All’inizio del suo celebre Commentario biblico, Rashi (XI secolo) pone una domanda per nulla scontata: per quale motivo la Torah comincia proprio con il racconto della Creazione del mondo? Perché non si apre invece con i primi comandamenti rivelati al popolo ebraico?
Alla base di questo interrogativo si cela un presupposto implicito, cioè l’idea secondo cui la Torah sia principalmente un codice di leggi, un’esposizione di norme e rituali, piuttosto che un testo narrativo.
In altre parole, Rashi si chiede per quale motivo le Scritture pongano al primo posto un racconto e non dei precetti da mettere in pratica, dal momento che sono questi ultimi a rappresentare (secondo la sua visione personale) la vera essenza della Torah.
Basandosi su fonti rabbiniche precedenti, Rashi risponde alla domanda affermando che anche il racconto della Creazione (come molte altre narrazioni bibliche) sia stato scritto per trasmettere insegnamenti di natura giuridica e pratica. Secondo questa lettura, nella Bibbia, anche i racconti sono in realtà funzionali ai comandamenti. Ma una simile soluzione non è stata accettata da tutti.
I cinque Libri del Pentateuco si presentano come una raccolta di leggi, ma anche come un insieme di storie. Essi costituiscono un’opera narrativa, e al contempo un testo giuridico. Quale di questi due “volti” o “aspetti” è da ritenersi di maggior rilievo? I racconti sono forse da intendere come una semplice “introduzione” alle leggi, oppure sono le leggi a rappresentare una “digressione” rispetto al flusso narrativo della Bibbia?
In questo articolo vogliamo riflettere sull’argomento mostrando l’esistenza di un interessane legame che connette le sezioni giuridiche e quelle narrative della Torah, creando tra esse un dialogo e comunicando al lettore un messaggio che potrebbe apparire inatteso.
Leggi che rievocano storie
In alcuni casi, quando la Torah illustra i suoi comandamenti, si può avvertire la sensazione che il testo intenda richiamare alcune vicende narrate nella Torah stessa. Più precisamente, le leggi bibliche sembrano talvolta fare riferimento in modo non troppo velato alle storie contenute nel Libro della Genesi.
Consideriamo, ad esempio, la proibizione dell’omicidio. Tale precetto compare per la prima volta nell’epilogo del racconto del Diluvio, con una formulazione piuttosto poetica:
Ma del vostro sangue, per le vostre vite, chiederò conto. [...] Dalla mano di ogni uomo, dalla mano di ognuno che è suo fratello, chiederò conto. Chi versa il sangue dell'uomo, per mezzo dell'uomo il suo sangue sarà versato (Genesi 9:5-6).
In questi versi, Dio dichiara che “chiederà conto” del sangue dell’uomo, versato da “ognuno che è suo fratello”. L’assassino è presentato dunque come un parente stretto della vittima, “suo fratello”, appunto, come se ogni omicidio fosse in fondo un fratricidio.
In questa idea dall’elevato valore etico è difficile non cogliere un richiamo a un certo episodio della Genesi: l’uccisione di Hevel (Abele) da parte di suo fratello maggiore Kayin (Caino). Il primo assassinio della storia biblica diviene così un archetipo e un esempio emblematico di tutti gli spargimenti di sangue di cui l’essere umano si macchierà nella sua esistenza.
Più tardi, nel Libro dell’Esodo, quando la Torah espone in maniera meno aulica le leggi relative all’omicidio, si può scorgere ancora un’allusione alla vicenda di Kayin: il testo afferma che Dio “porrà un luogo” dove chi compie un omicidio colposo potrà rifugiarsi e scampare alla vendetta (Esodo 21:13), così come Dio stesso aveva “posto un segno per Kayin” per proteggerlo dalla vendetta (Genesi 4:15). Si noti che, nel testo ebraico, compare in entrambi i brani il verbo sim (“porre”).
Il medesimo fenomeno si ripresenta anche altrove. Leggiamo a questo proposito in che modo il Deuteronomio formula la condanna del rapimento:
Se si trova un uomo a rapire qualcuno tra i suoi fratelli, tra i figli d'Israele, ed egli lo maltratta e lo vende, quel rapitore morirà, così estirperai il male di mezzo a te (Deut. 24:7).
