Nella Torah e nell’intera Bibbia ebraica esiste uno schema fisso che ritroviamo più volte, come un ciclo che si ripete: se il popolo d’Israele osserva con diligenza i comandamenti di Dio, sarà benedetto e prospererà nella sua terra; se invece si allontana dalla giustizia, allora sarà punito, oppresso e infine esiliato fra le altre nazioni.
Questa logica è illustrata esplicitamente dalla Torah stessa in alcuni brani, come si legge ad esempio nel Levitico:
Ma se non mi date ascolto e se non mettete in pratica tutti questi comandamenti, se disprezzate i miei statuti e l'anima vostra rigetta i miei decreti, non mettendo in pratica tutti i miei comandamenti e rompendo il mio patto, ecco cosa farò a voi: [...] Vi disperderò fra le nazioni e trarrò fuori la spada contro di voi. La vostra terra sarà desolata e le vostre città saranno deserte (Levitico 26:14-33).
Nei libri successivi, il medesimo schema è applicato puntualmente agli eventi più dolorosi della storia biblica: secondo il libro dei Giudici (2:11-15), quando gli Israeliti abbandonavano Dio, Egli li abbandonava a sua volta nelle mani dei loro nemici. Nel raccontare la distruzione del Regno di Israele da parte degli Assiri, il libro dei Re dichiara che “ciò avvenne perché gli Israeliti avevano peccato contro HaShem, loro Dio” (2 Re 17:7). Lo stesso viene detto a proposito del Regno di Giuda, anch’esso infedele ai comandamenti e perciò privato del favore divino (2 Re 24:20).
Esiste tuttavia una notevole eccezione che sembra sottrarsi a questo costante meccanismo di peccato e castigo: la schiavitù in Egitto. Questo evento tanto cruciale per l’identità ebraica, nel modo in cui è narrato nella Torah, non è infatti presentato come la conseguenza di una condotta negativa degli Israeliti né come una punizione divina.
Ciò si comprende leggendo il primo capitolo dell’Esodo, dove il testo narra l’inizio dell’oppressione degli Ebrei da parte del Faraone, e lo fa senza ricondurre questo evento ad alcun peccato commesso dai figli d’Israele. Inoltre, ancora prima, ciò emerge già dalle parole con cui Dio predice ad Avram (Abramo) l’esilio e la schiavitù dei suoi futuri discendenti:
E disse [Dio] ad Avram: «Devi sapere che i tuoi discendenti saranno stranieri in una terra non loro, ed essi serviranno [un’altra nazione] e saranno oppressi, quattrocento anni (Genesi 15:13).
Confrontiamo ora questa profezia con quella rivelata molto più tardi a Moshè, anch’essa relativa a delle future disgrazie che avrebbero privato Israele della terra promessa:
E HaShem disse a Moshè: Ecco, tu stai per addormentarti con i tuoi padri, e questo popolo si alzerà e si prostituirà con gli dèi stranieri del paese nel quale sta per entrare. Mi abbandonerà e romperà il Patto che io ho stabilito con lui. In quel giorno, la mia ira si accenderà contro di lui: io li abbandonerò, nasconderò loro il mio volto e saranno divorati (Deuteronomio 31:16-17).
Il secondo brano contiene qualcosa che è del tutto assente dal primo: la causa etica e teologica della sventura, ossia l’infedeltà e la corruzione degli Israeliti. Nel caso di Moshè, la sofferenza del popolo è presentata come la conseguenza di una ribellione a Dio, mentre nel caso di Avram non troviamo nulla di simile.
Curiosamente, dunque, proprio l’archetipo di tutti gli esili e le oppressioni della storia di Israele non appare legato a una motivazione etica. Come si spiega questa anomalia?
La cosa appare ancora più singolare se si considera che il Libro dell’Esodo, più tardi, non esita a criticare duramente gli Israeliti mettendo in primo piano le loro trasgressioni più deplorevoli, come avviene nell’episodio del vitello d’oro.
Eppure, finché il pololo soffre sotto il giogo degli Egizi, il testo non riporta alcun giudizio sulla sua condotta, non descrivendo gli Ebrei né come giusti né come peccatori. Siamo forse davanti a una forma di pura empatia da parte della Torah nei confronti di un popolo vittima di ingiustizia?
