Non abbiate paura, state fermi e guardate la salvezza che HaShem farà per voi oggi! (Esodo 14:13)
Tra i racconti della Bibbia ebraica, quelli che hanno maggiormente emozionato i lettori di ogni epoca sono senza dubbio le storie in cui ricorre il tema della salvezza di Dio in favore del popolo d’Israele.
In numerose occasioni, si legge infatti nelle Scritture che il Creatore “salva” o “soccorre” gli Israeliti dai loro nemici, facendo sì che essi sfuggano ai persecutori o che trionfino sul campo di battaglia.
In alcune di queste storie, la salvezza o la vittoria avviene grazie a un intervento diretto della Divinità, che compie prodigi e sorprende gli uomini con segni grandiosi per realizzare il suo scopo.
L’esempio più emblematico di questo tipo di narrazione è certamente quello dell’Esodo dall’Egitto, in cui Dio prende l’iniziativa di redimere gli Israeliti e guida in prima persona il processo di liberazione in ogni sua fase, lasciando ai personaggi umani (Moshè e Aharon in particolare) il ruolo di semplici intermediari.
In altri casi, però, la mano divina non si manifesta in maniera tanto evidente, ma opera “in incognito” garantendo la sopravvivenza di Israele senza miracoli o “effetti speciali”.
Il racconto più rappresentativo di questa seconda tipologia di salvezza è la storia di Purim, narrata nel Libro di Ester, dove il nome di Dio non è mai neppure menzionato. Il capovolgimento della sorte, che permette agli Ebrei di scampare a una minaccia esistenziale, avviene qui grazie all’operato umano e ad eventi apparentemente casuali.
Tra questi due esempi che possiamo definire “estremi” (l’Esodo e la vicenda di Ester), esiste anche una “via di mezzo“, ossia vari racconti dove la manifestazione divina e le azioni umane sono entrambe presenti e possono quindi completarsi a vicenda.
Fra questi troviamo la famosa battaglia contro Amalek (Esodo 17:8-16), in cui gli Israeliti combattono i nemici con le proprie forze, ma l’esito dello scontro è determinato dalla fede e dal sostegno divino, rappresentati dalle braccia di Moshè rivolte verso l’alto.
Rientrano in tale categoria intermedia anche le storie del Libro dei Giudici, dove Dio suscita eroi e condottieri per liberare Israele dai suoi oppressori, senza mai tuttavia compiere veri e propri miracoli indipendenti dall’operato umano.
Ci si potrebbe allora chiedere con quale criterio la Redenzione divina venga a volte concessa in maniera eclatante e prodigiosa, e altre volte attraverso eventi in apparenza più ordinari, e se esista una via ideale o preferibile fra questi diversi tipi di salvezza.
Su tutto ciò indagheremo ora, facendo riferimento alla tradizione rabbinica e ricercando una soluzione all’interno del testo biblico.
Chi è degno di assistere a un miracolo?
Secondo la visione prevalente nell’Ebraismo, il fatto che miracoli e rivelazioni sovrannaturali avvengano in una certa epoca dipende soprattutto dal livello morale e spirituale degli uomini.
In altre parole, per poter assistere a fenomeni strabilianti come l’intervento salvifico di Dio o la profezia, è necessario esserne degni, dunque osservare i comandamenti e conformarsi alla volontà divina.
Questa idea è espressa ad esempio in un brano del Talmud (Taanit 9a) che associa i doni provvidenziali elargiti agli Ebrei nel deserto ai meriti degli illustri leader del popolo:
“Rabbi Yose bar Yehuda ha detto: Il popolo d’Israele ha avuto tre capi eccellenti: Moshè, Aharon e Miriam. Tre grandi doni furono concessi al popolo d’Israele grazie a costoro: il pozzo [cioè l’acqua per sopravvivere nel deserto], le nubi [per essere protetti nel deserto] e la manna. Il pozzo è stato fornito grazie al merito di Miriam, le nubi della gloria grazie ad Aharon, e la manna grazie a Moshè”.
Il Talmud afferma poi che, in seguito alla morte di Miriam, Aharon e Moshè, il popolo ebraico fu privato di questi tre doni prodigiosi: in mancanza delle sue tre guide spirituali, gli Israeliti non erano più degni di ricevere dalla mano divina acqua, protezione e sostentamento.
