Le feste della Torah: un Tempio nel tempo

E HaShem disse a  Moshè: Parla ai figli d'Israele e di' loro: Ecco le ricorrenze di HaShem, che voi proclamerete come sante convocazioni. Queste sono le mie ricorrenze (Levitico 23:1-2).

Quello che il Libro del Levitico ci offre al capitolo 23 è un vero e proprio calendario ebraico: per la prima volta nella Bibbia, troviamo infatti un elenco di tutte le festività della Torah, poste in ordine cronologico secondo le rispettive date.

In precedenza, il testo biblico ci aveva fornito altre due liste di festività (Esodo 23:14-17; 34:18,22-23), che comprendevano tuttavia soltanto le tre “feste di pellegrinaggio” (Shalòsh Regalìm). Qui, invece, l’elenco presentato può dirsi completo, includendo tutte le solennità.

Nel brano, ogni festa è chiamata mikrà kòdesh (“convocazione sacra”) e mo’èd (“ricorrenza”). Quest’ultimo termine indica alla lettera un incontro prefissato, un appuntamento o convegno, da intendere come il congiungimento ricorrente tra la nazione e il suo Dio.

La stessa parola è usata spesso anche per indicare il luogo in cui la Divinità si manifestava per comunicare con Moshè nell’accampamento di Israele e nel Santuario: la “tenda di convegno” (Ohel Mo’ed).

Impiegando in ambedue i casi lo stesso vocabolo, la Torah insegna quindi che l’incontro tra il Creatore e le creature avviene sia nello spazio, attraverso il luogo consacrato del Santuario, che nel tempo, con il ricorrere dei giorni sacri e dei loro riti.

Le feste e i loro precetti

La lista di Levitico 23 si apre con lo Shabbàt, il riposo settimanale, definito come giorno di astensione dal lavoro in ogni luogo in cui gli Israeliti abiteranno (v. 3).

Da qui si passa poi alle festività annuali, ognuna associata a uno o più precetti caratteristici:

1. Pesach (la Pasqua), seguita dai sette giorni della festa delle azzime (Chag HaMatzot), in cui appunto è comandato di mangiare pane senza lievito (vv. 5-8).

2. L’offerta dell’Omer, cioè la presentazione delle primizie della mietitura da parte degli Israeliti al Santuario (vv. 9-13).

3. Shavuot (Pentecoste), sette settimane dopo l’offerta dell’Omer. Si tratta della festa della mietitura, con l’offerta del pane e l’obbligo di riservare un residuo del grano maturo ai poveri e agli stranieri (vv. 15-22).

4. Il giorno del “ricordo del clamore” (Zikhron Teru’ah), oggi chiamato Rosh HaShanah (vv. 23-25).

5. Yom HaKippurim (“giorno delle espiazioni”), con l’obbligo dell'”afflizione” per purificarsi dalle colpe (vv. 26-32).

6. Sukkot (la festa delle Capanne), con i precetti di raccogliere le “quattro specie vegetali” e di risiedere in capanne per sette giorni (vv. 33-43).

7. Sheminì Atzèret, ossia l’assemblea dell'”ottavo giorno” (v. 36), celebrata al termine di Sukkot.

A risultare interessante non è però soltanto ciò che il brano ci dice riguardo ciascuna festività, ma anche ciò che omette: al contrario di come si legge nelle già menzionate liste dell’Esodo (e, più avanti, in quella riportata in Deuteronomio 16), in questo elenco non c’è alcuna traccia del precetto del pellegrinaggio, essenziale per le feste di Pesach, Shavuot e Sukkot.

Nel brano, le norme sui sacrifici da offrire durante le festività sono talvolta illustrate in modo generico, o persino tralasciate del tutto (si veda la lista in Numeri 28-29, molto più dettagliata sul tema dei sacrifici).

Inoltre, il significato storico delle feste, tranne che nel caso di Sukkot, non è espresso esplicitamente: in particolare, riguardo la Pasqua, non è presente alcun riferimento al ricordo dell’Esodo dall’Egitto, strettamente legato a tale festività.

In questo capitolo, la Torah non si focalizza quindi sul pellegrinaggio, sui sacrifici, né sul valore che le feste ricoprono nella storia d’Israele; piuttosto che su questi elementi, così importanti in altri brani, il Levitico si concentra invece sul concetto della sacralità del tempo: le feste sono presentate soprattutto in quanto mo’adim, tempi prefissati di incontro tra Dio e l’uomo.

Lo scopo del testo è insomma quello di comporre una sorta di “calendario di coscienza religiosa” che renda il popolo ebraico consapevole del suo rapporto con la Divinità in ogni fase dell’anno e del ciclo agricolo.

Non manca forse qualche festa?