La testimonianza di Ezechiele
Mentre il racconto dell’Esodo non ci rivela alcunché sulla condotta morale degli Ebrei in Egitto, un’informazione chiara e inequivocabile a riguardo ci viene fornita invece dal profeta Ezechiele (Yechezkel).
Secondo questo profeta, Dio si rivelò agli Israeliti in Egitto per annunciare loro la liberazione dalla schiavitù e per condurli nella terra promessa (Ezechiele 20:5-6). Niente di nuovo fin qui: lo stesso evento è narrato in maniera simile nel Libro dell’Esodo. Ma a questo punto, Ezechiele ci dice qualcosa di inedito:
...Ma essi si ribellarono contro di me e non vollero ascoltarmi, nessuno di essi gettò via le abominazioni davanti ai suoi occhi e non abbandonò gli idoli d'Egitto. Allora decisi di riversare su di loro il mio furore e di sfogare su di loro la mia ira in mezzo al paese d'Egitto. Tuttavia io agii per amore del mio nome, [...] Così li feci uscire dal paese d'Egitto e li condussi nel deserto (Ezechiele 20:8-10).
In base a quanto riportato dal profeta, gli Israeliti in Egitto erano immersi nell’idolatria e si rifiutarono perciò di abbandonare i loro falsi dèi e di obbedire al Dio unico, un dettaglio sorprendentemente tralasciato dalla narrazione dell’Esodo.
Ciò complica la questione: se davvero gli Israeliti in Egitto erano già corrotti e infedeli a Dio, perché la Bibbia non collega le loro sofferenze a questa infedeltà dilagante? Com’è possibile che il testo si sia lasciato sfuggire un’ottima opportunità di inquadrare la schiavitù in Egitto all’interno del classico schema di peccato e punizione?
Alcune risposte
Molti pensatori nel mondo ebraico hanno cercato di individuare una causa etica e teologica della persecuzione degli Ebrei in Egitto scandagliando con attenzione il racconto biblico.
Nel Talmud (Nedarim 32a), gli antichi Maestri fanno risalire questa causa addirittura ad Abramo, riferendosi a una presumibile mancanza di fede che il patriarca dimostrò quando chiese a Dio: “Mio Signore, come saprò che erediterò [questa terra]?” (Genesi 15:18); oppure, in alternativa, ad alcuni presunti errori da lui commessi nella sua operazione militare per liberare Lot (Genesi 14).
Nachmanide segue una strada simile, indicando la scelta di Abramo di risiedere in Egitto durante una carestia (vedi Genesi 12:10) come il peccato all’origine della schiavitù.
Ciò non significa che gli Israeliti innocenti furono puniti a causa dei peccati del loro antenato: queste interpretazioni, come spiega Rav Zvi Shimon, andrebbero piuttosto intese nel senso che il comportamento di Abramo rappresenta l’esemplificazione di alcune tendenze nocive tramandate ai suoi discendenti.
Abravanel propone un’altra spiegazione: a causare l’esilio in Egitto e la conseguente persecuzione fu l’odio dei figli di Giacobbe verso il loro fratello Giuseppe.
Secondo il Netziv, la radice spirituale della sventura andrebbe invece individuata in Esodo 1:7, dove si legge che “i figli d’Israele divennero numerosi e potenti, e tutto il paese ne fu pieno”: gli antichi Israeliti, come gli Ebrei assimilati in Europa all’epoca del Netziv, intendevano insomma rigettare la loro identità esclusiva per mescolarsi al resto della popolazione, subendo per questo dure conseguenze.
Anche secondo un noto studioso israeliano contemporaneo, Yair Zakovitch, l’origine della schiavitù è legata ad alcuni errori commessi dai patriarchi della Genesi (fra cui la discesa di Abramo in Egitto, come affermato da Nachmanide), ma anche all’infelice decisione di Giuseppe di rendere tutti gli Egizi “schiavi del Faraone” (Genesi 47:19) in cambio del grano accumulato in previsione della carestia: una scelta che, per volere divino, si sarebbe poi ritorta contro il popolo di Giuseppe.
