La reincarnazione nell’Ebraismo e nella Torah

Un nostro lettore ci ha inviato la seguente domanda via e-mail:

Buonasera. […] Le chiedo una cortesia a beneficio di tutti i lettori che seguono il suo sito: potrebbe dedicare un articolo spiegando la posizione ebraica riguardo la reincarnazione?

Su internet ho visto un video in cui veniva detto che una neshamah (anima) può reincarnarsi sia in altri corpi umani ma, se ho capito bene, anche in un animale, una pianta o un minerale. Potrebbe trovare le fonti ebraiche che parlano della reincarnazione ed anche di queste reincarnazioni in animali, piante o minerali?

Sarei personalmente interessato anche a sapere se ci sono differenze di posizioni in merito alla reincarnazione nelle varie correnti dell’ebraismo religioso.

Questa interessante domanda ci fornisce l’occasione per trattare un tema finora mai affrontato su questo sito: il concetto di “reincarnazione” o “metempsicosi”, noto in ebraico come ghilgùl neshamòt (alla lettera “rotazione delle anime”).

L’idea che una persona defunta torni a vivere in un altro corpo è forse una credenza che appartiene genuinamente all’Ebraismo, oppure si tratta di una dottrina presa in prestito da altre culture? E in che modo avverrebbe la reincarnazione dal punto di vista ebraico?

Cerchiamo ora di rispondere a tali quesiti partendo, come sempre, dal fondamento più antico della fede d’Israele, ossia dalla Bibbia ebraica.

La Bibbia parla di reincarnazione?

Le Scritture del Tanakh (la Bibbia ebraica) non contengono alcun riferimento al concetto di reincarnazione.

Di fatto, la Bibbia non tratta in maniera chiara ed esplicita neppure il tema più generale della vita dopo la morte e del destino ultimo dell’individuo, come abbiamo spiegato nella nostra lezione intitolata “La morte e l’aldilà“.

Non c’è allora da sorprendersi se i testi biblici non menzionino neanche l’idea specifica della trasmigrazione delle anime.

Vi sono però alcuni brani che sono stati talvolta interpretati come allusioni al ghilgul neshamot. Uno di questi è il verso di Kohelet (Ecclesiaste) 1:4, dove si legge: “Una generazione va, una generazione viene, e la terra rimane in perpetuo”, inteso nel senso che una generazione perisce e poi ritorna sulla terra attraverso la reincarnazione.

È tuttavia evidente che il senso reale di questo verso non ha nulla a che fare con il ghilgul. In linea con il pensiero pessimista dell’Ecclesiaste, nel brano si descrive invece l’avvicendarsi delle generazioni attraverso i secoli: il tempo scorre inesorabile, gli uomini nascono e poi muoiono, ma nulla sulla terra cambia davvero.

Un altro verso spesso proposto come riferimento biblico alla reincarnazione è Giobbe 1:21: “Nudo sono uscito dal ventre di mia madre, e nudo vi ritornerò”.

Anche in questo caso, si tratta di una forzatura. L’intento di Giobbe, infatti, non è di affermare che in futuro egli tornerà a nascere, un’idea che non sarebbe attinente al contesto del racconto.

Giobbe, che ha appena perso i suoi figli e tutti i suoi averi, con questa frase poetica esprime l’amarezza della condizione umana: si nasce nudi, privi di ogni ricchezza, e alla fine della vita si ritorna nel grembo della terra, la madre di ogni creatura, senza poter portare nulla con sé.

Nello stesso verso, infatti, è scritto subito dopo: “Il Signore ha dato, il Signore ha tolto, sia benedetto il nome del Signore”. Il messaggio riguarda quindi la rassegnazione per la perdita dei propri beni, non il destino dell’anima dopo la morte fisica.

Se dunque all’interno delle Scritture non si trova il minimo accenno alla reincarnazione, in che modo questo concetto è stato introdotto nel mondo ebraico?

L’origine della dottrina del ghilgul

Al contrario della Bibbia, vari testi ebraici successivi (libri apocrifi, opere di Giuseppe Flavio e altri autori), così come gli scritti rabbinici quali il Talmud e i Midrashim, discutono in maniera esplicita e piuttosto dettagliata dell’oltretomba e della resurrezione dei morti alla fine dei tempi.

Eppure, anche in questi testi, la trasmigrazione delle anime non è mai contemplata.

In epoca medievale, a professare la dottrina della reincarnazione furono alcuni gruppi ebraici settari, come pure il fondatore dell’Ebraismo karaita, Anan ben David (715 – 795). Forse tale credenza era stata ereditata da correnti gnostiche più antiche, che l’avevano tramandata oralmente.

