.
Un’ultima osservazione. Non poche versioni usano la locuzione “consacrare con voto di sterminio” per tradurre l’ebraico cherem. Per me cherem significa soltanto “sottrarre all’uso umano”. Ritengo quindi che il verbo consacrare sia attinente al testo solo quando si parla di offerte fatte dai fedeli e riservate ai sacerdoti senza la possibilità di riaverli indietro, oppure serbate in olocausto a Dio.
Detto verbo è invece fuori luogo quando si riferisce al comando di massacrare uomini e animali appartenenti alle popolazioni “empie”. Idem quando è usato per i condannati a morte, i quali non si potevano riscattare.
Caro Marco,
Cercherò di rispondere separatamente a tutti i temi da te sollevati.
– La Bibbia proibisce solo il sacrificio dei propri figli? È vero che in effetti tutti i versi che condannano i sacrifici umani menzionano solo l’atto di immolare i propri figli. E tuttavia si deve ricordare il principio secondo cui “La Torah parla secondo la maggioranza”: i Cananei sacrificavano i loro figli a Moloch, e questa era l’usanza adottata purtroppo anche da alcuni Israeliti, ed è contro questi riti che la Torah si scaglia. Nel periodo biblico, non abbiamo fonti che parlino di un’usanza di sacrificare persone diverse dai propri figli. In tempi più antichi, nel III millennio a.e.v., in Mesopotamia e in Egitto esisteva qualcosa del genere, ma al tempo di Mosè queste usanze erano già cessate del tutto.
Allo stesso modo, la legge della Torah parla dei danni causati da un bue e non da altri animali, condanna la strega (femmina) e non lo stregone, vieta di cuocere il capretto nel latte e non l’agnello o il vitello, tutto ciò perché “la Torah parla secondo la maggioranza”.
Ma abbiamo davvero bisogno di una proibizione esplicita? La Torah illustra espressamente quali specie si possano sacrificare per ciascun tipo di sacrificio. Prendiamo ad esempio l’olocausto (olah), che è la tipologia che Yiftach voleva offrire. Il Levitico (capitolo 1) permette di offrire in olocausto solo bestiame grosso, bestiame minuto, tortore e colombi. Nessuno poteva prendere l’iniziativa di sacrificare invece un tacchino (che è puro), un cavallo o un uomo. Nadav e Avihu sono morti davanti al Tabernacolo per aver offerto incenso nel momento sbagliato, figuriamoci come qualcuno avrebbe mai potuto offrire una specie diversa in olocausto: il protocollo rituale doveva essere seguito alla lettera secondo la Torah. Ciò del resto è confermato dai racconti del Tanakh. Prendiamo ad esempio Salomone: nessuno ha offerto più sacrifici di lui, e il testo di 1 Re 8 ci dice cosa egli offrì in occasione della costruzione del Tempio, cioè soltanto buoi e pecore, in accordo con il Levitico. E dove sono i sacrifici umani, secondo la tua opinione tanto graditi a Dio? Strano che Salomone non abbia pensato di offrire la cosa più preziosa, la vita umana, in un momento così solenne e importante come l’inaugurazione del Tempio. Eppure non aveva certo scarsità di schiavi stranieri.
Una volta che abbiamo appurato che:
1. “Dare una persona a Dio” significa cederla per il servizio del Santuario, non sacrificarla (Numeri 18:6 e 1 Sam. 1:11).
2. Il voto di interdizione non è un sacrificio, ma è anzi inteso in opposizione ai sacrifici (1 Samuele 15:20-21).
Su quale base si vuole allora insistere nel pretendere che la Bibbia accetti questi riti?
– Chi poteva invocare il cherem? Il testo del Levitico, come ho scritto, non sembra porre limitazioni. Ma ciò non sorprende: Levitico 27 non si occupa di definire i voti di consacrazione, ma di disciplinare la possibilità di riscattare ciò che era stato consacrato. In pratica, qui il testo non vuole dirci che cos’è il cherem (gli Israeliti lo sapevano già molto bene), ma sottolineare l’impossibilità di riscattare o acquistare quanto era stato votato alla distruzione.
Lo stesso avviene ad esempio in Deut 24:1, dove troviamo la legge del divorzio: “Se un uomo sposa una donna e abita con lei, se avviene in seguito che ella non trovi grazia ai suoi occhi…ecc”. Che cosa rende valido un matrimonio? Chi lo può celebrare? È permesso sposare qualsiasi donna o ci sono delle limitazioni? Tutte questioni che il testo non affronta, poiché il suo scopo qui non è di definire il matrimonio, ma di disciplinare il divorzio. Il testo si esprime perciò in un linguaggio molto generico, presupponendo che il lettore conosca già i dettagli tralasciati. Noi che viviamo a tremila anni di distanza, possiamo fare chiarezza solo consultando gli altri passi biblici dove si parla di matrimonio. Analogamente, per capire chi potesse invocare il cherem e in quali situazioni, non possiamo fermarci all’allusione generica di Levitico 27:29, né possiamo ignorare il quadro coerente che emerge dall’analisi di tutti (non di alcuni, di tutti) i brani biblici dove si parla di cherem. Anzi, in verità lo stesso quadro emerge anche dalle fonti extra-bibliche, in particolare dalla Stele di Mesha: anche qui il cherem (viene usato proprio lo stesso termine) indica un’azione drastica di distruzione nel contesto bellico, e chi lo invoca è anche qui il sovrano.
Considera inoltre che la Torah non attribuisce al singolo individuo l’autorità di decidere arbitrariamente la vita e la morte di altri esseri umani, e neppure dei suoi sottoposti. Ciò avveniva nel codice di Hammurabi e (almeno teoricamente) nelle leggi romane sulla patria potestas, ma non nella Legge di Mosè.