Le interpretazioni proposte trasmettono idee di grande importanza. Alcune di esse potrebbero anche apparire convincenti per contribuire a far luce sulla nostra questione. Tuttavia, tutte queste opinioni seguono un procedimento analogo: scavare nelle profondità del testo e andare alla ricerca di indizi impliciti, dimostrando che di fatto la Torah tace sul vero motivo della schiavitù.
Il narratore biblico avrebbe di certo potuto indicare con chiarezza la causa di tanta sofferenza subita dal popolo ebraico, così come avviene in tante altre occasioni, piuttosto che spingerci a ricercare allusioni criptiche. Il fatto che proprio in questo caso ciò non avvenga ci suggerisce perciò che la Bibbia non voglia qui condannare apertamente gli Ebrei, né farli apparire come peccatori giustamente puniti. Qual è, allora, l’intento della Torah?
Oltre l’idea di punizione
In un suo saggio, lo psicologo sociale Gilad Hirschberger ha descritto il nesso profondo che esiste tra il “trauma collettivo“, un evento catastrofico vissuto da una collettività di persone (come un intero popolo), e la costruzione dell’identità del gruppo che l’ha subito. Il trauma collettivo può generare una nuova visione del mondo e diventare la chiave di lettura attraverso cui una comunità interpreta sé stessa e l’ambiente in cui vive.
Applicando questo concetto alla storia dell’Esodo, possiamo forse comprendere il motivo per cui la Torah ha deciso deliberatamente di non presentare la schiavitù in Egitto come un castigo divino. Questo evento è così importante, così essenziale per la formazione dell’anima ebraica, che la Bibbia ha evitato di proposito di ridurlo a una semplice pena relativa a qualche infedeltà commessa.
A questo proposito, nella sua opera Recalling the Covenant, Rabbi Moshe Shammah ha scritto:
“Come dovremmo interpretare un decreto divino imposto ai membri non ancora nati della nazione ebraica secondo cui, in futuro, essi avrebbero dovuto subire schiavitù e afflizione senza avere alcuna colpa? Alcuni hanno risposto affermando che gli Israeliti non avrebbero mai potuto raggiungere il prodigioso grado di sensibilità nei confronti della sofferenza degli altri che è richiesto dalla Torah senza che l’esperienza della schiavitù e dell’afflizione fosse stata impressa nella loro coscienza nazionale. Quell’esperienza viene spesso invocata da parte della Torah come fattore motivante per l’osservanza delle sue leggi. Si tratta quindi di imporre sofferenze per raggiungere un obiettivo altrimenti non raggiungibile, sofferenze che le generazioni future, al termine di tale esperienza dolorosa, riterranno presumibilmente degne di essere vissute per il grande beneficio che ne deriva”.
La Torah rievoca di continuo le sofferenze patite dagli Israeliti in Egitto nel comandare l’osservanza dei suoi obblighi. Un precetto, ripetuto più volte e con grande enfasi, recita: “Amerete lo straniero, perché siete stati stranieri nella terra d’Egitto” (Deut. 10:19). In occasione del rito dell’offerta delle primizie, gli agricoltori israeliti sono chiamati a ricordare le origini umili e nomadi del loro popolo, mostrando gratitudine a Dio per la liberazione dalla schiavitù e il dono della terra santa (26:5-10). Il Levitico (25:55), usa la redenzione dall’Egitto per imprimere l’idea che nessun ebreo può tornare a essere schiavo.
Da questa prospettiva, l’esilio e la schiavitù sono pertanto da intendere come una sorta di ferreo addestramento volto a formare la coscienza morale e religiosa del popolo, non come un castigo.
È difficile non pensare allora alle riflessioni che accompagnano oggi il ricordo di una catastrofe ben più recente, quella della Shoah. Anche in questo caso, nel mondo religioso ebraico non è mancato chi ha cercato talvolta di ricondurre gli orrori subiti dagli Ebrei sotto il regime nazista a dei peccati di varia natura: l’assimilazione, l’abbandono dell’ortodossia, l’adesione al movimento laico del sionismo oppure, all’inverso, l’opposizione ad esso.