La voce del legislatore definisce con enfasi la vittima del rapimento come “uno dei fratelli” del rapitore, uno dei “figli d’Israele”. Dal punto di vista del senso primario del testo, l’espressione indica semplicemente un connazionale: sia la vittima che il criminale sono israeliti, figli dello stesso popolo.
Tuttavia, leggendo il testo in maniera letterale, ecco che ci torna subito in mente qualcuno che davvero rapì e maltrattò suo fratello, un “figlio d’Israele”, allo scopo di venderlo: parliamo naturalmente della vicenda di Yosèf (Giuseppe, figlio di Giacobbe / Israele) e dei suoi fratelli, i quali complottarono contro di lui e lo gettarono in un pozzo per venderlo come schiavo (Genesi 37).
Poco prima, ancora nel Deuteronomio, troviamo un’altra norma che fa eco agli avvenimenti della Genesi:
Se un uomo ha due mogli, l’una amata e l’altra odiata, e tanto l’amata che l’odiata gli hanno generato dei figli, se il primogenito è figlio dell’odiata, nel giorno in cui lascia per testamento i beni che possiede ai figli, non potrà assegnare la primogenitura al figlio dell’amata, preferendolo al figlio dell’odiata che è il primogenito, ma riconoscerà come primogenito il figlio dell’odiata (Deuteronomio 21:15-17).
In questo caso, la Torah sta praticamente riassumendo la storia del patriarca Yaakòv (Giacobbe) e delle sue due mogli Leàh e Rachèl. Sappiamo infatti da Genesi 29:30 che Yaakov amava Rachel, mentre Leah è definita senuàh (“odiata”), lo stesso termine utilizzato in questo brano.
Sappiamo inoltre che da questa conflittualità tra le mogli derivò la preferenza accordata da Yaakov a suo figlio Yosef (il “figlio dell’amata“), nominato di fatto suo primogenito (a discapito dei figli maggiori), con tutte le animosità e i guai che ne scaturirono.
Possiamo poi trarre un ulteriore esempio di tale fenomeno nella legge relativa allo schiavo che fugge dal suo padrone:
Non restituirai al suo padrone uno schiavo che è scappato presso di te [fuggendo] dal suo padrone. Egli risiederà con te, in mezzo a te, presso il luogo che egli sceglierà, in una delle tue città che sarà bene per lui. Non lo opprimerete (Deut. 23:15-16).
Quale racconto della Genesi ci parla di uno schiavo in simili circostanze? Le parole con cui questi versi si aprono ci offrono un indizio: il verbo sagar (qui tradotto con “restituire”) richiama foneticamente il nome di Hagar, la serva di Sarah, moglie di Avraham (Abramo).
Secondo la narrazione di Genesi 16, Hagar fuggì infatti dalla sua padrona, che l’aveva afflitta, e cercò rifugio sulla via di Shur. Qui un angelo le apparve promettendole che suo figlio avrebbe abitato “in presenza dei suoi fratelli” (v. 12), frase in cui si può cogliere la corrispondenza con quanto stabilito dalla norma sullo schiavo in fuga: “egli risiederà con te”.
Qualcosa non torna
Piuttosto che andare in cerca di altri esempi (che pure non mancano), vogliamo ora fermarci a riflettere sui parallelismi appena rilevati tra storie e leggi della Torah.
Probabilmente, a qualcuno non sarà sfuggita una certa dissonanza, una sorta di incongruenza riscontrabile nei casi analizzati: in tutti questi esempi, i personaggi dei racconti a cui si fa riferimento non subiscono la sorte che essi meriterebbero secondo le leggi bibliche.
La Torah prescrive la pena di morte per colui che commette un assassinio (Genesi 9:6; Esodo 21:12); eppure Kayin riceve solo la condanna all’esilio e la protezione dalla vendetta, ossia ciò che nella legge biblica è previsto nel caso di omicidio colposo.
Benché la Torah comandi di infliggere la pena capitale a chi rapisce e vende “un proprio fratello tra i figli d’Israele”, i fratelli di Yosef non incorrono in una simile punizione, né da parte di giudici umani né per mano divina. In definitiva, il loro atto malvagio porta persino dei benefici poiché Yosef, divenuto viceré d’Egitto, permette all’intera famiglia di sopravvivere a una grave carestia.