– Yiftach conosceva la Torah? Yiftach riteneva di essere obbligato ad adempiere il suo voto senza poter ritrattare le sue parole. Ciò è coerente con quanto la Torah comanda nella sezione relativa ai voti, in Numeri 30. Tuttavia, con questo non voglio affermare che Yiftach conoscesse quel brano specifico: la sacralità e irreversibilità dei voti era qualcosa di universalmente noto e accettato nel mondo antico, e soprattutto nel Vicino Oriente. Si credeva che i voti pronunciati con la bocca generassero entità simili a barriere fisiche, per cui violare la parola data avrebbe attirato gravi maledizioni. Bisogna poi notare che la conoscenza della Torah per gran parte dell’epoca biblica non derivava dallo studio del testo, ma dalla tradizione orale e dagli insegnamenti dei sacerdoti. Per cui non dobbiamo immaginare Yiftach in casa sua che legge la sua copia del Pentateuco e salta malauguratamente le pagine relative ai sacrifici umani. Possiamo invece paragonare Yiftach ai moderni criminali della malavita organizzata, i quali ancora oggi ostentano devozione religiosa, usano simboli cristiani, ma infrangono le più elementari norme della loro fede. E anche loro, non a caso, tengono molto alla parola data e alle promesse.
– Il Libro dei Giudici. La lettura che proponi di questo testo è riduttiva. Il meccanismo automatico peccato-punizione in Giudici esiste, ma è presente solo nella prima metà del libro. Nella seconda, questo viene gradualmente a decadere. Ho menzionato la vicenda dell’idolo di Michah per mostrare come la narrazione ci presenti un atto palesemente contrario alla Torah (la costruzione di un idolo, poi divenuto divinità ufficiale della tribù di Dan) ma senza nessuna condanna esplicita. In questa storia, gli idolatri trionfano indisturbati e le loro imprese hanno successo. Com’è possibile? È la stessa provocazione che l’autore ci presenta al capitolo 11, nel caso del sacrificio di Yiftach. In questa sede non posso spiegare tutto nei dettagli (forse lo farò in un altro articolo), ma in breve si può notare che i sette Giudici principali sono divisi in due gruppi: da un lato Otniel, Ehud e Devorah / Barak; dall’altro Avimelekh, Yiftach e Shimshon (Ghidon è al centro tra i due gruppi e rappresenta il punto di svolta). I Giudici del secondo gruppo sovvertono l’operato dei primi tre, mostrando che la cifra del libro è il declino inesorabile. Ma è un discorso ben più complesso che merita una trattazione separata.
– Usare il verbo “consacrare” per indicare stermini o azioni di guerra non è fuori luogo. In questo caso le traduzioni non sbagliano, ma il divario tra l’immaginario antico e quello moderno crea difficoltà di comprensione. Nella Bibbia gli idoli delle città conquistate sono abominevoli e contaminati, ma sono “sacri ad HaShem”, cioè sottratti a ogni uso umano e annientati.
Per ora mi fermo qui. Se ho tralasciato qualcosa o vorrai chiedermi di chiarire qualche dettaglio, sono disponibile al dibattito. Però non vorrei ritornare ancora sulle stesse identiche questioni perché la mia opinione è già stata espressa ampiamente.
Mi rendo conto di quanto sia delicato quest’argomento, per cui anch’io non vorrei tornare sulle stesse identiche questioni avendo già espresso le mie opinioni in merito. Ma terrei almeno a qualche chiarimento; intanto riguardo alla figura che presenti di Iefte: dato che paragoni la sua religiosità a quella contorta e contraddittoria del mafioso che, tra un crimine e l’altro, legge assiduamente il vangelo, mi chiedo come si concilia questa immagine col fatto che egli, su mandato divino, fu in seguito giudice d’Israele per sei anni, cioè finché visse.
Il giudice… non è chi applica le leggi? E per poterle applicare non dovrebbe conoscerle a menadito? Da noi i giudici sono nominati per concorso pubblico, i quali potrebbero anche essere truccati, ma i giudici d’Israele erano scelti dal Cielo. Possibile che HaShem avesse preso un abbaglio incaricando un individuo come lui, al controllo della corretta esecuzione della Torah in quella nazione che aveva la missione di essere santa e di sacerdoti e futura guida di tutte le nazioni?
Consideriamo questi aspetti: Cosa succedeva in Israele durante il tempo di pace finché il giudice era vivo? E cosa accadeva dopo la sua morte? I seguenti versi rivelano che:
“Quando il Signore suscitava loro dei giudici, il Signore era con il giudice e li liberava dalla mano dei loro nemici durante tutta la vita del giudice; perché il Signore si lasciava commuovere dai loro gemiti sotto il giogo dei loro oppressori. 19 Ma quando il giudice moriva, tornavano a corrompersi più dei loro padri, seguendo altri dèi per servirli e prostrarsi davanti a loro, non desistendo dalle loro pratiche e dalla loro condotta ostinata.” — Gdc 2:18-19, CEI.
Qui il testo afferma che il popolo tornava regolarmente a corrompersi, ma ciò accadeva soltanto dopo la morte del giudice. Intanto, fino a che il giudice viveva, gli israeliti erano in pace con Dio essendo evidentemente in linea con le sue leggi. Da ciò io intendo che Iefte, inviato da HaShem non solo per la guerra ma anche per osservare in tempo di pace la corretta condotta religiosa degli israeliti, fosse necessariamente un attento conoscitore della Torah. Che, insomma, fosse un GIUDICE, nell’accezione universale di questo termine.
