“Vi raccoglierò fra i popoli”: il ritorno dei dispersi d’Israele

“Suona il grande shofar per la nostra liberazione e innalza uno stendardo per radunare i nostri dispersi; e raccoglici insieme dai quattro angoli della terra verso la nostra terra. Benedetto sei Tu, Signore, che raduni i dispersi del Tuo popolo Israele”.

Questa preghiera, pronunciata ogni giorno da duemila anni durante la recitazione dell’Amidàh, esprime il desiderio messianico e nazionale dell’Ebraismo: il ritorno in patria e il riscatto di tutti gli esuli d’Israele dispersi nel mondo.

Tale speranza, chiamata Kibbutz galuyòt (“Raduno dei dispersi“), costituisce uno degli elementi più importanti della Redenzione attesa dal popolo ebraico, ed è divenuta il fulcro della poesia HaTikvah, l’inno nazionale dello Stato d’Israele:

“Non è ancora perduta la nostra speranza,
la speranza di duemila anni,
di essere un popolo libero nella nostra terra:
la Terra di Sion e Gerusalemme”.

Il concetto del “Raduno dei dispersi” ha però radici molto antiche: l’idea si trova infatti già nella Bibbia, dove è presentata in numerose occasioni e con grande enfasi.

Isaia, ad esempio, assicura che Dio “raccoglierà gli espulsi d’Israele […] dai quattro angoli della terra” (11:12); mentre Geremia dichiara che questa grande salvezza, quando si compirà, eclisserà persino l’Esodo dall’Egitto (23:7-8).

Con un linguaggio simile, Zaccaria promette nel nome di Dio: “Ecco, io salverò il mio popolo dal paese dell’est e dal paese dell’ovest. Io li farò venire ed essi abiteranno a Gerusalemme” (8:7-8); e nei Salmi si loda il Creatore come Colui che “ricostruisce Gerusalemme e raduna i dispersi d’Israele” (147:2).

Gli oracoli che parlano di questo mirabile evento sono però alquanto diversi tra loro: tra i libri biblici che se ne occupano, ognuno tratteggia la promessa del ritorno nella terra santa in maniera specifica e da una certa prospettiva.

In questo articolo ci proponiamo perciò di analizzare tre esempi molto rappresentativi, evidenziando il messaggio peculiare che ognuno di essi comunica in merito alla restaurazione messianica del popolo ebraico.

Un confronto tra queste fonti potrà aiutarci a scoprire un’interessante pluralità di visioni e prospettive che compongono insieme un quadro piuttosto ricco della Redenzione.

Deuteronomio: riscatto e pentimento

Benché un’allusione piuttosto chiara al Kibbutz galuyot si trovi già nel Levitico (26:42-45), la prima vera menzione esplicita di questa promessa di riscatto è espressa nel Libro del Deuteronomio.

Qui, al capitolo 28, Moshè pronuncia un discorso molto aspro e angosciante in cui annuncia al popolo le terribili sventure che lo colpiranno in futuro in caso di disobbedienza alla Legge divina.

Una di queste maledizioni è l’asservimento di Israele a una nazione straniera molto crudele, con il successivo esilio del popolo dalla terra promessa.

Gli Israeliti, predice Moshè, saranno dispersi “fra tutti i popoli, da un’estremità all’altra” (Deut. 28:65); nel corso di tale esilio, inoltre, essi non troveranno pace, ma vivranno nell’oppressione e nel terrore (vv. 65-68).

Il discorso sembra concludersi con questa prospettiva spaventosa, dove all’abbandono dei Comandamenti da parte di Israele Dio risponde abbandonando il popolo a un destino di persecuzione e dolore.

Al capitolo 30, però, quasi a sorpresa, Moshè torna a parlare del futuro della nazione e pronuncia parole eterne che riaccendono la speranza:

E avverrà, quando ti saranno venute addosso tutte queste cose, la benedizione e la maledizione che io ti ho posto davanti, e tu le richiamerai alla mente fra tutte le nazioni, tra le quali HaShem, il tuo Dio, ti avrà scacciato, e ritornerai ad HaShem, il tuo Dio, e ascolterai la sua voce, tu e i tuoi figli, con tutto il tuo cuore e con tutta la tua anima, secondo tutto ciò che oggi ti comando. HaShem, il tuo Dio, farà tornare i tuoi esuli, avrà pietà di te e ti raccoglierà di nuovo fra tutti i popoli, fra i quali HaShem, il tuo Dio, ti aveva disperso.
Anche se i tuoi dispersi fossero all'estremità del cielo, HaShem, il tuo Dio, ti raccoglierà di là e di là ti prenderà. HaShem, il tuo Dio, ti ricondurrà nella terra che i tuoi padri possedettero e tu la possederai; ed egli ti farà del bene e ti moltiplicherà più dei tuoi padri (Deut. 30:1-5).

