Le colpe dei padri ricadono sui figli. O forse no?

Nel Libro dell’Esodo, quando Dio rivela sul Monte Sinai i suoi Comandamenti, in merito al famoso divieto di adorare altre divinità, troviamo la seguente affermazione:

...Poiché io sono HaShem (Y-H-V-H), il tuo Dio, un Dio geloso, che chiede conto dell'iniquità dei padri sui figli fino alla terza e alla quarta [generazione] di quelli che mi odiano, ma compio bontà per mille [generazioni] di coloro che mi amano e che osservano i miei precetti (Esodo 20:5-6).

La formula secondo cui Dio “chiede conto dell’iniquità dei padri sui figli” (pokèd avòn avòt al banìm) compare, oltre che nei Dieci Comandamenti, anche in altri passi della Torah (Esodo 34:7; Numeri 14:18), sempre in un contesto in cui si descrivono le qualità di Dio nel suo rapporto con gli uomini.

Agli occhi di molti, una simile idea porta con sé uno sgradevole senso di ingiustizia e illogicità: perché mai i figli e i nipoti dovrebbero essere giudicati in base alle azioni dei loro antenati? La Torah sostiene dunque che le colpe dei padri ricadano sui figli?

Questa possibilità sembra inoltre contraddire un principio che la Torah stessa prescrive ai giudici del popolo d’Israele, quello della responsabilità individuale:

Non si metteranno a morte i padri per i figli, né si metteranno a morte i figli per i padri; ognuno sarà messo a morte per il proprio peccato (Deuteronomio 24:16).

Com’è possibile dunque che ciò che è considerato ingiusto per i tribunali umani è invece apertamente riconosciuto come un criterio con cui il Giudice universale infligge le sue punizioni?

Vedremo ora in che modo si è cercato nei millenni di risolvere questo dilemma e quale potrebbe essere la soluzione più vicina al senso originario di questa controversa formula biblica.

Cosa significa poked?

Prima di tutto, è bene partire dal significato dei termini usati nel testo ebraico.

Nella frase poked avon avot al banim, troviamo la radice verbale pakad (פְקַד), qui spesso tradotta con “punire”.

Questo verbo ha però un campo semantico più ampio, e assume il senso di “esaminare con attenzione”, “richiamare alla mente” o “intervenire”.

Con pakad si può indicare sia un’azione positiva che negativa: Dio può “intervenire” per qualcuno o “esaminarlo” per fargli del bene e adempiere promesse di redenzione, come nel caso della matriarca Sarah, che fu “esaminata” dal Creatore quando ricevette il dono di un figlio (Genesi 21:1-2); o nel caso di Ruth 1:6, dove si legge che Dio “interviene” per il popolo d’Israele ponendo fine a una carestia.

Lo stesso “esame” può anche condurre però a condanne e punizioni. In Isaia 10:12 si afferma ad esempio che il re d’Assiria sarà “esaminato” per la sua superbia (e dunque castigato), e in Geremia 50:18 lo stesso avviene al re di Babilonia.

Alcuni studiosi, per proporre una lettura più rassicurante, sostengono che la formula poked avon avot al banim andrebbe intesa nel senso che Dio “esamina attentamente” i figli in modo da verificare se essi sono colpevoli come i padri, oppure che Egli “ritarda” con pazienza la punizione che i padri meriterebbero, in modo da dare ai figli l’opportunità di ravvedersi.

Questa interpretazione non sembra però aderire molto bene al testo: è chiaro infatti che l’intento della Torah è di creare qui un contrasto tra l’aspetto severo di Dio, i cui castighi possono protrarsi fino alla quarta generazione, e la sua benevolenza, che dura invece “mille generazioni“, un tempo immensamente più lungo.

Sembra allora preferibile tradurre poked con “chiede conto” o “prende in considerazione”, un senso più ampio del semplice “punire”, ma comunque orientato verso un giudizio aspro o un intervento ostile nei confronti dei peccatori.

La risposta dell’Ebraismo

Fin dalle sue fonti più antiche, la tradizione rabbinica ha sempre inteso la formula in questione nel senso che Dio punisce i figli solo nel caso in cui essi si macchino degli stessi peccati dei padri.