Un altro brano talmudico che ripropone lo stesso concetto si trova in Yoma 39a. Qui si legge che alcuni fenomeni sovrannaturali che si verificavano all’interno del Secondo Tempio cessarono quando il popolo divenne irrimediabilmente corrotto, con l’approssimarsi della distruzione di Gerusalemme.
Tale logica incontra però una difficoltà: Yehoshùa (Giosuè), durante la battaglia di Gabaon, ebbe il privilegio di ottenere da Dio un miracolo di portata cosmica, quando il sole “si fermò” al suo comando (ne abbiamo parlato in questo articolo).
Se interpretato alla lettera, questo racconto ci spinge a chiederci come sia possibile che Yehoshua sia stato ritenuto degno di un miracolo che supera di gran lunga quelli compiuti da Moshè, il più grande dei profeti, nonché suo mentore.
I Maestri, in alcune fonti (Avodah Zarah 25a; Devarim Rabbah) sostengono perciò che il sole si fermò anche per Moshè in più occasioni, benché la Bibbia non lo riporti esplicitamente. In questo modo, il principio che lega i miracoli ai meriti degli uomini viene preservato, seppure attraverso una lettura non convenzionale del testo biblico.
Un’altra opinione: i quattro re
Nel Midrash troviamo un’affermazione dei Maestri che, in merito allo stesso tema, ci conduce su un’altra strada:
“Ci furono quattro re, ognuno dei quali chiese qualcosa che gli altri non chiesero. Erano David, Asa, Yehoshafat e Chizkiahu. David disse: «Inseguirò i miei nemici e li raggiungerò». Il Santo Benedetto lo esaudì. […] Asa si alzò e disse: «Non ho la forza di uccidere [i miei nemici]; tuttavia, li inseguirò, e tu [Dio] farai ciò che dovrai fare». Il Santo Benedetto gli disse: «Lo farò». Yehoshafat si alzò e disse: «Non ho la forza né di ucciderli, né di inseguirli; invece, canterò un canto, e tu farai ciò che dovrai fare». Il Santo Benedetto gli disse: «Lo farò». […] Chizkiahu si alzò e disse: «Non ho la forza né di ucciderli, né di inseguirli, né di cantare; invece, dormirò sul mio letto e tu farai ciò che dovrai fare. Il Santo Benedetto gli disse: «Lo farò». Ed è scritto: «E avvenne quella notte che l’angelo del Signore uscì e percosse i nemici nell’accampamento dell’Assiria»” (Eikhah Rabbah 4:15).
Ciascuno dei quattro re menzionati nel Midrash è il protagonista di almeno un episodio biblico di salvezza dai nemici. Le loro storie sembrano però procedere lungo un percorso di progressiva decadenza.
David, il re più illustre e celebrato, non raggiunge mai la vittoria per mezzo di miracoli rivelati o interventi ultraterreni: egli è il guerriero che combatte con le proprie forze, ma attribuisce comunque a Dio il successo ottenuto, pur senza l’aiuto di fuoco e zolfo, segni dal cielo e angeli distruttori.
Persino la sua impresa più nota e clamorosa, cioè lo scontro con il gigante Goliàt, avviene in modo straordinario ma non soprannaturale, sebbene la fede dell’eroe sia posta al centro della vicenda.
Rispetto a David, Asa e Yehoshafat mostrano meno coraggio, facendo affidamento sull’Altissimo per sconfiggere gli avversari. Yehoshafat, in particolare, si limita a lodare il Creatore senza nemmeno scendere in campo, come infatti è narrato in 2 Cronache 20:20-22.
Chizkiahu (Ezechia) è l’esempio diametralmente opposto a David: non solo non impugna le armi e non combatte, ma neppure loda Dio con un canto. La salvezza di Israele dagli Assiri avviene mentre lui dorme sul proprio letto.
Secondo questo insegnamento rabbinico, non sono l’elevazione spirituale o i meriti dei giusti a far accrescere la portata miracolosa della Redenzione, bensì la passività degli eroi umani.
Se il Creatore manifestò la sua potenza apertamente al tempo di Chizkiahu non significa che quest’ultimo fosse superiore a David, ma solo che egli non si riteneva in grado di lottare con le proprie mani.
Da tale prospettiva, i miracoli non sono un premio o un privilegio riservato a pochi eletti, quanto piuttosto un modo che la Divinità usa per colmare le mancanze e l’incapacità degli esseri umani.