In questi versi, come nota Rav Yonatan Grossman, la parola chiave è shuv (שוב) che in ebraico assume il significato di ritorno, ravvedimento e restaurazione, e che compare nel brano sette volte.

Affinché avvenga il “ritorno” in patria, è necessario che il popolo “ritorni” con il suo cuore a Dio. In questo modo, anche Dio “ritornerà” a benedire Israele. Grossman scrive:

“Quando il popolo d’Israele ritorna a Dio, Egli a sua volta ritorna a loro, li riconduce nella loro terra e restaura il Suo amore e le Sue benedizioni […]. Proprio come la nazione amerà l’Onnipotente, così Egli amerà la nazione”.

La salvezza messianica promessa nel Deuteronomio è dunque vincolata al concetto di Teshuvàh (ritorno, pentimento) e rappresenta il completo capovolgimento della condizione di schiavitù e infamia in cui gli Israeliti si ritroveranno a causa delle loro colpe.

Si può dire che lo scopo del brano sia di rassicurare la nazione facendole comprendere che, persino dopo essere caduta nell’abisso più oscuro, potrà risollevarsi tornando alla giustizia e all’osservanza dei precetti divini.

Amos: ravvedimento non pervenuto

Amos di Tekoa, profeta e pastore di greggi, è l’autore di uno dei libri biblici più severi nei confronti della società del suo tempo, con una serie di invettive che condannano la corruzione e le disuguaglianze sociali.

Il libro si presenta come un susseguirsi di critiche contro il regno d’Israele e di annunci di castighi e distruzione. Sembra non esserci nulla di rincuorante fra le sue pagine, almeno finché non si giunge agli ultimi versi.

Solo qui, infatti, Amos esprime una consolazione per gli Israeliti, concludendo dunque il suo libro tanto pungente con una profezia di redenzione:

E farò tornare gli esuli del mio popolo Israele. Essi ricostruiranno le città desolate e vi abiteranno, pianteranno vigne e ne berranno il vino, faranno giardini e ne mangeranno il frutto.
Li pianterò sulla loro terra, e non saranno mai più sradicati dalla loro terra che io ho dato loro, dice HaShem, il tuo Dio (Amos 9:14-15).

Racchiusa in poche frasi, emerge qui una delle descrizioni più potenti e vivide del Kibbutz galuyot. Non stupisce perciò che il moderno Sionismo religioso celebri spesso questi versi, ritenendo che essi si siano adempiuti nella nostra era.

A differenza del brano del Deuteronomio, qui l’immagine del Raduno dei dispersi è presentata tuttavia senza alcun richiamo al ravvedimento o alla condotta del popolo.

Amos non dice che Israele si pentirà o che cesserà di compiere il male, né pone alcuna condizione per il realizzarsi della promessa. Forse il pessimismo di questo profeta riguardo il livello morale della nazione è ciò che gli impedisce di alludere a un possibile cambiamento positivo nelle scelte etiche degli Israeliti.

D’altro canto, tuttavia, concludere il libro senza prospettive di salvezza sarebbe stato come dubitare delle promesse di Dio e della validità eterna del Suo Patto con Israele, qualcosa di inaccettabile per un profeta fedele alla Torah.

È interessante notare che il testo attribuisce ai superstiti ebrei tornati in patria tre diverse tipologie di azioni: costruire città e abitarle; piantare vigne e berne il vino; coltivare giardini e mangiarne il frutto.

Si tratta, forse non a caso, di tre celebri azioni problematiche compiute dall’umanità nei primi racconti della Genesi, esattamente in ordine inverso:

  1. Costruire città: corrisponde alla vicenda della Torre di Babele, in cui gli uomini decidono di costruire una nuova città per risiedervi (Genesi 11:1-9).
  2. Piantare una vigna: ricorda la vigna di Noach (Noè), piantata dopo il Diluvio, da cui scaturisce un racconto fosco che porta alla maledizione della stirpe di Kenaan (Genesi 9:20-27).
  3. Coltivare un giardino (e mangiarne il frutto): richiama la celebre storia del Giardino dell’Eden e del frutto proibito.