Altrimenti, volendogli attribuire quella “duttilità morale” che tu gli addebiti, e considerando il precedente di dominio pubblico che aveva immolato sua figlia, come avrebbe giudicato durante il suo mandato quegli israeliti che avessero compiuto sacrifici umani? Colpevoli o innocenti? Sentenziandone eventualmente la colpevolezza, cosa avrebbe potuto rispondere ai condannati che gli avessero contestato l’atto da lui compiuto su sua figlia?
Ci sarebbe un altro personaggio da te menzionato sulla cui connotazione da te data non sarei d’accordo: Abimelec… con la carica di giudice?
Tengo a rimarcare che l’epoca dei giudici era divisa in fasi alterne di declino morale, poi di castigo, infine di redenzione. Quest’ultima fase durava solo finché il giudice era vivo, ma dopo la sua morte Israele precipitava di nuovo nella corruzione. Ebbene, Abimelec, era figlio del giudice Gedeone, ma non giudice egli stesso dato che tale carica non era ereditaria. Coerentemente con le fasi alterne di cui dicevo, dopo la morte di Gedeone ci fu, come sempre accadeva, la caduta di Israele nell’anarchia, e Abimelec ne fu protagonista:
“Dopo la morte di Gedeone gli Israeliti tornarono a prostituirsi a Baal e presero Baal-Berit come loro dio”. (Giudici 8:33, CEI).
Abimelec, essendo defunto suo padre, in assenza del governo di un giudice, agì in modo che i nobili lo proclamassero re d’Israele, ma certo non fu eletto a nessun titolo da HaShem.
Scrivi:
“Il Libro dei Giudici. La lettura che proponi di questo testo è riduttiva. Il meccanismo automatico peccato-punizione in Giudici esiste, ma è presente solo nella prima metà del libro. Nella seconda, questo viene gradualmente a decadere. Ho menzionato la vicenda dell’idolo di Michah per mostrare come la narrazione ci presenti un atto palesemente contrario alla Torah (la costruzione di un idolo, poi divenuto divinità ufficiale della tribù di Dan) ma senza nessuna condanna esplicita. In questa storia, gli idolatri trionfano indisturbati e le loro imprese hanno successo. Com’è possibile? È la stessa provocazione che l’autore ci presenta al capitolo 11, nel caso del sacrificio di Yiftach. In questa sede non posso spiegare tutto nei dettagli (forse lo farò in un altro articolo), ma in breve si può notare che i sette Giudici principali sono divisi in due gruppi: da un lato Otniel, Ehud e Devorah / Barak; dall’altro Avimelekh, Yiftach e Shimshon (Ghidon è al centro tra i due gruppi e rappresenta il punto di svolta). I Giudici del secondo gruppo sovvertono l’operato dei primi tre, mostrando che la cifra del libro è il declino inesorabile. Ma è un discorso ben più complesso che merita una trattazione separata.”
Per quanto concerne la suddivisione che fai dei giudici principali in due gruppi, nel secondo, secondo te “decadente” sul piano morale, hai incluso un Abimelec che non ne farebbe parte in quanto non era giudice; riguardo a Iefte la sua inclusione nella lista nera è dubbia dato che non solo a mio parere ma anche secondo l’esegesi cristiana è un personaggio positivo (Paolo di Tarso ne tesse le lodi per la sua fede).
Sansone, infine: sulla sua moralità credo sia il giudizio di HaShem e non i pregiudizi umani che dovrebbero contare. La sola colpa per la quale il Cielo lo punì fu di aver infranto il suo obbligo di nazireo di non radersi mai i capelli. Niente a confronto del beniamino di HaShem, Davide, adultero e assassino, e quel che è peggio ai danni di un suo fidatissimo ufficiale.
Perché, poi, poni Gedeone come punto di svolta? Sarà perché volle che il messo divino si accreditasse come tale con delle prove?
Scusami, ma non posso fare a meno di contestare alcune tue dichiarazioni:
Scrivi:
“Nel periodo biblico, non abbiamo fonti che parlino di un’usanza di sacrificare persone diverse dai propri figli. In tempi più antichi, nel III millennio a.e.v., in Mesopotamia e in Egitto esisteva qualcosa del genere, ma al tempo di Mosè queste usanze erano già cessate del tutto.”
All’opposto di ciò che affermi, nell’opera “Il ramo d’oro” di Frazer, il tema dei sacrifici umani nell’antichità è trattato lungamente; ne parla molto anche Erodoto nelle sue “Storie” sull’impero persiano e sulle guerre persiane, e Cesare nel “De bello gallico”. Le vittime sacrificali elencate da questi autori sono unicamente schiavi, prigionieri, criminali, MAI figli degli offerenti. Tito Livio racconta (Ab urbe condita XXII, 57) che in seguito alla disfatta militare di Canne per opera di Annibale furono sacrificati un uomo e una donna greci e un uomo e una donna celtici, i quali furono sepolti vivi nel foro Boario. E che dire della “guerra dei fiori” praticata ogni primavera dagli aztechi per catturare prigionieri da sacrificare in onore del sole?
Da queste fonti sappiamo che gli uomini antichi erano sì crudeli ma non così folli da immolare i propri figli sugli altari. Questa malsana idea che la “materia prima” per tali riti utilizzata dai popoli odiati fosse la propria progenie non è solamente biblica: nell’era odierna molti archeologi e studiosi sostengono che il sacrificio di bambini presso fenici e cartaginesi sia pura fantasia, frutto di propaganda di storici minori come Diodoro Siculo e Plutarco, appartenenti a culture, come quelle greca e romana, avverse alla civiltà punica.
