Il rapporto tra l’Ebraismo, la guerra e l’etica militare è oggi più che mai al centro dell’attenzione mediatica, con i molti dibattiti infuocati relativi ai conflitti in cui è attualmente coinvolto lo Stato d’Israele.
In ambito giornalistico, varie testate hanno spesso sottolineato il presunto legame tra il violento estremismo di alcuni leader politici israeliani e la Torah, affermando che tale estremismo tragga la sua linfa vitale proprio dai testi sacri fondamentali della religione ebraica.
Molto recentemente, in un articolo pubblicato su La Stampa, il teologo Vito Mancuso ha parlato del “lato oscuro dell’Ebraismo”, un’ideologia violenta e xenofoba che, secondo il suo parere, si ispirerebbe al libro biblico del Deuteronomio, con le sue dure prescrizioni sullo sterminio dei Cananei.
Nella mente di chi sostiene simili idee viene così a delinearsi un netto contrasto che vede da un lato le Scritture e la fede ebraica, con i loro dettami intransigenti, fanatici e brutali, e dall’altro il pensiero liberale moderno (laico o cristiano che sia), basato invece sul dialogo e la tolleranza.
Si tratta insomma di una versione rinnovata dell’intramontabile pregiudizio che da millenni contrappone il Dio severo vendicativo della Torah (o “Vecchio Testamento”) alla Divinità benevola e misericordiosa del Nuovo Testamento.
Per mostrare in maniera onesta l’inconsistenza di tale teoria è necessario ampliare la propria prospettiva e riconoscere che i brani aspri e cruenti sulla guerra esistono eccome nella Bibbia (ne abbiamo parlato in questo articolo), ma non rappresentano l’intero quadro.
In altre parole, i versi del Deuteronomio e di Giosuè sullo sterminio dei Cananei non sono tutto ciò che la Bibbia ha da dire sul tema della giustizia applicata al contesto bellico.
Cerchiamo allora di analizzare alcune fonti bibliche, troppo spesso ignorate, da cui emerge un punto di vista ben diverso su quello che è il messaggio morale dei profeti d’Israele su questo controverso tema.
Amos e i crimini di guerra
Nessuno più del profeta Amos si è espresso in maniera chiara in merito alla brutalità indiscriminata in guerra e alle stragi compiute ai danni di persone innocenti.
Nel primo capitolo del suo libro (ritenuto uno dei testi più antichi della Bibbia ebraica), Amos lancia un’invettiva contro le nazioni confinanti con Israele, imputando a ognuna di esse un peccato specifico e invocando perciò la punizione divina.
I primi a essere condannati sono gli Aramei, indicati con il nome di Damasco, capitale del loro regno. Amos critica questo popolo per aver “triturato Ghilàd con trebbie di ferro” (Amos 1:3).
Il riferimento qui non sembra essere alla mera devastazione dei campi di Ghilad (regione montuosa a est del Giordano), ma al periodo di aspra dominazione che quest’area subì da parte degli Aramei.
In quest’epoca, secondo le parole del profeta Elisha (2 Re 8:12), il re di Damasco fece uccidere giovani, bambini e donne incinte nella sua spietata campagna militare.
Amos condanna poi Gaza, città filistea, e la fenicia Tiro, colpevoli entrambe di aver “deportato intere popolazioni per consegnarle a Edom” (1:6)
Edom stesso è attaccato subito dopo dal profeta, “perché ha inseguito con la spada suo fratello e ha soffocato la pietà verso di lui” (1:9), probabile allusione a un brutale attacco ai danni degli Israeliti.
Segue poi lo sdegno contro gli Ammoniti, che hanno “sventrato donne incinte per allargare il loro confine” (1:13); e contro Moab, che ha oltraggiato gli Edomiti bruciando le ossa del loro re (2:1).