Mentre il Deuteronomio vieta a un uomo di violare il diritto alla primogenitura per favorire il figlio della “moglie amata”, ciò è esattamente ciò che Yaakov compie privilegiando Yosef. Anche sul letto di morte, il patriarca stabilisce la sua eredità a discapito del suo vero primogenito (Reuven) e a vantaggio di Yosef.
Che dire poi della vicenda di Hagar? Il messaggero divino fa in questo caso proprio ciò che la Torah proibisce agli Israeliti: comanda alla schiava in fuga di ritornare dalla sua padrona e di “sottomettersi a lei” (!).
Come spiegare questo palese divario tra le leggi e le storie? Esiste forse un contrasto, una polemica, tra le sezioni narrative e quelle giuridiche delle Scritture?
Un contrasto di cui fare tesoro
Spesso, nella Bibbia come nella vita, la coesistenza di prospettive differenti e l’emergere di presunte contraddizioni sono ciò che genera ricchezza e che ci permette di apprezzare la complessità dei rapporti umani.
All’interno dei testi biblici, le leggi e i racconti rappresentano due mondi strettamente connessi, ma anche indipendenti: da un lato abbiamo le norme, i valori morali, i principi astratti che restano stabili, e dall’altro le vicende concrete, con le loro circostanze specifiche e i loro sviluppi imprevedibili.
Negli esempi che abbiamo analizzato, la Torah sembra volerci insegnare che esiste la legge, la cui autorità è in apparenza inflessibile, ma esistono anche situazioni reali che fanno sì che la giustizia prenda talvolta un altro corso.
Mettere a morte Kayin sarebbe stata teoricamente la soluzione più conforme alla lettera della legge; eppure, nel suo caso particolare, il contesto richiedeva una punizione diversa che non mettesse a repentaglio la sopravvivenza del genere umano, come spiega Radak nel suo Commentario (vedi l’articolo “La condanna di Caino: perché l’esilio e non la morte?“).
I fratelli di Yosef si resero senza dubbio colpevoli di un grave crimine, un atto che la Torah condanna nel modo più severo. Tuttavia, il potere del ravvedimento e del perdono permette alla loro storia di concludersi con la riconciliazione e non con il lutto.
Privare arbitrariamente un figlio dei propri diritti a causa di un mero favoritismo è di certo inaccettabile, ma cosa può avvenire nel caso in cui un primogenito sia realmente inadeguato a svolgere il proprio ruolo, mentre suo fratello più giovane dimostra di possedere la vocazione genuina di un leader? È il dilemma che la Genesi mette in scena nella vicenda di Yaakov e dei suoi figli.
Riguardo poi all’episodio di Hagar, in base ai valori codificati dalla legge biblica, la serva avrebbe di sicuro meritato un affrancamento immediato. Eppure, in quelle precise circostanze, l’angelo le promette che una temporanea sottomissione alla padrona le avrebbe garantito maggiori benedizioni future per lei e per la sua discendenza, come di fatto avvenne.
È importante sottolineare che queste deviazioni dal corso regolare della giustizia sono appunto da intendere come eccezioni, e che i valori stabiliti dalla legge rimangono comunque saldi.
Entrambi gli aspetti, la rigidità dei comandamenti e la vitalità impetuosa delle storie, devono però coesistere, affinché l’osservanza dei precetti non si tramuti in un sistema opprimente, incapace di abbracciare la complessità delle vicissitudini umane.
Illuminante. Scritto benissimo. Grazie
Grazie a te. Se hai domande o altri temi da proporre siamo a disposizione
Piacevole, interessante lezione, grazie!
Caro redattore,
In genere le storie di Genesi, come quelle da te citate in questo articolo, non seguono la linea morale della legge mosaica, ma non credo che la ragione sia di attenuarne la severità. Direi anzi che le loro finalità e i loro significati dovevano necessariamente esulare del tutto dalle norme della Torah.
Un esempio di ciò è l’unione tra consanguinei degli antenati del popolo eletto, a cominciare da Abramo e Sara che erano fratellastri, per finire con Mosè i cui genitori erano rispettivamente zia e nipote. L’endogamia famigliare dei patriarchi aveva presumibilmente lo scopo di escludere qualunque possibile loro commistione con altre genti, i cananei in primis. Eppure le leggi della Torah non soltanto vietano l’incesto: lo definiscono abominevole!