Scrivi:
“Considera inoltre che la Torah non attribuisce al singolo individuo l’autorità di decidere arbitrariamente la vita e la morte di altri esseri umani”
Direi piuttosto che la Torah non attribuisce esplicitamente tale autorità, ma tu stesso affermi che: “Il testo si esprime in un linguaggio molto generico, presupponendo che il lettore conosca già i dettagli tralasciati”. Una cosa che il testo biblico presuppone – che era scontata per gli antichi ma appare sconcertante oggigiorno – è che padri e mariti avessero piena autorità sulla vita di mogli e figli. Ciò è rivelato da racconti come quella del vecchio di Ghibea emulo del buon Lot a Sodoma, entrambi “stranissimi” malvagi dato che, offrendo a torme di violentatori le proprie figlie vergini (fonti di lauti guadagni, maritandole) ci rimettevano economicamente e in più si inimicavano a proprio pericolo la comunità in cui vivevano. Ma di questo abbiamo già parlato.
Scrivi:
“Una volta che abbiamo appurato che:
1. “Dare una persona a Dio” significa cederla per il servizio del Santuario, non sacrificarla (Numeri 18:6 e 1 Sam. 1:11).
2. Il voto di interdizione non è un sacrificio, ma è anzi inteso in opposizione ai sacrifici (1 Samuele 15:20-21).
Su quale base si vuole allora insistere nel pretendere che la Bibbia accetti questi riti?”
Veramente questo lo hai appurato solamente tu, mentre io ho sostenuto l’esatto contrario.
Nessun problema a fornire qualsiasi chiarimento.
Scrivi: “Il giudice… non è chi applica le leggi? E per poterle applicare non dovrebbe conoscerle a menadito?”
Prima bisogna chiedersi cosa significhi la parola Shofet, tradotta con “giudice”. Shofet nella Bibbia non è un Dayan (giudice di un tribunale). Nel Libro dei Giudici, il termine Shofet è usato per indicare dei capi militari, dei condottieri. Con l’eccezione di Devorah, nessuno dei giudici del Libro è presentato nell’atto di “giudicare”. Cercando Shofet su qualche dizionario troverai che alcuni traducono questa parola anche come “capo” o “vendicatore”. Ne abbiamo la prova in 1 Samuele 8:20, quando il popolo dice: “Il nostro re ci giudicherà (Shefatanu), marcerà alla nostra testa e condurrà le nostre guerre”. Il contesto qui è la conduzione della guerra, non il giudizio nei tribunali. E questo significato risulta molto più coerente con la figura di Yiftach, reietto figlio di una prostituta, compagno di uomini senza valore e protagonista di scorrerie (11:3).
Scrivi: “Possibile che HaShem avesse preso un abbaglio incaricando un individuo come lui, al controllo della corretta esecuzione della Torah in quella nazione che aveva la missione di essere santa e di sacerdoti e futura guida di tutte le nazioni?”
Non per la corretta esecuzione della Torah, ma per liberare Israele dal giogo di Ammon. Essere scelto da Dio per un simile compito militare non è una garanzia di essere giusto. Secondo Isaia, il re pagano Ciro di Persia è stato scelto da Dio come “suo messia” (45:1). E poi con questo criterio ci si potrebbe anche chiedere: HaShem ha preso un abbaglio a scegliere Saul? A far uscire gli Israeliti dall’Egitto che alla prima occasione hanno adorato un vitello d’oro? A creare l’uomo che si volge continuamente al male? La storia biblica funziona così, chi viene scelto da Dio spesso commette gravi errori poiché la predilezione divina non annulla la libertà di scelta.
Hai citato Giudici 2:18-19, secondo cui il popolo si corrompeva solo in seguito alla morte del Giudice in carica. Ma questo è appunto lo schema presentato all’inizio del Libro, pienamente valido per la prima triade di Giudici; ma in seguito questo stesso schema finisce per sgretolarsi gradualmente, fino ad arrivare a Shimshon, il giudice suscitato da Dio ma rifiutato dal popolo, e poi negli ultimi capitoli la figura del Giudice sparisce del tutto e il popolo vive in balia dell’immortalità e dell’anarchia.
L’epistola agli Ebrei (non Paolo di Tarso, che non è l’autore) elogia la fede di Yiftach? Lo aggiungiamo alla lunga lista di interpretazioni bizzarre del Tanakh che troviamo in questa lettera malauguratamente finita nel Nuovo Testamento. I Maestri del Talmud invece condannano Yiftach severamente, e del resto già l’autore di 1 Samuele non ha esitato ad accostare il deviato Shaul al modello negativo Yiftach, come ho scritto nell’articolo. Ma anche tu sai bene che il sacrificio della prole era cosa esplicitamente proibita, quindi perché continuare a sostenere l’irreprensibilità di questo personaggio?
Riguardo i sacrifici umani, gli esempi da te riportati non sono pertinenti in quanto riguardano epoche troppo tarde e popoli con cui gli Israeliti non avevano alcun contatto nell’epoca biblica (Romani, Persiani, e addirittura Aztechi). La Bibbia non parla delle pratiche di queste nazioni per lo stesso motivo per cui non include i canguri nella lista degli animali non kasher. All’epoca del Pentateuco e dei Profeti, gli unici sacrifici umani effettivamente eseguiti riguardavano il sacrificio della prole. Tale pratica abominevole è attribuita ai Cananei, ai Moabiti (in un solo caso estremo), a due re di Israele e agli stranieri inviati dagli Assiri in Samaria. La Torah proibisce quindi questo tipo di sacrificio e non gli altri, che non esistevano o comunque non erano per nulla comuni, al punto che di essi non c’è traccia nelle fonti.