Nell’opera Israele e l’umanità, Elia Benamozegh evidenzia come da questo brano emerga il concetto di una legge morale universale che, secondo l’etica biblica, deve regolare anche i rapporti tra nazioni diverse, una sorta di “Convenzioni di Ginevra” di tremila anni fa.
La ferocia gratuita, gli atti di barbarie, la slealtà e l’uccisione o la deportazione di individui innocenti sono tutte azioni che Amos presenta come proibite ed esecrabili, anche quando sono compiute da popoli pagani, regni che non conoscono la Torah, ma che sono comunque tenuti a rispettare delle norme basilari di rispetto per la vita e la dignità.
Moab, Isaia e l’accoglienza degli stranieri
Nel Deuteronomio, parlando agli Israeliti, Moshè rivolge una severa critica ai regni di Moab e Ammon poiché essi “non vi vennero incontro con il pane e con l’acqua sulla via quando usciste dall’Egitto” (Deut. 23:4).
Evidentemente, per la Torah, l’accoglienza dello straniero e dell’afflitto è uno dei valori fondamentali che misurano il senso etico di una nazione. Gli Israeliti, in viaggio nel deserto, erano un popolo vulnerabile, nei confronti del quale i regni vicini avrebbero dovuto mostrare un minimo gesto di umanità fornendo almeno i beni più essenziali per la sopravvivenza.
In un’epoca molto successiva a questi eventi, il profeta Isaia (capitoli 15-16) predice una grande sventura che colpirà Moab a causa di un invasore che sta per devastare la regione (l’impero assiro). Quando ciò avverrà, dice il profeta, i Moabiti fuggiranno dal loro paese, e le loro donne saranno “come un uccello scacciato dal nido” (16:29).
In questo contesto, Israele potrebbe facilmente vendicarsi dell’antica offesa inflitta dai suoi odiati nemici, e mostrarsi perciò insensibile verso i fuggiaschi di Moab. Ebbene, al contrario, Isaia esorta gli Ebrei a seppellire i vecchi rancori e a proteggere gli sconfitti:
Da' un consiglio, prendi una decisione, rendi simile la tua ombra alla notte in pieno meriggio; nascondi i fuggiaschi, non tradire i profughi. Siano tuoi ospiti i profughi di Moab,
sii per loro un rifugio contro il devastatore. È finita l’oppressione, è cessata la devastazione, sono scomparsi coloro che calpestavano la terra (Isaia 16:3-4).
L’etica universale, già delineata da Amos, diviene in questo brano un dovere che prescinde dai rapporti ostili tra popolazioni storicamente rivali, e che può quindi favorire la riconciliazione tra Israele e i suoi avversari.
Lo stesso Isaia, inoltre, altrove esprime forte disapprovazione per il violento imperialismo di Babilonia, il cui re è definito “malvagio” e “tiranno”, ed è descritto come “colui che nel suo furore percuoteva i popoli con colpi incessanti, colui che dominava con ira sulle nazioni inseguendole senza sosta” (14:5-6).
Contro Edom
Il libro del profeta Ovadyàh (Abdia), composto da soli 21 versetti, è interamente dedicato alla condanna del regno di Edom, che si è macchiato di una grave colpa: aver cercato di trarre vantaggio dalla rovina di Gerusalemme per mano dei Babilonesi, catturando i superstiti per consegnarli agli invasori e saccheggiando la città.
Il profeta elenca così i misfatti compiuti dagli Edomiti:
Ma tu non avresti dovuto guardare con gioia il giorno [della rovina] di tuo fratello, il giorno della sua sventura, né avresti dovuto rallegrarti sui figli di Giuda nel giorno della loro distruzione e neppure parlare con arroganza nel giorno della sventura. Non avresti dovuto entrare per la porta del mio popolo, nel giorno della sua calamità, né guardare anche tu con piacere alla sua afflizione, nel giorno della sua calamità, e neppure stendere le mani sui suoi beni nel giorno della sua calamità. Non avresti dovuto metterti agli angoli delle strade per massacrare i suoi fuggiaschi, né avresti dovuto dare in mano al nemico i suoi superstiti nel giorno della sventura (Abdia 12-14).