La slealtà verso Dio e l’adulterio sono fermamente condannati nel Decalogo, ma Abramo, icona della fede, tuttavia in un paio di racconti commette l’uno e l’altro peccato. Mi riferisco a quando, timoroso per la propria pelle, non confidando per nulla in HaShem che gli aveva promesso di essere il suo scudo, vende in moglie al faraone la propria consorte Sara. Se consideriamo le grandi ricchezze che ebbe in cambio, più che di adulterio si dovrebbe parlare di… lenocinio.
Lo scopo di questa storia ritengo che fosse di confutare qualunque eventuale malelingua riguardo l’integrità sessuale di Sara, la matriarca da cui ebbe origine il popolo eletto. Non trattandosi di una vergine ma di una bellissima donna… novantenne, occorreva dimostrare che durante la sua lunga esistenza Dio l’aveva sempre protetta dalle bramosie, perfino dei re. Però, a proposito della vicenda egiziana, succede che il testo, per come è scritto, lascia il dubbio che l’illecito matrimonio fra Sara e il faraone potesse essere stato consumato. Ecco quindi che il medesimo episodio viene ripresentato, stavolta in un regno filisteo, per aggiustarne il tiro: HaShem compare in sogno al re prima che avvenga la luna di miele per avvertirlo minacciosamente che Sara non va toccata essendo già maritata. La ripetizione di questo racconto aggrava però notevolmente la figura morale del patriarca e della coniuge perché adesso sono recidivi!
La medesima disavventura è addirittura ripresa per la terza volta ma avendo come protagonisti Isacco e Rebecca, ciò per confermare l’impareggiabile bellezza delle matriarche e quanto vigile fosse l’occhio di HaShem su di loro.
La Torah proibisce all’uomo di prendere in sposa due sorelle perché altrimenti queste diventerebbero rivali, ma Dio non solo permette che Giacobbe sposi due sorelle ma interviene per accrescerne la rivalità rendendo sterile quella più amata dal marito e fertile l’altra che lui non desiderava per niente. La finalità educativa di tale racconto, sebbene sia in contrasto con la legge biblica, secondo me è che nel matrimonio (poligamico) l’uomo israelita deve dare priorità alla procreazione e non alla passione. Perciò non deve fare il difficile a letto con la prima moglie che per tradizione gli viene scelta dai genitori (in questo caso dal suocero). Ho anzi l’impressione che la passione amorosa generalmente non sia ben vista in tutto il Tanakh.
Caro Marco,
Il fatto è che nei casi citati è proprio il testo della legge a fare in modo di rievocare le storie della Genesi. Analizzando il lessico del testo si coglie l’intento di richiamare di proposito gli “exempla” della Genesi che poi exempla non sono, dato che l’esito delle vicende non corrisponde a quanto previsto dalla legge. Ma non è un modo per attenuare la severità dei precetti: semmai si vuole illustrare l’applicabilità dei principi espressi dalla legge in circostanze non lineari e non convenzionali.
Inoltre non concordo con nessuna delle conclusioni che hai tratto dai casi che hai citato, in particolare dalla storia di Avraham e Sarai in Egitto. Presentarsi come il fratello maggiore di una donna non era, in quel contesto storico, un modo per indulgere in comportamenti lascivi. Al contrario, era l’unica forma di tutela che il patriarca potesse esercitare in simili circostanze. Ma il discorso è lungo e complesso.
Il solo importante exemplum virtutis che il testo della Torah trae dal libro di Genesi mi sembra sia la prova di fedeltà di Abramo verso Dio, vale a dire il tentato sacrificio di suo figlio Isacco per obbedire incondizionatamente al volere della divinità. Le altre narrazioni appaiono invece quali exempla all’incontrario rispetto alle normative della Legge. Ciò però non avrebbe senso dato che ad andare “contromano” sono proprio i personaggi “positivi” dell’epoca patriarcale, quelli cioè che dovrebbero dare il buon esempio. Diversamente, sono gli altri quattro libri della Torah e tutti gli altri del Tanakh che riportano insistentemente racconti dimostrativi di come il buon israelita NON deve comportarsi (l’adorazione del vitello d’oro, Salomone che innalza templi agli idoli ecc.) per essere in sintonia con la Legge rivelata.