Scrivi:
“Veramente questo lo hai appurato solamente tu, mentre io ho sostenuto l’esatto contrario”.
La filologia e l’esegesi non sono scienze esatte ed è naturale che le interpretazioni che ciascuno può proporre siano di natura soggettiva. Ma non è sempre così: ci sono elementi testuali che, una volta rilevati, risultano indiscutibili. Se abbiamo un verso in cui si dice che qualcuno ha violato l’interdizione del cherem offrendo un sacrificio con il bestiame che era interdetto, ciò significa oggettivamente e chiaramente che il cherem non è e non può essere inteso come un sacrificio. Se abbiamo due versi (Numeri 18:6 e 1 Sam. 1:11) in cui l’espressione “dare una persona a Dio” è esplicitamente intesa come “assegnare qualcuno al servizio esclusivo del Santuario”, allora non si può in alcun modo insistere che tale espressione indichi un sacrificio umano. Se abbiamo un codice rituale molto dettagliato e severo che ci indica che l’Olah (olocausto) consiste nell’offerta di tre tipi specifici di animali, allora non è corretto affermare che la Torah riconosca l’olocausto di esseri umani. Le idee sui sacrifici umani che tu sostieni sono semplicemente assenti dal testo, e incompatibili con esso. È un po’ come quando mi capita di discutere con quei Cristiani convinti che in Genesi si parli della Trinità. Certo, si tratta della loro opinione, ma ciò non vuol dire che essa sia legittima dal punto di vista testuale.
L’esegesi del testo biblico è possibile, ma non credo che lo sia pure della Storia, cosa che mi pare tu abbia fatto.
Infatti, scrivi:
“Riguardo i sacrifici umani, gli esempi da te riportati non sono pertinenti in quanto riguardano epoche troppo tarde e popoli con cui gli Israeliti non avevano alcun contatto nell’epoca biblica (Romani, Persiani, e addirittura Aztechi). La Bibbia non parla delle pratiche di queste nazioni per lo stesso motivo per cui non include i canguri nella lista degli animali non kasher. All’epoca del Pentateuco e dei Profeti, gli unici sacrifici umani effettivamente eseguiti riguardavano il sacrificio della prole. Tale pratica abominevole è attribuita ai Cananei, ai Moabiti (in un solo caso estremo), a due re di Israele e agli stranieri inviati dagli Assiri in Samaria. La Torah proibisce quindi questo tipo di sacrificio e non gli altri, che non esistevano o comunque non erano per nulla comuni, al punto che di essi non c’è traccia nelle fonti.”
Se ho ben compreso, dici che la Torah proibisce unicamente i sacrifici della prole e non gli altri perché – affermi – i sacrifici d’altro tipo non esistevano in epoca biblica al punto che – sostieni – di essi non vi sarebbe traccia nelle fonti.
Al contrario, proprio su questo io avrei due fonti rilevanti da citare: una è la Bibbia, l’altra sei proprio tu.
Prima fonte, Bibbia, libro dei Giudici: Iefte promette l’olocausto NON di sua figlia, MA della prima persona che gli fosse andata incontro al suo ritorno. Chi poteva essere quella prima persona? Dato che, a quanto asserisci, solamente la prole era sacrificata in quell’epoca, dovremmo congetturare che egli intendesse dire: immolerò il primo dei miei figli che mi verrà incontro…
Ma, no, questa ipotesi va subito scartata poiché lui aveva soltanto quella figlia, e non era sua intenzione sacrificarla. È chiaro, quindi, che il suo proposito fosse di immolare uno dei propri schiavi, e doveva averne molti data la sua posizione di uomo ricco e potente.
Seconda fonte, te stesso: ammetti che Iefte promise effettivamente l’olocausto umano di una persona della sua casa (la quale, come si è detto, non poteva che essere uno schiavo); dichiari inoltre che egli pronunciò quella tragica promessa non in applicazione della Torah, ma perché era contaminato – a quanto dici – dalle usanze dei popoli idolatri confinanti con Israele. Ergo, in sostanza confermi che tali popoli d’epoca biblica, le cui usanze Iefte imitava, compivano sacrifici di schiavi, non necessariamente dei loro figli.
D’altra parte, le generiche offerte sacrificali elencate nella Torah, e che certamente erano comuni presso tutti i popoli della Terra, presentano una debita gradualità di valore proporzionata all’entità del sacrificio: si comincia con oblazioni di farina, olio, focacce, per passare alle tortore, poi agli agnelli, quindi ai bovini, infine agli esseri umani. Anche in questo caso, nelle popolazioni antiche, c’era una gradualità che procedeva dagli schiavi stranieri fino ai propri figli.
Ma, secondo la tua interpretazione della storia, non sarebbe così: niente sacrifici di schiavi o di prigionieri, sostieni, bensì esclusivamente della prole.
In realtà dovrebbe, per pura logica, essere il contrario.
E, se proprio dobbiamo parlare di fonti storiche, vorrei sapere in base a quale legge condivisa sarebbero stati obbligati fenici, moabiti, ammoniti ecc., e quindi pure gli israeliti che li emulavano, a non immolare i loro schiavi e a preferire, irragionevolmente, al loro posto la propria progenie?
Dunque, farina, agnelli, buoi… e figli erano dati alle fiamme in olocausto. Ma, escludendo gli schiavi, non ti pare che così nell’elenco delle offerte possibili ci fosse un vuoto? Un vuoto peraltro troppo scomodo per parecchi motivi. Vediamone alcuni:
gli schiavi erano soltanto oggetti d’uso che si potevano acquistare e sostituire col denaro, mentre i figli erano gli eredi dei beni e la continuazione della stirpe e, a differenza degli schiavi, non si potevano comprare.