Se ciò non è da ricondurre a una pura coincidenza, questo “andare a ritroso” nella storia dell’umanità primordiale renderebbe il ritorno degli Israeliti nella loro terra una sorta di nuovo inizio della storia umana, con l’opportunità di rimediare agli errori del passato, da un punto di vista non nazionale ma universale.

La visione di Ezechiele: una redenzione senza meriti.

L’ultimo esempio che vogliamo analizzare è quello fornito da Ezechiele (Yechezkèl), profeta che visse da vicino la rovina di Gerusalemme e l’esilio del popolo di Giuda a Babilonia.

Nel suo oracolo messianico che inizia al capitolo 36, Ezechiele si rivolge dapprima ai “monti d’Israele”, devastati e saccheggiati dalle nazioni confinanti, preannunciando il ritorno dei loro abitanti dispersi (36:1-15).

Ezechiele descrive poi il dramma degli Israeliti scacciati dal loro paese e divenuti oggetto di scherno e disprezzo da parte degli altri popoli, annunciando quindi il loro riscatto:

Così dice HaShem, Dio: Io non agisco per riguardo a voi, casa d’Israele, ma per amore del mio santo Nome, che voi avete profanato fra le nazioni presso le quali siete andati.
Io santificherò il mio grande Nome, profanato fra le nazioni, il Nome che voi avete profanato in mezzo a loro; e le nazioni sapranno che io sono HaShem – parola di HaShem, Dio – quando sarò santificato per mezzo di voi davanti ai loro occhi.
Io vi prenderò dalle nazioni, vi radunerò da tutti i paesi e vi ricondurrò nella vostra terra (Ezechiele 36:22-24).

La novità contenuta in questi versi è subito evidente: mentre il Deuteronomio aveva posto un legame tra il pentimento d’Israele e la sua salvezza, e Amos aveva parlato del Raduno dei dispersi senza alcun accenno ai meriti del popolo, qui addirittura si legge che gli Israeliti saranno redenti pur essendo ancora colpevoli.

Nel suo libro Ezekiel: From Destruction to Restoration, la studiosa Tova Ganzel commenta:

“L’avvenimento della redenzione [secondo Ezechiele] non dipende dai meriti del popolo; il processo è condotto invece interamente da Dio. Il profeta ne spiega la ragione: il raduno del popolo nella sua terra avviene unicamente perché Dio desidera che il Suo Nome sia santificato agli occhi delle nazioni”.

Secondo la versione proposta da Ezechiele, il Creatore interviene per riscattare gli Israeliti soltanto al fine di salvaguardare il proprio onore agli occhi del mondo intero, non come risposta al pentimento (inesistente) del popolo (abbiamo parlato di questo concetto nella nostra lezione dal titolo “La reputazione di Dio“).

Questa terza prospettiva sul Kibbutz galuyot sembra essere la più sconsolante, dal momento che non riconosce agli uomini alcun merito nel processo di restaurazione nazionale: persino nel promettere la salvezza, la voce divina rimprovera il popolo peccatore che non si è mai ravveduto.

Eppure, al contempo, tale visione è in realtà anche la più rassicurante, poiché dietro quello che suona come un rimprovero si cela la garanzia più solida: se Israele rimarrà per sempre nel peccato, Dio dovrà ugualmente redimerlo, prima o poi, almeno per tutelare il proprio onore.

Prospettive che si completano

In un famoso dibattito rabbinico riportato nel Talmud (Sanhedrin 97b), i Maestri discutono sul modo in cui avverrà la Redenzione.

Rabbi Elièzer sostiene che il pentimento di Israele sia un requisito necessario, mentre secondo Rabbi Yehoshùa il riscatto promesso non dipende affatto dai meriti del popolo. Entrambi citano versetti biblici a sostegno della propria posizione.

Da quanto abbiamo visto analizzando i tre esempi del Deuteronomio, Amos ed Ezechiele, possiamo concludere che le due opinioni siano ambedue corrette: la Bibbia le include entrambe nelle sue diverse visioni messianiche.

Rabbi Eliezer e Rabbi Yehoshua sono dunque rappresentanti di due voci ugualmente radicate nelle Scritture, e il loro dibattito riflette una divergenza interna al mondo biblico.

In questo come in altri argomenti, la prospettiva biblica non è infatti monolitica e dogmatica, ma abbraccia prospettive differenti che riflettono la natura complessa di una realtà multiforme che sfugge alle definizioni schematiche.

Un commento

  1. E te che ne pensi. Solo per amore del suo nome Dio realizza i suoi disegni, o solo grazie agli uomini che rispettano le sue leggi?

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