Una curiosità: il Talmud considera il libro di Genesi quale opera di un unico autore, che sarebbe Mosè, oppure lo definisce una raccolta di racconti di varie provenienze? Personalmente propendo per la seconda possibilità dato che, se il testo fosse davvero unitario, alcune di quelle storie sarebbero davvero difficili da spiegare. Mi riferisco in particolare all’esempio da me riportato nel mio commento precedente riguardo ad Abramo e Sara. In proposito tu scrivi:
“Presentarsi come il fratello maggiore di una donna non era, in quel contesto storico, un modo per indulgere in comportamenti lascivi. Al contrario, era l’unica forma di tutela che il patriarca potesse esercitare in simili circostanze.”
Penso piuttosto che sarebbe stata l’unica forma di tutela solo per i comuni mortali, non per chi ha dalla sua la protezione concreta e dichiarata dell’Onnipotente. Potrebbe darsi che in quel tempo Abramo non avesse ancora motivo di fidarsi del potere e delle promesse di HaShem, ma dopo la devastazione della corte faraonica, sulla cui origine divina perfino il faraone non ebbe dubbi, avrebbe dovuto sentirsi ormai al sicuro come in una botte di ferro.
Invece Abramo e Sara ripetono la medesima sceneggiata esibita precedentemente in Egitto, e anche stavolta con sentiti rimbrotti da parte del re raggirato e andando via con ricchi guadagni.
Inoltre, in questa vicenda c’è un aspetto singolare: tempo prima era accaduto che HaShem rivelasse ad Abramo che l’anno dopo sua moglie avrebbe avuto un figlio. A sentire ciò Sara “rise dentro di sé e disse:
«Avvizzita come sono dovrei provare il piacere, mentre il mio signore è vecchio!»”
Non dico che un uomo, come quel re filisteo che volle sposare Sara, non possa sentirsi travolto dal fascino di una novantenne avvizzita, ma come poteva Abramo, negando di essere il marito di Sara, avere il terrore che in quella terra vi abitassero gerontofili che avrebbero potuto rapire la sua attempata consorte e uccidere lui?
Non ci sarebbe nulla di strano se i personaggi positivi agissero in maniera negativa in alcune occasioni. È quanto accade nella vicenda di Yaakov con la benedizione sottratta, nei casi di Shimon e Levi e dei fratelli di Yosef. Però a questa lista non possiamo aggiungere l’episodio di Avraham e Sarah perché qui non c’è alcun peccato da parte del patriarca. Dire “sono suo fratello maggiore” equivaleva all’epoca a dire “sono suo padre”. Non era un modo per far apparire sua moglie una donna single pronta a maritarsi, ma una strategia per tutelarla senza rischiare di essere ucciso. La promessa di protezione di Dio non rende Avraham una sorta di supereroe invulnerabile, e neppure è una licenza a mettersi volontariamente in situazioni pericolose abbandonando ogni prudenza. I rabbini dicono “è vietato confidare in un miracolo”: l’uomo deve prendere ogni precauzione nei limiti concessi dall’etica, pur avendo fede in Dio. Questo è ciò che fanno tutti gli eroi biblici nel Tanakh.
Il problema dell’età avanzata di Sarah viene affrontato nella tradizione ebraica affermando che la miracolosa fertilità della matriarca fece ringiovanire il suo aspetto. Nota però che la bellezza di Sarah non è menzionata nell’episodio nella terra dei Filistei. Nahum Sarna suppone perciò che qui la matriarca fosse considerata appetibile soltanto in quanto donna molto ricca, e non per il suo aspetto fisico.
Per quanto riguarda l’attribuzione della Genesi, da un lato il Talmud afferma che tutto il Pentateuco fu dettato a Moshè, ma dall’altro parla anche di “sefarim” (libri) attribuiti a personaggi biblici precedenti che potrebbero essere intesi come raccolte più antiche poi confluite nella Torah.