Quest’ultimo inconveniente in particolare penalizzava anche gli uomini ricchi poiché a chiunque può succedere di non riuscire a generare figli o di averne pochi, specie in considerazione dell’altissima mortalità infantile che ha flagellato l’umanità fin quasi ai nostri giorni.
Tale scomodità riguardava soprattutto gli uomini celibi, o quelli sposati ma a cui la prole tardava a venire: essi sarebbero stati ingiustamente sfavoriti non potendo sacrificare, in situazioni d’urgenza, un proprio figlio non avendone ancora alcuno, o magari perché ne avevano uno soltanto. In fondo questo è appunto il caso di Iefte che aveva una figlia unigenita, la quale rappresentava la sua unica speranza di avere una discendenza. Realisticamente, egli non si sognò di offrire lei in sacrificio… aveva la disponibilità di un certo numero di schiavi!
Ribadisco, quindi, che i 25 passi presenti nel Tanakh di condanna del sacrificio della prole e non di altre categorie umane si caratterizza nient’altro come una forma di demonizzazione dei popoli confinanti con Israele: se qui era lecito sacrificare SOLO schiavi, gli iniqui pagani immolavano oltre agli schiavi ANCHE la prole.
Scrivi:
“Nel Libro dei Giudici, il termine Shofet è usato per indicare dei capi militari, dei condottieri. Con l’eccezione di Devorah, nessuno dei giudici del Libro è presentato nell’atto di “giudicare”.
Debora NON guidava l’esercito; l’armata israelita era al comando del generale Barak. Se anche Debora era “Shofet” – termine ebraico che per te ha il solo significato di capo militare – va detto che contrariamente lei si occupava soltanto di questioni giudiziarie e non di guerra. Tuttavia, se nel testo questa donna è designata “Shofet”, allora tale termine dovrebbe avere il duplice significato di condottiero e di giudice di tribunale.
E poiché Debora, indicata nel testo come giudice d’Israele, si occupava di presiedere le vertenze legali, non si vede la ragione per cui gli altri suoi colleghi, solo in quanto non è segnalata nel testo anche per loro tale funzione, ne sarebbero stati esenti. Certo, pensare a un presidente di tribunale colpevole di un sacrificio umano e rimasto impunito che giudica chi ha commesso un crimine dello stesso genere, sarebbe davvero paradossale.
Del resto i condottieri erano suscitati solo in occasione delle guerre di liberazione da nemici resi vincitori proprio da HaShem. Tornata la pace, il rischio di nuove guerre era scongiurato poiché Dio acquietava i popoli nemici quando voleva e per quanto tempo voleva. Un esempio è il lungo regno di Salomone, prospero e pacifico e lasciato indenne dall’ostilità dei vicini per volontà divina. Pertanto, se il termine Shofet indicasse unicamente il capo militare, puoi dirmi a che cosa serviva un condottiero nei lunghi anni di pace assicurati dall’Onnipotente? Evidentemente lo Shofet aveva anche compiti giudiziari, appunto come Debora, altrimenti tanto valeva licenziarli se non erano più utili. Invece il testo si premura di informarci più volte che essi restavano in carica finché erano in vita. E, guarda un po’, solo fintanto che c’erano loro il popolo non cadeva più nell’immoralità. Era un caso? Una coincidenza? Con tutti i giudici?
Scrivi:
”la figura di Yiftach, reietto figlio di una prostituta, compagno di uomini senza valore e protagonista di scorrerie (11:3).”
Perdonami, ma io qui scorgo un velo di puritanesimo. Nessuno si sceglie i genitori che ha, e l’idea della tara genetica è inaccettabile. Reietto sì, perché scacciato ingiustamente di casa e dalla patria dai suoi connazionali. In quanto alle cattive compagnie, egli, ormai privo di tutto, era costretto al randagismo in terre straniere, e lì non aveva molta scelta: o si riduceva a fare il guardiano di porci come l’evangelico figliol prodigo, oppure utilizzava le sue doti carismatiche per diventare qualcuno.
Certo, si rese protagonista di scorrerie, ma queste le attuava nel paese di Tob, che era una nazione nemica di Israele. Anche Davide fu autore di scorrerie, e persino come mercenario al servizio di un re pagano, al quale mentiva facendogli credere di razziare le genti alleate d’Israele, mentre sterminava fino all’ultimo lattante i villaggi vassalli di quel re: ciò allo scopo di non lasciare testimoni del suo tradimento. E Dio non lo punì per quei massacri. Ma non c’era ragione che Davide fosse punito: in fondo assassinava i nemici d’Israele.
Anche Sansone rapinò dei loro abiti e assassinò 30 civili filistei, mentre era in pace con quel popolo essendosi coniugato con una filistea, e nel frattempo lo spirito divino era lì con lui… a suo sostegno. Tutto ciò rivela che, secondo la morale biblica, depredare e ammazzare i nemici d’Israele fosse del tutto lecito.
Nondimeno, per gli apologeti, la figura di Iefte DEVE, necessariamente, risultare negativa.
Scrivi:
“E poi con questo criterio ci si potrebbe anche chiedere: HaShem ha preso un abbaglio a scegliere Saul? A far uscire gli Israeliti dall’Egitto che alla prima occasione hanno adorato un vitello d’oro? A creare l’uomo che si volge continuamente al male? La storia biblica funziona così, chi viene scelto da Dio spesso commette gravi errori poiché la predilezione divina non annulla la libertà di scelta.”