Approfittare cinicamente della caduta di una città vicina, “stendere la mano” sui suoi beni e colpire un popolo in fuga è per il profeta un chiaro atto di tradimento e violenza contro gli innocenti. Edom diviene pertanto un esempio negativo della condotta da seguire nel contesto bellico, non solo qui ma anche in altri brani come Ezechiele 36:5 e Salmi 137:7.
Riabilitare il Deuteronomio
Gli esempi che abbiamo appena citato mostrano una concezione dell’etica di guerra compatibile con i valori del rispetto dei diritti umani e della fratellanza tra i popoli, a tratti anticipando persino il moderno diritto internazionale.
Da ciò si può dunque già comprendere quanto sia sminuente e fuorviante ridurre la Bibbia ebraica a un manifesto sanguinario del fanatismo religioso, promotore di massacri ed estraneo ai principi di pace e tolleranza.
Lo stesso Deuteronomio, aspramente criticato per il versi cruenti sulla guerra contro i Cananei, è un libro che contiene anche e soprattutto affermazioni e precetti che vanno in una direzione differente:
- La condanna di Amalek per aver attaccato Israele assalendo i deboli e gli indifesi nel deserto, esempio emblematico di una condotta vile e crudele (25:18);
- L’obbligo di offrire sempre la pace ai nemici prima di attaccare le loro città (20:10);
- Il divieto agli eserciti di darsi alla pura devastazione abbattendo alberi da frutto (20:19-20);
- La legge che tutela le donne straniere catturate in battaglia (21:10-14);
- Il precetto, per i combattenti, di astenersi da “tutto ciò che è male” (23:10) e di preservare il decoro nell’accampamento (23:11-14).
Molte di queste prescrizioni bibliche appaiono oggi pressoché scontate, ma non lo erano affatto all’epoca in cui furono scritte, né tanti secoli dopo.
Quelle che abbiamo appena elencato sono solo le leggi relative al contesto della guerra. Nel medesimo libro troviamo però anche altri precetti dal grande valore umano ed egualitario che riguardano altri ambiti: l’uguaglianza davanti alla legge (1:17), il rispetto per lo straniero (10:18-19), il divieto di sfruttamento dei lavoratori (24:14-15), il principio della responsabilità individuale (24:16), la tutela dei debitori (24:10-13) e molti altri.
Nella storia dell’umanità, il Deuteronomio rappresenta insomma un progresso morale, un passo importante verso la difesa dei diritti umani, parte di un processo positivo che era allora soltanto agli albori.
Una visione complessa
Quello che vi abbiamo proposto oggi è poco più di un invito, uno spunto da cui partire, non una trattazione esaustiva e dettagliata dell’argomento.
Crediamo tuttavia che quanto riportato sia sufficiente per comprendere che una vera riflessione sul rapporto tra l’Ebraismo e gli orrori della guerra non possa basarsi su una selezione parziale delle fonti, né sull’analisi di versetti estrapolati dal loro contesto.
Ogni lettura dei passi biblici controversi non può inoltre essere condotta senza tenere conto del linguaggio convenzionale che nel Vicino Oriente antico tendeva a enfatizzare la portata delle imprese militari con espressioni retoricamente feroci.
Il messaggio della Bibbia è complesso e non traducibile in slogan e semplificazioni giornalistiche. Solo studiando i testi della Torah e dei Profeti nella loro globalità è possibile distinguere la norma dall’eccezione, la realtà dalla metafora e i valori fondanti dalla loro applicazione concreta.
Uno studio così condotto ci protegge sia dall’estremismo di chi usa la fede per giustificare la violenza ingiustificabile, sia dai pregiudizi di chi insiste nel riproporre stereotipi religiosi inaccettabili.