Il vero e proprio ingresso del ghilgul neshamot nell’Ebraismo avvenne poi tramite la Kabbalah, la tradizione mistica ebraica. Questo concetto si trova infatti all’interno del Sefer HaBahir e dello Zohar, due importanti testi kabbalistici che iniziarono però a circolare solo a partire dal XII-XIII secolo.

Più tardi, il celebre kabbalista Isaac Luria (XVI secolo) e il suo discepolo Chayim Vital (nella sua opera Sha’ar HaGilgulim), elaborarono in maniera più ampia la dottrina del ghilgul, spiegandone la logica e i meccanismi spirituali.

Se però questi kabbalisti relegavano ancora  la trasmigrazione delle anime a una sorta di sapienza esoterica da non insegnare alle masse, questa credenza si è diffusa in seguito tramite il Chassidismo, il movimento che ha reso la mistica molto più accessibile.

Il successo delle varie correnti chassidiche (come Breslev e Chabad) ha contribuito quindi a far sì che oggi molti Ebrei accettino la reincarnazione come parte integrante della loro fede, seppure essa non faccia parte dei fondamenti dell’Ebraismo.

Come funziona la reincarnazione?

Diversamente da come si crede nell’Induismo e in altre filosofie orientali, dove la reincarnazione è considerata un processo perpetuo e universale, il concetto kabbalistico del ghilgul prevede che non tutte le anime possano reincarnarsi.

Secondo lo Zohar, soltanto alcuni peccatori che si sono macchiati di colpe specifiche, di solito legate alla sfera sessuale, ritornano sulla terra con un’altra identità allo scopo di espiare le loro trasgressioni.

Il Sefer HaBahir sostiene che tale processo di tikkùn (“riparazione”) possa protrarsi fino a un massimo di mille generazioni, per poi esaurirsi, ma altre fonti fissano un limite molto più ristretto (tre o quattro generazioni).

Anche alcuni giusti possono tuttavia reincarnarsi, non per espiare delle colpe, ma per assistere altre anime nel compiere determinate missioni. È il caso di Hevel (Abele), che si sarebbe reincarnato in Moshè per permettere a suo fratello Kayin (Caino, reincarnatosi invece nel sacerdote Yitrò) di sanare la loro relazione.

L’idea che alcuni esseri umani possano anche reincarnarsi in animali o persino in oggetti inanimati è stata invece introdotta nella Kabbalah in seguito, all’incirca nel Quattrocento, e non è stata accolta da tutti i kabbalisti.

La trasmigrazione delle anime è intesa perciò come una punizione, o piuttosto come un’opportunità, dalla durata limitata e volta in ogni caso a un singolo obiettivo specifico, non come una legge generale che governa l’esistenza.

Le opinioni contrarie

Il ghilgul è stato accolto con favore da molti poiché consente di dare una spiegazione alla sofferenza subita da persone innocenti. Nel mondo ebraico, fin dal Medioevo, non sono mancati però pareri differenti.

A opporsi in maniera molto aspra alla reincarnazione è stato soprattutto il celebre rabbino e filosofo Sa’adia Gaon (882 – 942), che nella sua opera Emunot VeDeot scrive:

“Devo riferire di aver trovato alcune persone, che si definiscono ebree, le quali professano la dottrina della metempsicosi, da loro definita come teoria della trasmigrazione delle anime. Il significato di ciò è che lo spirito di Reuven viene trasferito a Shimon, poi a Levì e infine a Yehudah. Molti di loro si spingerebbero fino ad affermare che lo spirito di un essere umano potrebbe entrare nel corpo di una bestia, oppure quello di una bestia nel corpo di un essere umano, e altre simili assurdità e stupidaggini”.

Maimonide, che nelle sue opere discute con precisione dell’anima e della sua sorte ultraterrena, non parla affatto di reincarnazione, anzi dà per scontato che ogni individuo viva una sola volta sulla terra (prima della resurrezione finale).

Un altro fiero oppositore di questa credenza è Rabbi Samson Raphael Hirsch (1808 – 1888), che nel suo Commentario alla Genesi associa la reincarnazione al mondo pagano, ritenendola un’idea incompatibile con la religione d’Israele.

Nell’Ebraismo convivono quindi opinioni discordanti su questo come su miriadi di altri temi, ed è naturale che, in ambienti più vicini al razionalismo di Maimonide e non legati alla mistica, l’idea del ghilgul possa non essere accettata, o diventare persino oggetto di critiche per la sua comparsa tardiva nella storia ebraica.

9 commenti

  1. Nell’Ebraismo convivono quindi opinioni discordanti su questo come su miriadi di altri temi.

    E mi chiedo che cosa sia l’ebraismo.