C’è una differenza sostanziale: gli israeliti adoratori del vitello d’oro, e Saul e molti altri furono tutti duramente castigati dal Cielo. Iefte, invece, fu premiato: ottenne la vittoria in guerra che lui tanto aveva agognato, e conservò il titolo di giudice finché visse. Che dire allora? Che HaShem un abbaglio dovrebbe averlo preso comunque: non per aver scelto Iefte ma per il fatto che dopo le sue azioni lo ricompensò invece di punirlo:
“Dio misericordioso e pietoso, […] che perdona la colpa, la trasgressione e il peccato, ma non lascia senza punizione…” (Esodo 34:6-7, CEI).
Si comprende che Dio non impedisce la trasgressione, ma, poiché è un dio di giustizia, NON LA LASCIA IMPUNITA.
Rifacendomi al detto “Ciò che non è proibito è permesso”, io direi che tutto ciò che HaShem non punisce sia lecito. E Iefte non ebbe punizioni.
Scrivi:
“Hai citato Giudici 2:18-19, secondo cui il popolo si corrompeva solo in seguito alla morte del Giudice in carica. Ma questo è appunto lo schema presentato all’inizio del Libro, pienamente valido per la prima triade di Giudici; ma in seguito questo stesso schema finisce per sgretolarsi gradualmente, fino ad arrivare a Shimshon, il giudice suscitato da Dio ma rifiutato dal popolo, e poi negli ultimi capitoli la figura del Giudice sparisce del tutto e il popolo vive in balia dell’immoralità e dell’anarchia.”
Ripeti lo schema delle due triadi di giudici, e io torno a ribadire che essa è soggettiva: intanto Abimelec, il primo personaggio della seconda triade, non era un giudice, per cui non abbiamo più una triade; Iefte, da un punto di vista soggettivo, DEVE assolutamente apparire un mostro altrimenti si dovrebbe ammettere l’inammissibile, che cioè la Torah approva anche i sacrifici umani con l’eccezione dei figli; su Sansone non mi pare si rilevino parole di critica nel testo, ché anzi lo spirito divino fu sempre con lui, a eccezione di quando si fece tagliare i capelli. Certo, il personaggio fa storcere il naso ai benpensanti, ma questi ultimi avrebbero molti più motivi di storcerlo leggendo parecchie altre cose nelle pagine della Bibbia: per esempio l’indignazione di Mosè alla vista di decine di migliaia di prigionieri madianiti condotti dai suoi soldati:
«Mosè disse loro: Avete lasciato in vita tutte le femmine?» […] Ora uccidete ogni maschio tra i fanciulli e uccidete ogni donna che si è unita con un uomo!» — Nm 31:15; 17, CEI.
E HaShem, l’onnisciente, lo lasciò fare e non lo punì perché, evidentemente, Mosè agì nel giusto.
Scrivi:
“Se abbiamo un codice rituale molto dettagliato e severo che ci indica che l’Olah (olocausto) consiste nell’offerta di tre tipi specifici di animali, allora non è corretto affermare che la Torah riconosca l’olocausto di esseri umani. Le idee sui sacrifici umani che tu sostieni sono semplicemente assenti dal testo, e incompatibili con esso.”
Molti particolari importanti sono assenti nel testo biblico; sono tuttavia impliciti. Dopotutto questa osservazione è proprio tua, quando scrivesti:
“Lo stesso avviene ad esempio in Deut 24:1, dove troviamo la legge del divorzio: “Se un uomo sposa una donna e abita con lei, se avviene in seguito che ella non trovi grazia ai suoi occhi…ecc”. Che cosa rende valido un matrimonio? Chi lo può celebrare? È permesso sposare qualsiasi donna o ci sono delle limitazioni? Tutte questioni che il testo non affronta, poiché il suo scopo qui non è di definire il matrimonio, ma di disciplinare il divorzio. Il testo si esprime perciò in un linguaggio molto generico, presupponendo che il lettore conosca già i dettagli tralasciati.”
Concordo: il testo si esprime in un linguaggio molto generico, presupponendo che il lettore conosca già i dettagli tralasciati.
Scrivi:
“Prima fonte, Bibbia, libro dei Giudici: Iefte promette l’olocausto NON di sua figlia, MA della prima persona che gli fosse andata incontro al suo ritorno”.
La tua è un’obiezione ragionevole, ma questo elemento non basta da solo a provare l’esistenza di una pratica che non trova attestazioni altrove. Se anche volessimo attribuire al brano un pieno valore storico, ciò potrebbe semmai suggerire che l’idea di sacrificare una persona diversa dai propri figli fosse considerata accettabile (o almeno non impensabile) nel contesto culturale di Canaan, non che fosse una pratica comune. Anche i Romani hanno compiuto sacrifici umani occasionalmente, ma questa non era generalmente una loro usanza, come anche Livio ricorda, e lo stesso si può applicare al nostro caso. Le ultime attestazioni di sacrifici di schiavi nel Vicino Oriente antico risalgono a oltre 500 anni prima di Mosè, ed erano in ogni caso molto distanti dall’immaginario biblico, essendo legate alle credenze sull’oltretomba. Invece, uno studio pubblicato nel 2014 e condotto dalla Oxford University ha confermato l’esistenza storica dei sacrifici di bambini da parte dei Fenici.
Tu cerchi di negare ciò attraverso ragionamenti logici e “pragmatici”, ma la religione e la fede rispondono spesso ad altre logiche. Da quanto si deduce dalla Bibbia stessa, possiamo dire che il sacrificio della prole traeva la sua origine proprio dal fatto che i figli erano considerati la cosa più cara per i loro genitori, ed erano quindi idonei a rappresentare l’offerta per eccellenza, la rinuncia del singolo per il bene della collettività, oltre a costituire un esempio di purezza e innocenza. Un significato per nulla applicabile al sacrificio di schiavi e criminali. L’idea era così radicata da essere sopravvissuta in altra forma anche nel Cristianesimo, dove il sacrificio perfetto che permette la salvezza dell’umanità è proprio quello dell’unigenito figlio di Dio senza peccato.