Resto convinto che diversi episodi di Genesi, se si considera la loro ingenuità quasi infantile, abbiano avuto origine dalla tradizione orale popolare. In particolare, nelle due vicende di Abramo e Sara, è messa in primo piano la potenza attenta e molto severa di Dio nel proteggere l’integrità sessuale di Sara, quale terreno incontaminato da cui sarebbe sorto in assoluta purezza il popolo eletto; ma d’altro canto – cosa che sfugge del tutto alla mente innocente di chi ha narrato tali storie – è sminuito oltre ogni misura lo spessore morale dei due personaggi. Tu scrivi: “I rabbini dicono ‘è vietato confidare in un miracolo’: l’uomo deve prendere ogni precauzione nei limiti concessi dall’etica, pur avendo fede in Dio.”
È giusto che il fedele non possa starsene inerte ad attendere il miracolo salvifico che piova dal cielo e deve quindi prodigarsi con i propri mezzi per uscire dai guai, ma è pure ovvio che ciò gli è lecito solo entro determinati limiti etici. In quanto a questi, osserviamo come entrambi i racconti presentano in maniera iperbolica la gravità del peccato d’adulterio, e che l’idea della sua efferatezza fosse a tal punto oggettiva e universale che ne erano consapevoli gli stessi monarchi pagani. Così, ad esempio, si esprime il re filisteo Abimelec nella sua replica a Dio che gli era apparso in sogno:
“Iddio venne ad Abimèlech in un sogno della notte, e gli disse: Tu devi morire, a cagione della donna che hai presa, essendo ella maritata. Abimèlech non si era avvicinato a lei; e disse: O Signore! uccideresti tu una NAZIONE, benché innocente? E Dio gli disse in sogno: […] se tu non la restituisci, sappi che devi morire TU E QUANTI T’APPARTENGONO.”
(Luzzatto)
Stessa consapevolezza mostra un altro re Abimelec, stavolta nei riguardi di Isacco e Rebecca che si erano lasciati scambiare anche loro per fratello e sorella:
“Ed Abimèlech disse: Che mai ci hai fatto? Poco mancò che alcuno del popolo giacesse con tua moglie, ed allora tu ci avresti tratto addosso una colpa.”
(Luzzatto)
Da questi brani si evince che la collera divina alla vista di un atto – seppure involontario – d’adulterio era immaginata talmente grande da annientare un’intera nazione! Figurarsi allora se l’atto fosse stato per così dire di… auto adulterio! È perdonabile che Abramo si fosse fatto passare per il fratello maggiore di Sara, fin qui non c’è peccato, ma poi lui andò molto oltre stipulando in piena regola il matrimonio di sua moglie con quei sovrani accettando il generoso prezzo della sposa. È a questo punto che sono superati, e di parecchio, i confini etici, tanto che non mi pare azzardato parlare perfino di lenocinio. Un dettaglio fondamentale, questo, evidentemente sfuggito al candore popolare da cui nacquero tali racconti – un candore che punta a esaltare il pugno forte e inesorabile di Dio a favore dei suoi protetti, a rimarcare la scaltrezza di Abramo, a favoleggiare le immense ricchezze che gli piovevano in qualunque circostanza dal cielo, e a decantare l’umiliazione dei re delle nazioni che afflissero il popolo eletto.
Nelle tue considerazioni tralasci del tutto il fatto che il pretendente di Sarah altri non era che il sovrano d’Egitto. Avraham non ha “venduto” né “consegnato” sua moglie al Faraone: un re – e in particolare un sovrano assoluto nonché semidio – non ha bisogno del permesso di nessuno per prendersi una donna, soprattutto se è la sorella di un semplice forestiero. Se Avraham avesse posto qualsiasi obiezione, sarebbe stato ucciso all’istante, e un simile sacrificio non avrebbe neppure giovato in alcun modo al destino di Sarah. Prima di sminuire lo spessore morale del patriarca è insomma necessario tenere conto del contesto storico in cui la vicenda è ambientata, un contesto lontano anni luce dalla realtà odierna.
Le storie dei patriarchi furono verosimilmente tramandate oralmente per secoli da cantastorie, per questo contengono temi e immagini che appassionano le masse popolari, ma nella forma in cui tali racconti appaiono nella Torah non possono essere definiti di certo ingenui o primitivi. Al contrario, essi sono inseriti in un impianto letterario molto complesso e ingegnoso, oltre al fatto che il loro scopo profondo è quello di fungere da prefigurazioni di due eventi futuri a loro volta paralleli (la schiavitù in Egitto e la cattura dell’Arca da parte dei Filistei).