La lezione appresa dall’Esodo ci incoraggia però a non semplificare una simile tragedia secondo i criteri più tradizionali, ma a misurarla nella sua devastante portata umana, mettendo in primo piano non le possibili colpe metafisiche delle vittime, ma l’insegnamento per il futuro che si può trarre quando un trauma collettivo diventa parte di noi e condiziona la nostra visione del mondo.
Comunemente gli uomini soffrono a causa di eventi di cui non sono responsabili, quindi come VITTIME, ma spesso anche come conseguenza di proprie colpe o errori; sembra che per i Maestri del Talmud tutti i patimenti di massa subiti dagli ebrei appartengano a questo secondo tipo, senza almeno l’eccezione della cattività in Egitto.
Eppure il libro di Esodo, come è precisato nell’articolo, non accenna a qualsivoglia loro colpa perché meritassero la schiavitù sotto gli egiziani. I rabbini talmudici hanno congetturato qualche mancanza da parte dei capostipiti secondo l’assioma biblico che le colpe dei padri ricadono sui figli. Ma prima di loro, Ezechiele, che osteggiava tale assioma, affermò che HaShem si era già rivelato agli israeliti quando essi ancora prosperavano quali ospiti di riguardo del faraone, e che aveva invano comandato loro di tenersi lontano dagli abomini e dagli idoli del paese d’Egitto. Affermazione, questa, che trovo opinabile poiché, dopo la morte di Giuseppe e di Giacobbe, le generazioni di israeliti che per quattro secoli si succedettero non ebbero profeti per mezzo dei quali HaShem parlasse loro. Anzi, la stirpe di Giacobbe non aveva neppure una religione codificata, né guide, capi o sacerdoti, e tantomeno leggi scritte che chiarissero loro cosa ci fosse di abominevole nei costumi stranieri per non doverli seguire. Tutte queste cose vennero soltanto parecchio tempo dopo durante l’Esodo. Fino a quel momento, era accaduto soltanto che Giacobbe aveva eliminato i terafim dalla sua casa, e che in origine c’era stato un patto d’alleanza fra Dio e Abramo, ma non direttamente con i discendenti di questo patriarca.
Mi sembra quindi pacifico che gli ebrei in Egitto furono asserviti quali vittime innocenti. Ma… vittime di chi?
Partendo dalla storia di Giuseppe venduto dai fratelli, trovo evidente il disegno divino di innestare all’interno del regno dei faraoni l’embrione del Popolo Eletto, e di farlo crescere al sicuro in una sorta di “utero” fino al momento della sua nascita. L’uscita dall’Egitto corrisponderebbe al parto. Nell’Oreb avviene poi il primo insegnamento paterno, ossia la dettatura del Decalogo e della Torah. E, solo dopo di allora, avvennero le prime trasgressioni a quegli insegnamenti da parte del popolo infante con le relative punizioni.
Ma perché Dio, precedentemente, quando il suo popolo era ancora innocente, ne aveva permesso la schiavitù? Direi che questo evento fosse nelle sue mire. Consideriamo la circostanza che i settanta ebrei giunti nel regno egizio con Giacobbe si moltiplicarono prodigiosamente nell’arco di appena quattro secoli fino a divenire milioni. All’epoca dell’Esodo c’erano fra loro 600.000 uomini sopra i vent’anni atti a combattere, il che fa stimare una cifra complessiva di almeno tre milioni di anime. È comprensibile che ciò inquietasse parecchio gli egiziani, timorosi che quegli stranieri avrebbero potuto favorire, dall’interno, una possibile invasione di nemici. Per tale ragione essi decisero di neutralizzare preventivamente i loro troppo ingombranti ospiti privandoli della libertà. Nondimeno, gli egizi nulla poterono contro i progetti divini poiché, come è scritto:
“Quanto più opprimevano il popolo, tanto più si moltiplicava e cresceva oltre misura; si cominciò a sentire come un INCUBO la presenza dei figli d’Israele. Per questo gli Egiziani fecero lavorare i figli d’Israele trattandoli duramente.”