Considera quanto è scritto in Michea 6:
“Con che cosa verrò in presenza di HaShem e mi inchinerò davanti al Dio Altissimo? Verrò in sua presenza con olocausti, con vitelli di un anno? Gradirà forse HaShem le migliaia di montoni, le miriadi di fiumi d’olio? Dovrò forse offrire il mio primogenito per la mia trasgressione,
il frutto delle mie viscere per il mio peccato? O uomo, Egli ti ha fatto conoscere ciò che è bene; che altro richiede da te HaShem, se non che tu pratichi la giustizia, che tu ami la misericordia e cammini umilmente con il tuo Dio?”
In questo brano, il profeta critica l’ossessione rituale del popolo verso i sacrifici, che spesso portava Israele a trascurare i doveri morali. In un climax ascendente, il discorso parte dal sacrificio di un vitello, passando poi a “migliaia di montoni”, fino ad arrivare al “mio primogenito, frutto delle mie viscere”. Come vedi, gli autori biblici non percepivano alcun “vuoto” tra i sacrifici animali e il sacrificio della progenie, poiché Michea passa dai montoni al primogenito senza passare per schiavi, concubine o mogli.
Come ho già detto, il protocollo rituale del Levitico è molto dettagliato, non sono accettate deviazioni. Chi vuole sapere che cos’era l’Olah nell’antico Israele deve basarsi su quello che il testo spiega a chiare lettere, non su considerazioni pragmatiche. È vero, come ho detto, che “il testo si esprime in un linguaggio molto generico, presupponendo che il lettore conosca già i dettagli tralasciati”, ma ciò non si applica di certo al protocollo rituale dei sacrifici, che è illustrato nei minimi dettagli, considerando anche il fatto che il testo non sorvolerebbe mai su qualcosa di tanto importante come i sacrifici umani, quando invece parla minuziosamente dei sacrifici di buoi, torelli e capretti. Tra l’altro, quando un brano è generico, la soluzione sta nel consultare altri passi biblici in cui compare la stessa espressione (come ho fatto nell’articolo a proposito del cherem) oppure consultare le fonti extrabibliche, se rilevanti. E da tale confronto non emerge alcun lasciapassare biblico al sacrificio umano.
Sul Libro dei Giudici non posso soffermarmi molto qui, ci dedicherò uno o più articoli prima o poi perché il discorso è troppo complesso. Dico solo che la tua interpretazione presenta un errore di fondo: il tuo presupposto secondo cui a ogni peccato corrisponda sempre un’esplicita condanna o una palese punizione. Ma nella Bibbia non è così. Il Tanakh è molto più articolato e profondo di quanto credi, e lo dico senza scherno, senza aria di superiorità o presunzione dogmatica. Quello che affermo si basa sull’analisi del Tanakh con gli strumenti della letteratura, gli stessi che si adoperano nell’analisi di qualsiasi altro classico. Ci sarebbero davvero molti esempi da citare a conferma di quanto dico, ma non occorre andare troppo lontano: proprio nello stesso libro, a pochi capitoli di distanza, abbiamo l’esempio più palese di tutti, quello della tribù di Dan che si appropria dell’idolo di Michah e trionfa incontrastata. In base alla tua stessa logica, dovresti allora affermare che questo racconto descriva gli Israeliti idolatri come dei giusti, in quanto essi non vengono condannati dalla voce narrante, né puniti, ma anzi riescono nelle loro imprese. Ma non bisogna cadere nell’errore di Elia: spesso Dio non è nel vento, nel terremoto o nel fuoco, ma in un sussurro.
Voglio anche chiarire che non è per un “velo di puritanesimo” che ho ricordato le origini infamanti di Yiftach e la sua frequentazione di “uomini senza valore”. Le mie osservazioni si basano sul testo, non su considerazioni personali. E il testo biblico, quando parla di qualcuno che frequenta “uomini senza valore” (anashim rekim), lo fa sempre per farci presagire qualche guaio. Ciò accade infatti con Avimelekh (7:16) e con David. Quest’ultimo si circondava di facinorosi nel suo periodo buio di latitanza, quando stava per commettere ingiustamente una strage in casa di Naval, sotto l’influenza delle sue cattive compagnie.
Riguardo al termine Shofet, non ho mai scritto che non significa “giudice”, bensì che ha anche altri significati legati alla conduzione della guerra. Significati che si addicono molto di più a figure come Yiftach e Shimshon, mentre nel caso di Devorah il significato di “giudice” risulta adeguato. “A che cosa serviva un condottiero nei lunghi anni di pace assicurati dall’Onnipotente?”. Prima di tutto, nel caso di Yiftach, non è scritto che ci furono lunghi anni di pace (ciò è scritto solo, non a caso, a proposito dei Giudici della prima triade). In secondo luogo, il testo ci dice che, in base a quanto decretato dagli anziani di Gil’ad, il condottiero che sarebbe riuscito a sconfiggere Ammon sarebbe divenuto “capo su tutti gli abitanti di Gil’ad” (10:18), un ruolo importante anche in tempi di pace. Ma la questione di quale fosse il mestiere a tempo pieno di Yiftach rientra per me nell’ambito delle pure curiosità accademiche. Se pure egli fosse stato il Rabbino Capo di Israele (anacronismo), ciò non modificherebbe il fatto che il sacrificio da lui compiuto è un atto severamente proibito dalla Torah, che vieta in modo esplicito di sacrificare i propri figli.