Torah, guerra e dignità umana: l’esercito del riscatto

Dopo il nostro ultimo articolo incentrato sul rapporto tra la Bibbia ebraica e la guerra, torniamo oggi ad affrontare lo stesso argomento, ma da un’altra prospettiva.

Partiamo dal capitolo 20 del Deuteronomio, dove il testo biblico prescrive alcune norme che l’esercito israelita dovrà seguire quando si ritroverà a fronteggiare le truppe nemiche:

Quando uscirai in guerra contro i tuoi nemici e vedrai cavalli e carri e un popolo più numeroso di te, non li temere, perché con te è HaShem, tuo Dio, che ti ha fatto uscire dalla terra d'Egitto (Deut. 20:1).

Dopo questa prima rassicurazione del sostegno divino contro la minaccia delle forze avversarie, il testo continua riportando un discorso solenne che un sacerdote (Kohèn) dovrà pronunciare davanti alle truppe prima della battaglia:

Ascolta, Israele! Oggi voi vi apprestate ad andare in guerra contro i vostri nemici; il vostro cuore non venga meno, non abbiate paura, non vi smarrite e non vi spaventate davanti a loro, perché HaShem, il tuo Dio, è colui che cammina con te per combattere per te contro i tuoi nemici e per salvarti" (20:3-4).

Come nota Nachmanide, il discorso del sacerdote ha lo scopo di infondere coraggio alle truppe senza però esaltare la loro forza: a essere posto in risalto qui è solo il messaggio religioso basato sull’intervento di Dio che salva e libera Israele dai nemici.

Rav Elchanan Samet sottolinea a questo proposito il divario tra i valori della Torah e quelli dell’eroismo e del militarismo diffusi in altre culture:

“Il soldato israelita non si avvicina al campo di battaglia accompagnato da un’imponente orchestra militare, né da discorsi infuocati che decantano la gloria e il valore. A guidarlo sono invece le parole di fede del sacerdote: “Poiché è il Signore tuo Dio che cammina con te per combattere per te contro i tuoi nemici, per salvarti”.

È interessante notare che questo discorso, dopo quasi duemila anni in cui il popolo ebraico non ha potuto disporre di alcun esercito, è oggi nuovamente letto in alcune unità dell’IDF (insieme ad alcune preghiere) prima di entrare in battaglia, come si vede in questo recente video.

Subito dopo, la Torah riporta un altro discorso, pronunciato questa volta dagli Shotrìm (“ufficiali”), i quali dovranno rivolgere le seguenti parole ai soldati:

Poi gli ufficiali parleranno all'esercito, dicendo: “C’è qualcuno che ha costruito una casa nuova e non l’ha ancora inaugurata? Se ne vada e ritorni a casa sua, perché non  muoia in battaglia e un altro inauguri la casa. C’è qualcuno che ha piantato una vigna e non ne ha ancora goduto il frutto? Se ne vada e ritorni a casa sua, perché non muoia in battaglia e un altro ne godrà il frutto. C’è qualcuno che si è fidanzato con una donna e non l’ha ancora sposata? Se ne vada e ritorni a casa sua, perché non muoia in battaglia e un altro la prenderà”. Poi gli ufficiali parleranno ancora all'esercito, dicendo: “C’è qualcuno che ha paura e a cui viene meno il coraggio? Se ne vada e ritorni a casa sua, perché il coraggio dei suoi fratelli non abbia a venir meno come il suo” (20:5-9).

Il Deuteronomio prevede così alcune sorprendenti “esenzioni dal servizio militare”: chi ha troppa paura, chi ha appena costruito una casa o piantato una vigna, insieme a chi si appresta a sposare una donna, potrà lasciare l’accampamento e ritirarsi dalla battaglia.

Da ciò emergono almeno due difficoltà che richiedono una chiarificazione:

1. Come spiegare la generosità con cui la Torah dispensa queste categorie di persone dall’entrare in battaglia? Non si tratta forse di una concessione fin troppo utopica e svantaggiosa per l’esercito?

2. Per quale motivo il testo sottolinea che, nel caso in cui un uomo muoia in guerra, la sua casa, la sua vigna o la sua donna “la prenderà un altro“? Perché mai è necessario specificare più volte che un’altra persona beneficerà di ciò che il soldato deceduto ha lasciato?