(Esodo 1:12-13, CEI)
Quell’incremento demografico talmente esorbitante e irrefrenabile era chiaramente percepito dai residenti come un incubo, al punto che nonostante le vessazioni il pericolo rappresentato dal numero sempre crescente di individui stranieri sanissimi e forti indusse il faraone a decretare lo sterminio dei neonati ebrei. Ma a quanto pare neanche questa misura servì a nulla.
Parlare a questo punto semplicisticamente di malvagità degli egizi mi sembra inopportuno. Date quelle circostanze, penso che qualunque altro popolo appartenente a quei tempi arcaici e crudeli avrebbe agito allo stesso modo. Del resto, non dovremmo perdere di vista il fatto che la popolazione oppressa, cioè gli israeliti, che avrebbe in seguito cercato una propria terra dove stabilirsi, non la cercò tra fertili pianure disabitate bensì… invadendo e occupando regioni già molto popolate dove erano da secoli ubicate ben sette nazioni che essi si compiacquero di sterminare fino all’ultimo neonato. Nel proprio grembo, dunque, l’Egitto non aveva esattamente degli inoffensivi agnellini.
Secondo me, nei progetti divini, la schiavizzazione del popolo ebreo era necessaria per diversi scopi. In primo luogo, se i discendenti di Giacobbe fossero rimasti a prosperare liberi nella bella valle loro riservata al tempo di Giuseppe, di sicuro non si sarebbero mai smossi da lì per addentrarsi in mezzo al deserto alla ricerca di una terra sconosciuta da conquistare con le armi.
In secondo luogo, la possibilità di liberare dalla condizione di asservimento gli israeliti avrebbe per l’avvenire conferito ad HaShem un credito enorme nei loro riguardi; un credito che sarà rinfacciato di continuo a cominciare dal Primo Comandamento: «Io sono il Signore, tuo Dio, che ti ho fatto uscire dal paese d’Egitto, dalla condizione di schiavitù.» Sì, ma una schiavitù determinata portentosamente proprio da HaShem con quell’incremento forsennato della natalità ebraica in seno a una nazione straniera.
Inoltre ci sarebbero altri fattori da considerare. In quel mondo e in quell’epoca popolati da frotte di divinità, gli israeliti erano ancora ignari dell’esistenza dell’unico vero dio creatore del cielo e della terra. Quella divinità di cui Mosè era portavoce ai loro occhi non era che una delle tante. Occorreva, per convincerli a intraprendere un viaggio avventuroso e molto rischioso, che quel dio si mostrasse in tutta la sua potenza. A tal fine cosa vi era di meglio di una contesa violenta con il faraone e tutti i suoi dei? Una contesa, però, che non avrebbe avuto motivo di esserci se gli ebrei fossero stati liberi.
Il braccio di ferro fra Dio e il faraone, ossia fra l’Onnipotente e un misero uomo con i suoi idoli di pietra, aveva l’evidente scopo di mostrare ai discendenti di Giacobbe la potenza e la credibilità del dio che voleva guidarli in quell’avventura verso il deserto. Per questo motivo poche prove di forza non sarebbero bastate; ecco perché, ogni qual volta il faraone gettava la spugna, Dio gli faceva cambiare idea indurendogli nuovamente il cuore. Soltanto dopo dieci flagelli che colpivano selettivamente solo gli egiziani lasciando indenni gli ebrei, questi ultimi furono disposti a lasciarsi guidare da Mosè verso un incerto destino.
Perché Dio impiegò tanto tempo a incidere il Decalogo sulle due tavole di pietra che consegnò a Mosè? La storia del vitello d’oro è sempre stata un’icona della pochezza umana, ma non posso fare a meno di pensare a milioni di uomini, donne e bambini abbandonati nel bel mezzo del deserto arabico mentre coloro che li avevano condotti lì, HaShem e Mosè, non si facevano più vivi da parecchie settimane. L’inquietudine e il bisogno di guide sia umane sia sovrannaturali per uscire da quell’inferno erano senz’altro divenuti pressanti. Certo, gli ebrei non ebbero fede, ma dopotutto quella era una fede imposta dall’oggi al domani, non maturata lentamente nel cuore degli uomini. Anche l’alleanza e la Legge del Patto, non si può dire che siano nate in condizioni materiali del tutto ottimali. Che altro poteva fare quella massa troppo numerosa di persone per poter sopravvivere in luoghi immensi dove mancavano acqua e cibo? Il loro contraente, cioè Dio, era il solo in grado di dissetarli e di nutrirli. Rifiutare, in quel frangente, la sua proposta che divenissero una nazione santa e di sacerdoti non sarebbe stato per nulla prudente.