All’inizio di questo articolo, abbiamo affermato che la lista in Levitico 23 è da considerarsi esaustiva, in quanto menziona tutte le solennità. Oggi, però, agli occhi di molti, tale lista potrebbe apparire incompleta, poiché mancano in essa due fra le festività ebraiche più famose e amate: Chanukkah e Purim.

Chiaramente, se queste feste non sono menzionate è perché furono istituite in epoche successive: Purim commemora la salvezza degli Ebrei dal piano di sterminio del malvagio Haman, come narrato nel Libro di Ester, mentre Chanukkah celebra la vittoria dei Maccabei sui dissacratori greco-siriani del Tempio di Gerusalemme (II secolo a.e.v.).

Questa ovvia spiegazione storica non ha tuttavia convinto alcuni studiosi rabbinici che, in virtù della fede nella natura eterna della Torah, hanno ricercato nel testo biblico riferimenti e allusioni anche alle feste la cui origine è ben più recente.

Dimentichiamo allora la semplice logica convenzionale e immaginiamo per un attimo che il calendario del Levitico possa includere profeticamente anche Chanukkah e Purim: dove sarebbero collocate nel brano tali festività? Dove dovremmo cercarle all’interno della lista?

Dal momento che l’elenco è formulato in ordine cronologico in base alle date delle varie celebrazioni, e che Chanukkah e Purim ricorrono nel calendario ebraico dopo Sukkot e Sheminì Atzeret (le ultime feste menzionate), il testo dovrebbe quindi porle alla fine, subito dopo le altre feste.

Cosa troviamo dunque dopo la conclusione della lista? Leggiamo i primi versi del capitolo 24:

E parlò HaShem a Moshè dicendo: Ordina ai figli d'Israele che ti portino olio puro di olive schiacciate per il Candelabro, per tenere i lumi sempre accesi. [...] È una legge perenne, di generazione in generazione. Egli le disporrà sul Candelabro d'oro puro, perché ardano sempre davanti ad HaShem (24:1-4).

Cosa ci fa questo precetto sull’accensione del Candelabro (Menorah) subito dopo il brano sulle festività? La domanda è ancora più ragionevole se consideriamo che la stessa identica norma era già comparsa in Esodo 27:20, espressa con parole simili. Perché tornare a parlare, proprio in questo punto, della Menorah e dei suoi lumi, ripetendo ciò che era già stato affermato in Esodo?

Proseguendo ancora la lettura del Levitico, ai vv. 5-9 troviamo alcune disposizioni sui dodici pani da esporre sulla Tavola del Santuario. Anche in questo caso, la Torah sembra tornare a un argomento già trattato in passato, poiché della Tavola e del pane sacro si era parlato in Esodo 25:23-30.

Rav Yonatan Grossman suggerisce che la sorprendente collocazione di tali precetti possa essere spiegata richiamando, anche in questo caso, il tema del tempo: i lumi del Candelabro e i pani della Tavola sono entrambi chiamati tamìd, cioè “perenni” o “perpetui”. Si tratta infatti di riti “senza tempo”, che dovevano essere eseguiti in modo costante all’interno del Tabernacolo.

Il Candelabro e la Tavola si contrappongono quindi alle festività, che invece si avvicendano nel corso dei mesi e delle settimane: mentre il Santuario, la dimensione spaziale, è il mondo della stabilità e dell’immutabilità, le feste rappresentano la dimensione temporale, scandita dai giorni sacri. Per evidenziare il contrasto, la Scrittura ha posto quindi i due brani opposti l’uno accanto all’altro.

Ricordiamo però che il precetto dell’accensione del Candelabro occupa proprio il punto in cui si dovrebbe collocare un eventuale riferimento profetico a Chanukkah. Ebbene, secondo alcuni pensatori rabbinici tra cui Rabbi Oury Cherki, non si tratta di una pura coincidenza: la festa di Chanukkah, chiamata appunto “festa delle luci“, è celebrata non a caso con il rito dell’accensione dei lumi che ricorda la riconsacrazione del Tempio.

Cosa dire poi di Purim? Oury Cherki fa notare in proposito che i dodici pani della Tavola sacra (la mensa del Santuario) possono richiamare proprio questa festività, che ricorre nel dodicesimo mese e che è incentrata sul tema del banchetto, essendo inoltre celebrata con un pasto festivo.

Da queste suggestive corrispondenze e riflessioni prende dunque forma un’idea affascinante: nell’istituire due nuove solennità allo scopo di commemorare eventi successivi della storia d’Israele, i Maestri dell’Ebraismo sembrano aver usato la Torah come modello o come “matrice”, prelevando ciò che nel Levitico faceva parte della dimensione eterna del tamìd (perpetuo, immutabile) per trasferirlo nella dimensione temporale e trasformarlo così in mo’ed, un appuntamento con la Divinità fissato sul calendario dell’anima.

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