    Per esistere un solo ebraismo ci si dovrebbe attenere solo a quello scritto nella Bibbia, parola rivelata di Dio, e non invece alle tante fantasie e supposizioni umane

    1. te lo spiego subito cosa è l’ebraismo caro anonimo visto che è stata cancellata la mia risposta precedente dal redattore ( perché censuri le risposte)bah …🫤

      L’ebraismo è una religione monoteista, abramitica ed etnica, che rappresenta la fede, la cultura e lo stile di vita del popolo ebraico. Con una storia di oltre 3500 anni, è una delle più antiche religioni monoteiste del mondo e ha influenzato profondamente altre fedi che hanno scopiazzato i testi in maniera barbara e indecente come il cristianesimo e l’islam.

      L’ebraismo non è monolitico. Esistono diverse correnti ebraiche, come l’ebraismo ortodosso, conservatore, riformato e ricostruzionista, ognuna con interpretazioni e osservanze diverse della legge ebraica e delle sue tradizioni.

      In sintesi, l’ebraismo è una civiltà complessa e ricca di storia, fede, cultura e tradizioni che continua a evolversi e a influenzare il mondo. Non ha niente a che vedere con il corrotto paganesimo cristiano, ed da esso è lontano miliardi di anni luce.

      1. Se l’ebraismo è lontano dal cristianesimo, vuol dire che è lontano dalla Bibbia , e come dici tu ognuno la pensa in maniera diversa. Tu la chiami religione, ma basta ammettere che non si crede in Dio, e chiamarla solo cultura, tutto qui. Riguardo al cristianesimo ricordo che una volta ti ho consigliato di pensare autonomamente libera dai pregiudizi trasmessi dalla cultura rabbinica. Deve leggere solo il nuovo testamento per poi parlarne in merito.

        Buona Pasqua

    2. anonimo oltre essere ignorante, offensivo e saccente sei pure un psicopatico maniaco compulsivo religioso. Fatti curare da uno bravo. Sei immerso nell’ abisso più profondo. E parli? Vergognati fottuto idiota!

  2. Caro redattore, scrivi:

    “Un altro verso spesso proposto come riferimento biblico alla reincarnazione è Giobbe 1:21: “Nudo sono uscito dal ventre di mia madre, e nudo vi ritornerò”.

    Anche in questo caso, si tratta di una forzatura. L’intento di Giobbe, infatti, non è di affermare che in futuro egli tornerà a nascere, un’idea che non sarebbe attinente al contesto del racconto.

    Giobbe, che ha appena perso i suoi figli e tutti i suoi averi, con questa frase poetica esprime l’amarezza della condizione umana: si nasce nudi, privi di ogni ricchezza, e alla fine della vita si ritorna nel grembo della terra, la madre di ogni creatura, senza poter portare nulla con sé.”

    Dunque: “Nudo sono uscito dal ventre di mia madre, e nudo vi ritornerò”.

    Ovvero: “nudo sono uscito da un utero materno, nudo tornerò in un utero materno”.

    Tale esternazione di Giobbe sembra condurre all’idea di una rinascita. Tuttavia, poiché sarebbe arduo accettare che l’autore biblico promuovesse la teoria pagana della metempsicosi, l’esegesi classica accantona il significato letterale di quelle parole sostituendolo – forzatamente, direi – con una interpretazione del tipo:

    “Sono venuto al mondo senza ricchezze e sarò sepolto senza portare con me i miei beni terreni.” Ma i defunti, va osservato, vengono seppelliti nella terra, non in un utero materno, ed è proprio qui che Giobbe afferma che vi tornerà quando sarà morto.

    E non si limita a sostenere questo poiché più avanti aggiunge:

    13 Oh, se tu volessi nascondermi nella tomba,
    occultarmi, finché sarà passata la tua ira,
    fissarmi un termine e poi ricordarti di me!
    14 Se l’uomo che muore potesse rivivere,
    aspetterei tutti i giorni della mia milizia
    finché arrivi per me l’ora del cambio!
    15 Mi chiameresti e io risponderei,
    l’opera delle tue mani tu brameresti.”

    (Giobbe 14: 13-15, CEI)

    Si direbbe che l’autore del libro di Giobbe fosse a conoscenza delle tesi della metempsicosi provenienti dal vicino mondo ellenico. Tesi che devono essergli sembrate rivelatrici per dirimere le stravaganti incongruenze presenti nel Tanakh sulla giustizia divina. A questo proposito, HaShem, quando dettò a Mosè le proprie leggi, stabilì che:  

    “Non si metteranno a morte i padri per una colpa dei figli, né si metteranno a morte i figli per una colpa dei padri; ognuno sarà messo a morte per il proprio peccato.”

    (Deuteronomio 24:16, CEI).

    Tuttavia, quando succede che è Dio stesso che si occupa di somministrare i castighi agli uomini, egli punisce nei figli le colpe dei padri fino alla terza e quarta generazione (secondo comandamento).