Non credo che quella dell’infedeltà degli Israeliti in Egitto fosse una pura invenzione di Ezechiele. Il profeta si rifaceva probabilmente a qualche tradizione orale secondo cui Moshè stesso aveva comandato agli Ebrei di rigettare l’idolatria in previsione dell’imminente Esodo, ma il popolo si era rifiutato, rischiando di compromettere la liberazione. Un imperativo simile era del resto già stato rivolto da Giacobbe alla sua famiglia (“Togliete da mezzo a voi gli dèi stranieri”). Tale tradizione non è però confluita all’interno del Pentateuco, che come è stato scritto non ci dice nulla sulla condotta degli Israeliti prima dell’uscita dall’Egitto.
Ma cosa significa non è confluita nel pentateuco? Te lo sto dicendo da tempo e tu non mi credi, che per capire la Bibbia ti devi attenere solo a ciò che è scritto nella Bibbia, e a nient’altro, altrimenti si fa solo confusione, volendo fondare una pseudo religione umanista senza Dio. Cosa significa che gli israeliti stavano compromettendo la liberazione dall’egitto a causa dell’idolatria? Che cos’è l’idolatria? leggere la bibbia la liberazione la stavano compromettendo all’inizio gli scribi, i sorveglianti del popolo. Perché dopo l’inasprimento della schiavitù andarono loro dal faraone ( dopo che c’era andato Mosè) a cercare un compromesso con il faraone, ma lo stolto del faraone non acconsentiì, e la loro se la presero con Mosè perché li aveva resi odiosi agli occhi del faraone. Capisci? cercare un compromesso è idolatria… fra le tante cose. Se il faraone avesse accettato il compromesso, Mosè sarebbe stato diviso dal popolo, fallendo nella sua missione, ed il popolo sarebbe rimasto in egitto.Ma se leggi la Bibbia così come è scritta, vedi che poi sarà il faraone a cercare vanamente un compromesso con Mosè, ma non riuscì grazie alla fermezza di Mosè, e alla fede degli israeliti. Perché ebbero solo fede per essere liberati, porgendo l’altra guancia, perché nessuno ebreo alzò la proprio mano contro gli egiziani, e non c’era motivo per cui gli egiziani li dovevano aiutare, perché il nemico da sconfiggere era uno solo, il faraone. In passato ti avevo fatto una proposta, ma non l’hai accettata, ed era solo per un confronto aperto su tutta la bibbia..
Caro anonimo, io la Bibbia la leggo eccome. Tu però forse non leggi i miei interventi con la giusta attenzione, perché non ho scritto nulla di diverso da quello che scrive Ezechiele nel passo citato nell’articolo, ossia che gli Israeliti erano idolatri e per questo Dio voleva punirli in Egitto, ma per riguardo al suo Nome benedetto ebbe misericordia e li liberò.
scusa il refuso, ma non c’era motivo per cui gli egiziani li dovevano odiare, perché come leggi nella penultima piaga ( se non sbaglio) viene rimarcato che Mosè era un uomo assai stimato in egitto… e tutti mali connessi alle piaghe , erano da imputare solo al faraone… Comunque gli scribi di allora, sono nel corso del tempo coloro che tu segui.. affidandoti al loro pensiero ed interpretazione delle scritture…
Ero sicuro che mi avresti risposto citandomi il passo di Ezechiele ( l’unico a cui ti potevi aggrappare). Ma io ti ho chiesto che cos’è l’idolatria, e devi leggere solo i profeti per capirlo. Hai scritto che Dio voleva punirli.. ma il Signore è uno, e per amore del suo nome non può essere mai contraddittorio, e se è colui che libera e salva, non può mai essere colui che punisce. Nel giorno in cui nei mangerai, certamente ne morirai disse ad Adamo, e secondo te dopo che Adamo pecca, che punizione gli potrà mai infliggere? Lo può solo salvare a quanto sembra….