Possibili soluzioni

Rashi, Maimonide e Sforno concordano nell’attribuire alle esenzioni previste dalla Torah un valore strategico e pragmatico.

Chi è distratto da importanti eventi personali, come una nuova casa o un imminente matrimonio, rischia infatti di non concentrarsi a dovere sulla battaglia, forse trasmettendo persino la sua ansia ai compagni.

Secondo questa interpretazione, per la Torah è preferibile puntare su pochi guerrieri, purché siano determinati e motivati, e allontanare quindi dal campo tutti coloro che hanno la mente rivolta altrove o che provano eccessivo timore.

Più idealistica è invece la lettura di Rav Samet, che vede in questo brano l’esaltazione dei valori della vita, rappresentati dalle azioni di inaugurare una casa, piantare una vigna e creare una famiglia, che non devono essere schiacciati dalla dura realtà del conflitto.

Anche qui si scorge dunque un forte insegnamento anti-militaristico, poiché al primo posto la Torah non pone il sacrificio, la patria o l’abnegazione, bensì la vita dell’individuo e il suo benessere.

L’intento sarebbe in questo caso anche quello di evitare una delle conseguenze più tragiche della guerra: la morte prematura di giovani che non hanno avuto la possibilità di realizzarsi pienamente all’interno della collettività.

La frase “la prenderà un altro” viene poi generalmente intesa come una formula enfatica che crea un profondo impatto emotivo: il pensiero che i frutti del proprio impegno saranno goduti da qualcun altro può generare un senso di disagio e rafforzare così il valore dell’esenzione.

Tutte queste spiegazioni appaiono valide e ragionevoli. Eppure, l’idea della guerra che da esse emerge sembra in verità un po’ troppo incentrata sull’individualismo, a discapito del valore della nazione e della vittoria in guerra.

Abbandonare l’accampamento per ritirarsi a godere dei propri beni affinché questi non cadano nelle mani di qualcun altro (fosse anche un connazionale!) è forse un’azione positiva secondo la Torah?

Davvero la Scrittura vuole qui rischiare di compromettere il sentimento di coesione nazionale pur di garantire la felicità al singolo israelita?

Risponderemo a tale quesito facendoci guidare dal testo: come spesso accade, la Bibbia chiarisce sé stessa attraverso richiami lessicali e tematici che collegano brani biblici differenti per svelare significati essenziali agli occhi del lettore avveduto.

Echi del passato

Analizzando questo capitolo del Deuteronomio, Rabbi David Fohrman (Aleph Beta) si focalizza su una serie di elementi chiave presenti del testo:

  • La tematica generale della guerra, che costituisce il contesto del brano.
  • La superiorità numerica dei nemici, evidenziata dalla frase “un popolo più numeroso di te” (20:1).
  • La paura dei nemici, ritenuti temibili (20:1; 3).
  • Il riferimento ai “carri” e ai “cavalli” (20:1).
  • Il richiamo all’uscita di Israele dall’Egitto: “…HaShem, tuo Dio, che ti ha fatto uscire dalla terra d’Egitto” (20:1).
  • Un ordine gerarchico composto da quattro livelli distinti:
    1. L’autorità somma (“HaShem, tuo Dio”);
    2. Il sacerdote che “si fa avanti” (20:2) per pronunciare il suo discorso;
    3. Gli “ufficiali” (Shotrìm);
    4. Gli Israeliti, ovvero i soldati.

Tali elementi, spiega Fohrman, erano già comparsi tutti insieme in un altro brano della Torah, ben prima delle leggi del Deuteronomio. Di quale brano si tratta?

Probabilmente l’avete già capito: parliamo del racconto dell’Esodo, e in particolare del principio del dramma della schiavitù del popolo ebraico in Egitto. È proprio qui infatti che ricorrono tutti i temi che in seguito saranno inclusi nel brano sulla guerra.

Nel primo capitolo dell’Esodo, il Faraone esprime il proprio timore nei confronti degli Ebrei, che egli definisce “un popolo più grande e numeroso di noi” (Esodo 1:9). Troviamo qui alcune espressioni già notate in Deut. 20:1: “un popolo (‘am) più numeroso di te (rav mimmekhà)”.