Vorrei intervenire sulla questione dell’ingenuità e degli “abomini” presenti nella Torah, sperando di non andare fuori tema.
Prima di avvicinarmi all’ebraismo, anche a me gli episodi biblici mi suonavano assurdi. Li liquidavo con un sorrisetto saccente, bollandoli come materiale rivolto a menti scarsamente evolute, per legarle più facilmente al Santo Benedetto.
Abramo che vende la moglie, Can che fa quello che fa con il padre Noach, incesti come se piovesse, crudeltà, longevità fantascientifiche, esseri che potrebbero essere scambiati per alieni, etc…
Poi ho iniziato a studiarla, la Torah.
A sforzarmi, a memorizzare, a imparare le più semplici parole ebraiche, operazione essenziale per la comprensione, ad approfondire le molteplici interpretazione dei rabbini, dei sapienti, dei saggi.
Il risultato è stato che la mia mente, si è espansa, soprattutto dinanzi alle assurdità, che si sono rivelate verità.
Ho capito che dinanzi all’episodio di Abramo, per citare quello in oggetto, che vende la moglie al faraone, la Torah mi sta smuovendo, provocandomi un sussulto che schiude l’interiorità.
Interiorità che quando si schiude ha in sé il germe di un trauma, che rispecchia la complessità del Creato e di conseguenza del rapporto fra noi esseri umani e il Santo Benedetto.
Nell’”Albero capovolto” di Alberto M. Somekh, si parla del S.B. che ha seguito la Torah, per creare il mondo.
E si parla dello studio, che induce all’azione.
Azione, aggiungo io, che nasce dall’espansione del cervello, sistema a mio avviso infallibile per combattere il male che si annida in ogni uomo.
Al di là delle contestualizzazioni storiche, che sono ovviamente oggettive, a me pare che il S.B. comunica con noi anche con le “assurdità”.
Sta a noi capire il messaggio nascosto.
I testi sacri delle altre religioni, che io sappia, sono invece lineari, dogmatici, rassicuranti. Questi sì, ingenui, a mio avviso, poiché nella vita non c’è niente di semplice. Figuriamoci nel Creato.
Sono d’accordo con quanto scrivi. La Bibbia può essere letta su un piano superficiale, come una semplice antologia di racconti. Da questa prospettiva sembra effettivamente un testo per appassionare e ispirare le menti popolari e un po’ ingenue. Ma in realtà non c’è proprio nulla di ingenuo in questo testo dalle molte sfaccettature. E lo dico con rigore filologico obiettivo e non in base a fantasie ispirate da qualche misticismo soggettivo. La storia di Avraham in Egitto è un perfetto esempio: riesce a fungere sia da prefigurazione dell’Esodo che da rielaborazione sovversiva del racconto dell’Eden, e al contempo si inquadra all’interno dello schema chiastico che comprende i capitoli da Genesi 12 a 21. Il problema è che per poter comprendere tutto questo occorre tempo, impegno e conoscenze pregresse anche legate alla lingua ebraica. Non è facile.
Caro redattore, scrivi:
“Nelle tue considerazioni tralasci del tutto il fatto che il pretendente di Sarah altri non era che il sovrano d’Egitto. Avraham non ha “venduto” né “consegnato” sua moglie al Faraone: un re – e in particolare un sovrano assoluto nonché semidio – non ha bisogno del permesso di nessuno per prendersi una donna, soprattutto se è la sorella di un semplice forestiero. Se Avraham avesse posto qualsiasi obiezione, sarebbe stato ucciso all’istante, e un simile sacrificio non avrebbe neppure giovato in alcun modo al destino di Sarah.”
Certamente Abramo non osava contraddire la volontà del sovrano d’Egitto per non subire gravi conseguenze, ma si trovò a dover scegliere se assecondare una mostruosità morale qual era l’adulterio — misurato con i parametri eccessivi dell’epoca patriarcale, quasi fosse un crimine contro l’umanità — oppure essere ucciso.