Basta un solo versetto per risponderti: “Formo la luce e creo le tenebre, faccio la pace e creo il male. Io, il Signore, faccio tutte queste cose” (Isaia 45:7).
Caro redattore, scrivi:
“Non credo che quella dell’infedeltà degli Israeliti in Egitto fosse una pura invenzione di Ezechiele. Il profeta si rifaceva probabilmente a qualche tradizione orale secondo cui Moshè stesso aveva comandato agli Ebrei di rigettare l’idolatria in previsione dell’imminente Esodo, ma il popolo si era rifiutato, rischiando di compromettere la liberazione. Un imperativo simile era del resto già stato rivolto da Giacobbe alla sua famiglia (“Togliete da mezzo a voi gli dèi stranieri”). Tale tradizione non è però confluita all’interno del Pentateuco, che come è stato scritto non ci dice nulla sulla condotta degli Israeliti prima dell’uscita dall’Egitto.”
Di solito una punizione avviene dopo che è stato dato un comando, a motivo della trasgressione a tale comando. Se Mosè – stando alla tradizione orale cui accenni – avesse davvero ordinato agli ebrei di rigettare gli idoli, avrebbe dato quell’ordine quattrocento anni dopo che il castigo (ossia la schiavitù) veniva loro inflitta. Un comando del genere doveva quindi essere stato conclamato parecchio tempo prima per bocca di qualche profeta accreditato presso gli israeliti quale portavoce di Dio. Dell’esistenza di un tale capo carismatico, però, e dei suoi atti in nome di HaShem, il Pentateuco tace.
Rimane l’imperativo di Giacobbe alla sua famiglia di liberarsi degli idoli. Ma questa famiglia si moltiplicò poi in miriadi di famiglie e clan che vivevano a stretto contatto con gli egizi. Niente di più facile, trattandosi di una tradizione famigliare e non di una legge scritta, che essa sia andata perduta col tempo tra i meandri del multiculturalismo di quella grande nazione, a maggior ragione perché non vi era un capo supremo ebreo che vigilasse sulla condotta dell’intero popolo.
Aggiungerei l’assoluta assenza della giusta reprimenda divina che ogni volta, a cominciare da Adamo ed Eva, spiegava i motivi dei castighi che HaShem infliggeva ai disobbedienti.
Personalmente contesto la tendenza ad attribuire immancabilmente a colpe dell’uomo tutti i tragici eventi che lo colpiscono. Nella fattispecie, la schiavitù degli ebrei in Egitto sarebbe avvenuta per colpa degli ebrei stessi, ma per altri a causa della malvagità degli egiziani. E, sempre in quest’ottica, le Dieci Piaghe sarebbero state provocate unicamente dalla cattiveria del faraone.
Eppure i disegni divini non mi sembrano per nulla celati nelle pagine della Bibbia.
Non intendevo dire che secondo Ezechiele la schiavitù fosse una punizione per la disobbedienza degli Israeliti. Ezechiele non lo dice, come non lo dice il Pentateuco. La “punizione” a cui mi riferivo non era la schiavitù. Ezechiele lascia intendere che al tempo di Moshè gli Ebrei si rifiutarono di abbandonare l’idolatria e per questo Dio voleva annientarli, ma poi non lo fece, anzi li liberò dagli Egizi.