La virtù di David, in questo contesto, non sta solo nell’essere capace di fronteggiare i nemici in prima persona, ma nel riuscire a farlo senza cedere alla tentazione di glorificare sé stesso, riconoscendo invece sempre a Dio il merito dei suoi trionfi, come egli stesso dichiara nei Salmi:
O Dio, un cantico nuovo canterò per te, con l'arpa a dieci corde suonerò per te, che dai la salvezza ai re, che liberi il tuo servo David dalla spada malvagia (Salmi 144:9-10).
Chizkiahu, che avrebbe dovuto riconoscere la salvezza divina molto più facilmente (non avendo svolto alcun ruolo attivo nella vittoria sugli Assiri), si dimostra al contrario incapace di “cantare un canto”, e per la sua superbia viene condannato dal profeta Isaia (2 Re 20:12-18).
Un percorso di maturazione
La seconda opinione rabbinica che abbiamo presentato, che non vede gli interventi diretti di Dio necessariamente come un ideale a cui aspirare, trova un’interessante attinenza all’interno della Bibbia.
Il Libro di Giosuè ci racconta del passaggio degli Israeliti dalla vita nomade nel deserto al difficile insediamento nella terra promessa.
In questa fase il popolo, guidato dal valoroso Yehoshua, è chiamato ad affrontare una serie di guerre contro i potenti e corrotti Cananei.
La prima battaglia è quella contro Gerico (Yerichò), che il testo descrive come un’imponente città fortificata. Per espugnarla, Israele non si serve di mezzi convenzionali: Dio, come è noto, fa crollare le mura di Gerico dopo una lunga cerimonia solenne eseguita dagli Israeliti.
In questa prima impresa militare oltre i guadi del Giordano, il Creatore è il protagonista assoluto, che mette a punto il piano e compie l’attacco. Il popolo, dal canto suo, funge qui solo da strumento del Suo giudizio contro Gerico.
La battaglia successiva vede Yehoshua impegnato contro la città di Ai (capitolo 8). Anche questa volta, l’Altissimo è lo stratega che rivela il piano d’attacco e garantisce il successo; tuttavia, la vittoria non avviene in modo miracoloso come a Gerico, e le truppe svolgono un ruolo molto più attivo.
Nel terzo atto della campagna militare, Israele affronta una coalizione di regni cananei per difendere i suoi alleati Gabaoniti (capitolo 10). In questo caso, come sappiamo, Dio interviene in modo evidente, ma lo fa solo su richiesta esplicita di Yehoshua, quando ormai i nemici sono già in fuga.
Il quarto e ultimo avversario di cui parla il Libro è il regno di Chatzor con le città sue alleate. Prima dello scontro, la voce divina rassicura Yehoshua (11:6), ma la battaglia avviene senza alcun fenomeno fuori dall’ordinario.
Gli Israeliti, godendo di una protezione ultraterrena che resta ora soltanto invisibile e celata, prevalgono in battaglia sulle schiere nemiche.
Proprio come nel Midrash, abbiamo dunque quattro tipologie di salvezza, ciascuna con un diverso equilibrio tra l’azione divina e quella umana.
Nel Libro di Giosuè, però, il processo segue la direzione opposta: il ruolo della Divinità e l’elemento miracoloso, centrali nell’episodio di Gerico, diventano sempre meno evidenti e determinanti, fino a che il popolo e il suo condottiero assumono il ruolo di protagonisti della scena.
Come spiega Rabbi Moshe Shulman, in tutto ciò non si dovrebbe vedere un processo di decadenza, come se Yehoshua e gli Israeliti diventassero gradualmente meno meritevoli di assistere a prodigi e rivelazioni.
Questa evoluzione rappresenta piuttosto un percorso di crescita, con il popolo che ottiene sempre maggiore autonomia e che sviluppa il proprio senso di responsabilità man mano che si consolida la sua esperienza.
L’ingresso nella terra promessa rappresenta in tale prospettiva una nuova fase nella vita della nazione, dove la dipendenza da Dio diviene meno palese, e le sfide quotidiane richiedono sempre più spesso di essere affrontate senza attendere segni dall’alto.
In un simile contesto più mondano e concreto, con meno angeli e sconvolgimenti della natura, l’Ebraismo richiede allora di imitare l’esempio di David, seguito in epoche successive da figure come i Maccabei e Shlomo Goren: celebrare le vittorie con spirito di gratitudine e vedere la mano divina anche quando è nascosta.