A spaventare il re d’Egitto è la prospettiva di una guerra: gli Israeliti potrebbero allearsi con una nazione ostile, combattere contro gli Egizi e poi lasciare il paese (Esodo 1:10). Eppure, il Faraone disponeva di una forza militare senza pari, con “carri” e cavalli” (14:23).

Possiamo inoltre notare che la gerarchia presentata in Deut. 20 è sorprendentemente lo specchio di quella instaurata in Egitto all’inizio della storia dell’Esodo:

  1. L’autorità somma, che qui non è Dio, ma il Faraone.
  2. I “sovrintendenti” (nogsìm) che opprimevano gli Ebrei con i lavori forzati (1:11). Questo livello gerarchico corrisponde a quello del sacerdote in Deut. 20, il quale è introdotto con il verbo veNigàsh (“si farà avanti”). L’affinità fonetica tra nogsim e nigash è evidente in ebraico.
  3. Gli “ufficiali” (shotrìm, lo stesso identico termine che troviamo in Deut. 20), qui intesi come Ebrei nominati sorveglianti del popolo (5:14).
  4. Gli Israeliti, resi schiavi dal Faraone.

Le corrispondenze appaiono dunque notevoli e suggestive, ma quale significato possiamo attribuire a tutto ciò? In fondo, i due brani sembrano pur sempre molto distanti per natura e scopo: quello dell’Esodo è una narrazione, il racconto dell’oppressione degli Israeliti, mentre quello del Deuteronomio è un testo giuridico, un insieme di norme relative alla guerra. Dove sarebbe il legame?

Il senso del parallelismo

Proprio la distanza tra i due diversi contesti di Esodo e Deuteronomio è ciò che conferisce al raffronto tra questi capitoli il suo significato profondo.

In Egitto, a causa dell’intolleranza e del timore per un popolo ritenuto straniero, il Faraone aveva oppresso gli Ebrei riducendoli crudelmente a masse anonime e abusate, prive di diritti. Sopra di loro aveva istituto “sovrintendenti” inflessibili per strappare loro la libertà, e “ufficiali” costretti a far rispettare la volontà tirannica del re.

Lo scopo della Torah è dunque di capovolgere tale sistema di ingiustizia per restituire a Israele la dignità perduta: questa volta, i sovrintendenti e gli ufficiali non sottomettono più il popolo, ma lo incoraggiano, lo consolano e gli riconoscono la libertà fino a livelli utopici. E l’autorità che regna dall’alto non è più un despota ostile, ma Colui che “cammina con te per combattere per te contro i tuoi nemici e per salvarti”.

La possibilità che un combattente israelita possa ritirarsi dalla battaglia al fine di realizzarsi come individuo non è quindi un affronto alla collettività o alla nazione, quanto piuttosto una potente riaffermazione della libertà che gli Egizi avevano negato agli Ebrei.

Sotto questa luce, la formula “la prenderà un altro” smette perciò di sorprenderci e assume il suo vero senso: costruire una casa senza poterla abitare, o piantare una vigna senza godere dei suoi frutti, sono azioni tipiche di uno schiavo, ossia di colui che lavora per conto di altri non ottenendo benefici dall’opera delle proprie mani.

Anche la vita familiare di uno schiavo è soggetta a limiti che la privano di autenticità: la moglie che egli ha sposato durante la sua schiavitù non appartiene in realtà a lui, ma al padrone, così come i suoi figli (Esodo 21:4).

Nel riconoscere a ciascun uomo il diritto a godere di una casa, di una vigna e del proprio matrimonio persino nel contesto aspro e sfavorevole della guerra, la Torah sta dichiarando perciò che gli Israeliti, sotto il servizio di Dio, non sono più schiavi. L’organizzazione dell’esercito, come è prevista dal Deuteronomio, si presenta insomma come l’espressione della dignità umana riacquisita dopo l’esperienza dell’Esodo.

Tale messaggio etico può essere colto nella sua pienezza solo grazie al confronto tra due brani biblici molto diversi, cogliendo i significati che le Scritture veicolano tramite un dialogo tra testi differenti e tra mondi che sembrano tanto distanti.

4 commenti

    1. Oggi alcune esigenze personali o di salute sono considerate motivi validi di esenzione dal servizio militare, anche se non con un’applicazione letterale del passo biblico.

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