Il redattore si arrampica sugli specchi e gioca con le parole, come gli capita di sovente quando non può produrre più argomentazioni a sua difesa, ( fosse una volta che si ricredesse delle sue tesi iniziali dopo un confronto franco e schietto….ciò che capita a tutti gli intellettuali) Ebbene questa volta mi trovo concordo con Marco, e riguarda proprio una questione molto importante. Perché una volta, per mia fortuna, ho avuto il piacere di sentire una lezione di un rabbino, dove diceva ed argomentava che nel diritto religioso ebraico, in via teorica mai nessuno può essere condannato se prima non è stato ammonito sulle conseguenze della sua azione concreta. In pratica nel diritto religioso ebraico, l’ignoranza della legge scusa. Sarebbe un discorso lungo da esporre razionalmente che io ho cercato di sviluppare, perché anche chi ignora la legge e la trasgredisce, incappa comunque nelle conseguenze previste oggettivamente, anche se soggettivamente non può essere condannato, ma solo salvato. Ma come ha detto Marco, il Signore ammonisce sempre prima l’uomo, ma non perché poi gli piace punirlo, non potendo più addurre nei suoi confronti alcuna giustificazione a causa dell’ignoranza. Ma per due motivi principali connessi fra di loro: il primo è perché non devono mai chiamare in causa il Signore a causa delle loro sciagure ( perché li aveva ammoniti prima), ed il secondo connesso al primo, è proprio perché si devono ricordare del Signore e a lui far ritorno, per essere perdonati e salvarsi dalle conseguenze del peccato. Come la parabola evangelica del figliol prodigo per intenderci. Ma pur restando all’interno dell’antico testamento è sempre così, perché il libro delle maledizioni fu messo di fronte all’arca dell’alleanza, proprio perché si dovevano ricordare di lui quando sarebbero incappate nelle maledizioni a causa delle trasgressioni della legge. Ogni parola del Signore è legge, e la legge in quanto tale ha bisogno di una sanzione, altrimenti sarebbero solo parole vuote. Ma il Signore non punisce, vuole solo salvare, perché come potete vedere nell’incipit del libro di Giobbe, non è lui a castigarlo, ed anche agli ebrei, dice che li colpirà con i colpi che danno i figli degli uomini, quando li lascerà a loro stessi, perché il lavoro sporco se posso usare questo termine solo per intenderci, lo fa fare agli altri, anche se con grande dolore. Perché il Signore è sempre innocente, e cosa vuoi da me potrebbe dire ad Adamo ( che rappresenta tutto il genere umano) se te l’avevo detto che saresti morto, mentre da mangiare ti avevo dato anche l’albero della vita? Il Signore l’aveva ammonito prima ad Adamo ( per il suo bene), e fa sempre così in tutta la Bibbia, ed anche ai profeti ( proprio ad Ezechiele) dice di ammonire l’empio, altrimenti se la prenderà con loro per i mali che dovrà scontare l’empio, ma una volta ammonito, se gli empi restano tali, i profeti non hanno colpa. Non so se sono stato chiaro , e se questa volta il redattore si ricreda, o vuole imputare a Dio i castighi. Riguardo la schiavitù degli ebrei, il Signore disse ad Abramo che il suo popolo sarebbe stato schiavo per 400 anni, perché la malvagità degli uomini che abitavano la terra promessa non era ancora arrivata al limite. Se è scritto così, la causa ( almeno principale) è questa, perché di certo il Signore non poteva sterminare gli altri popoli solo per far entrare gli ebrei in quella terra, perché è il Dio creatore di ogni cosa, il Signore dell’universo, che ha scelto Israele per salvare gli uomini, non per fargli parzialità solo per amore, e sterminare gli altri senza motivo. Il Signore agisce solo al limite, e solo quando non li può salvare perché sono irredimibili, vengono sterminati, come nell’episodio del diluvio universale, dove è scritto che nel loro cuore non avevano altro che male. Gli ebrei devono vincere il mondo diceva Gesù, e prima di entrare nella terra promessa dovevano vincere contro il Faraone, con tutto quello che rappresentava, ma a corna, però, proprio al bivio della terra promessa, ebbero paura, e voltando le spalle a Dio e Mosè, volevano ritornare indietro in Egitto, E qui c’è molto da meditare…
Comunque meditate anche il libro di Giobbe, dove sta scritto e spiegato tutto, visto che alla fine ebbe anche l’onore di essere interrogato da lui, ed i suoi amici sapienti, di cui si diceva che la sapienza sarebbe morta con loro, si salvarono solo grazie a lui. La Sapienza è morta insieme a loro, e se è così, non è esistono più sapienti, perché negli altri uomini non è neanche nata.