    Secondo l’Ebraismo sia le fortune che le disgrazie verrebbero da Dio, e non sfugge che ciò avviene con gravissime disuguaglianze sociali.  Succede infatti che molti empi vivono felicemente la propria esistenza al riparo dalla giustizia umana, mentre tanti giusti patiscono miserie e sventure, a volte perfino dal momento della nascita.

    Gli esseri umani sarebbero dunque vittime delle imposizioni del loro Creatore? Oppure è proprio questo il metodo con cui attua la sua giustizia, ossia col castigo dell’empio dopo che è rinato in un altro corpo? Gli uomini, sui quali ricadono le colpe dei padri, sarebbero quindi i medesimi individui condannati a pesanti tribolazioni nelle esistenze successive.

    La giustizia divina sarebbe pertanto anche educativa: chi oggi ruba, assassina, violenta, schiavizza sarà in un’esistenza successiva a sua volta derubato, assassinato, violentato, schiavizzato, in quella che potremmo definire dottrina del contrappasso. Pertanto l’idea della reincarnazione non sembra essere fuori contesto con la riflessione sulle umane sofferenze che pone ai lettori il racconto di Giobbe.

    1. Ad essere precisi, Giobbe non dice che ritornerà in “un utero materno”, ma “nel ventre di mia madre”. Il tentativo di interpretare il verso in maniera iper letterale per infilarci la reincarnazione si scontra con il fatto che, anche in caso di trasmigrazione delle anime, Giobbe non ritornerebbe comunque nel ventre della sua precedente madre, ma in quello di un’altra donna. Perciò il senso letterale non regge e la frase è da intendere poeticamente come un ritorno alla terra, la stessa identica metafora che troviamo in Genesi 3 con l’idea del ritorno alla polvere della terra da cui l’uomo deriva. Tra l’altro il presunto riferimento alla reincarnazione stravolgerebbe il senso pessimistico di amara rassegnazione del racconto, poiché le parole di Giobbe verrebbero intese come “ora ho perso tutto, ma in futuro rinascerò e avrò una nuova opportunità”, un senso inaccettabile nel contesto.
      Inoltre al v. 13 Giobbe non dice che entrerà nella tomba per poi reincarnarsi in un neonato, ma dà voce alla speranza, secondo lui vana, che l’uomo possa morire temporaneamente, nascosto nella tomba, per poi tornare a vivere dopo una sciagura. Il concetto qui è quello della resurrezione, non della reincarnazione, ed è in ogni caso presentato appunto come una vana speranza (“Ah, se solo potessi…”).

      La reincarnazione risolverebbe alcuni problemi teologici ed etici legati alla sofferenza dei giusti e alla prosperità dei malvagi, è vero, ma ciò non significa che questa sia la soluzione suggerita dalla Bibbia. Non lo è. Ricordiamo i molti casi in cui i salmisti e i profeti si lamentano (anche in modo parecchio audace) con Dio proprio per questa apparente ingiustizia così comune nel mondo, ma in nessun caso essi si consolano al pensiero di una possibile trasmigrazione delle anime. Inoltre la reincarnazione crea altri problemi: se la sofferenza di un innocente fosse dovuta a delle colpe commesse nella vita precedente, verrebbe meno la compassione e quel senso di protesta che gli autori biblici rivolgono a Dio. Tutto sarebbe giustificato dalla metempsicosi e persino i bambini vittime di sciagure verrebbero giudicati come reincarnazioni di criminali.

  3. La Bibbia parla di resurrezione non di reincarnazione, dove tuto sarà compensato e portato a compimento, sia per i giusti che per gli ingiusti.

    Sono misteri per gli essere umani, Ma chi non crede alla prima perché dovrebbe credere alla seconda?

    Ma che cosa ha visto Giobbe alla fine secondo voi, quando ha detto a Dio che prima lo conosceva solo per sentito per dire, mentre adesso lo vedeva con i propri occhi? Si dovrebbe capire in base a quanto è scritto nella Bibbia, se è la Bibbia il libro della rivelazione di Dio.

  4. Assenza nel Tanakh: Non ci sono versetti nella Torah (i primi cinque libri della Bibbia), nei Profeti o negli Scritti che menzionino direttamente la reincarnazione. L’enfasi nel Tanakh è sulla vita terrena, sulla responsabilità individuale e sulla ricompensa o punizione divina in questo mondo e in un futuro regno (Olam HaBa). Tutto il resto è speculazione esagetica.

  5. In sostanza la reincarnazione non è un dogma o un articolo di fede nell’ ebraismo tradizionale rabbinico.In sintesi, mentre la reincarnazione non ha un fondamento biblico diretto, è diventata una credenza significativa solo all’interno della tradizione mistica ebraica. Condivido in toto l’articolo del redattore. Ben fatto 👍

Scrivi una risposta a Antonella Cancella risposta