Spesso la vita pone gli uomini di fronte a un bivio che li obbliga a scelte estreme: o essere eroi e martiri oppure complici di tiranni e criminali. In tale vicenda egli non solo optò per la seconda di queste possibilità ma non diede peso alle promesse e ai grandi propositi di HaShem riposti su di lui. Consideriamo che le aspettative divine di cui il patriarca era a conoscenza non si sarebbero potute attuare se fosse morto; sembrerebbe quindi che Abramo non confidasse molto sulla “memoria” di HaShem riguardo a ciò che gli aveva rivelato, per cui, non volendo correre rischi, assecondò in tutto il faraone. E successivamente, fatto imperdonabile data la recidività, non contrariò neanche il re Abimelec. In aggiunta, incrementò ogni volta le sue finanze con la vendita illecita di sua moglie in sposa.
In seguito, con la cosiddetta “legatura di Isacco” — il figlio dal quale sarebbe discesa, per volontà a lui rivelata di Dio, una nazione gloriosa e numerosa come le stelle del cielo — Abramo non mise in dubbio le divine promesse; vorrei però osservare che stavolta non era in gioco la sua vita ma quella di un’altra persona. In questa occasione, il patriarca non formulò obiezioni a quel comando che, quantomeno, sembrava mettere in luce della divinità un’indole volubile e contraddittoria.
La Bibbia definisce virtuoso quel suo gesto di alzare il coltello per scannare Isacco. Tuttavia, al giorno d’oggi, la deresponsabilizzazione che deriva dall’obbedienza cieca e acritica verso l’autorità, — come dimostrato nell’esperimento Milgram e soprattutto dall’esperienza storica maturata dopo gli orrori avvenuti nel XX secolo — più che una rara virtù di pochi è valutata piuttosto come una carenza caratteriale molto diffusa.
Se non erro il Talmud, a proposito di ciò che dicevo sulle scelte estreme alle quali a volte gli uomini sono costretti, attribuisce ad Abramo, nell’epoca in cui viveva ancora sotto il tetto paterno, un atto da martire: il patriarca, a quel tempo molto giovane, a causa della sua incrollabile fede nel dio unico, fu condannato dal re mesopotamico Nimrod a bruciare dentro una fornace ardente dalla quale fu tratto in salvo miracolosamente.
Questo racconto è chiaramente inventato, ma ritengo che nella sua essenza esso sia fondato su di un pensiero più evoluto rispetto alle antiche storie popolari.
Scrivi inoltre:
“La Bibbia può essere letta su un piano superficiale, come una semplice antologia di racconti. Da questa prospettiva sembra effettivamente un testo per appassionare e ispirare le menti popolari e un po’ ingenue. [… ] Ma in realtà non c’è proprio nulla di ingenuo in questo testo dalle molte sfaccettature. Il problema è che per poter comprendere tutto questo occorre tempo, impegno e conoscenze pregresse anche legate alla lingua ebraica. Non è facile.”
Mi spiace, penso che se io contestassi a un prete cattolico il mistero della transustanziazione — l’ostia che diventa il sangue e il corpo di Cristo — mi aspetterei in risposta delle parole come queste.
Diventare un martire è qualcosa che la Bibbia e la tradizione ebraica esaltano, ma solo se una simile scelta estrema avviene per una giusta causa. Scegliendo di sacrificarsi, Avraham non avrebbe ottenuto alcun beneficio per sua moglie Sarai, la quale sarebbe anzi rimasta nell’harem del Faraone oppure, più probabilmente, sarebbe stata venduta come prostituta (se non addirittura qualcosa di peggio) dopo la scoperta dell’inganno di cui lei era colpevole quanto suo marito. Insisti poi nel suggerire che Avraham abbia venduto sua moglie, magari godendo delle ricchezze così ottenute, quando questa lettura non rispecchia in alcun modo il testo. Il Faraone non deve contrattare con nessuno per prendersi una moglie, può prenderla e basta. Le ricchezze ottenute da Avraham erano “doni”, non un prezzo da egli richiesto in cambio della moglie. Insomma voler dipingere il patriarca come un perverso opportunista non è coerente con il racconto, si tratta solo di un’interpretazione faziosa, incompatibile sia con il testo che con il contesto storico.
I misteri della fede non hanno nulla a che fare con il nostro discorso. Il tuo interlocutore non è un prete ma uno studioso dei testi. Non ho mai parlato di misticismo, ma di analisi letteraria, per cui il tuo paragone non appare pertinente.