Ciò è affermato nel Talmud (Berakhot 7a), nella Mekhilta e nel Targum Onkelos. Il più celebre dei commentatori medievali, Rashi, segue la stessa lettura e scrive, commentando Esodo 20:5: “Ciò è quando essi mantengono la condotta dei loro padri”.

Nachmanide aggiunge un altro elemento: se i discendenti sono malvagi, ma non quanto i loro antenati, possono comunque essere puniti per i peccati dei padri. In altre parole, per annullare il castigo, è necessario un completo ravvedimento, una presa di distanza attiva dagli errori del passato.

Nella Guida dei Perplessi, Maimonide attribuisce a questo concetto un senso più razionale e concreto: i figli devono spesso fare i conti con le conseguenze delle azioni dei padri. Quando una generazione agisce in modo iniquo, i discendenti ne subiranno dunque gli effetti naturali. La formula diviene così un principio storico e non metafisico.

Applicazioni concrete nella Bibbia

La lettura rabbinica tradizionale riflette il senso reale del testo biblico, oppure si tratta forse di un’interpretazione successiva volta a superare la concezione di una giustizia “primitiva” presente nella Torah?

Per trovare una risposta possiamo prendere in esame i casi in cui l’idea delle “colpe dei padri” è effettivamente espressa nella Bibbia, in particolare nelle storie dei re d’Israele, in rapporto al peccato specifico di idolatria, lo stesso a cui la formula si riferisce nei Dieci Comandamenti.

Il Libro dei Re narra che Dio voleva punire Shlomò (Salomone) dividendo il suo regno in due, poiché egli aveva favorito l’idolatria nel paese (1 Re 11:11). Tuttavia, al verso successivo, il Creatore aggiunge che ciò non avverrà durante la vita di Shlomò, ma al tempo del suo successore.

E così, infatti, avviene: dopo l’ascesa al trono di Rechavàm, figlio di Shlomò, il regno d’Israele subisce lo scisma preannunciato.

Se da un lato Rechavam paga quindi le conseguenze della colpa paterna, dall’altro la Bibbia ci riporta anche che egli stesso tollerava i culti idolatrici più aberranti e che non agiva in modo giusto (14:23-24; 2 Cronache 12:15).

Il re Yerovàm, protagonista dello scisma, si macchia poi di terribili peccati fondando una nuova religione pagana in Israele. Il suo regno viene così maledetto (1 Re 14:10).

Eppure, la calamità annunciata si adempie solo più tardi, al tempo del suo successore Nadàv, che cade vittima di una congiura (15:29-30). A proposito di costui, il testo precisa poco prima che “egli fece ciò che è male agli occhi di HaShem, seguendo la via di suo padre” (15:26).

Yehoram, anche lui colpevole di idolatria (2 Re 3:2-3), subisce con la sua morte l’adempimento di una maledizione che era stata gettata su suo padre Achav (9:25).

Su Zechariàh, un altro monarca infedele a Dio (15:9), si abbatte invece un anatema pronunciato quattro generazioni prima, contro il suo antenato Yehu (15:12).

L’ultimo re d’Israele, Hoshèa, è descritto come un peccatore, benché in misura minore rispetto ad altri re precedenti (2 Re 17:2). Durante il suo regno, Israele subisce la sconfitta definitiva e distruttiva da parte dell’Assiria. Ciò avvalora la teoria di Nachmanide, secondo cui una generazione che non rimedia attivamente agli errori dei padri può pagare il prezzo delle colpe più gravi commesse dagli antenati.

La Bibbia racconta però anche storie con un esito inverso, con sovrani che riescono a sfuggire a quello che sembrava un destino oscuro.

Chizkiàhu (Ezechia), figlio del malvagio Achaz, lotta contro l’idolatria promossa da suo padre, e non subisce perciò alcun castigo, anzi assiste a una grandiosa redenzione con la sconfitta dell’Assiria, un evento di portata messianica secondo i profeti (vedi il nostro commento a Isaia 9).

Yoshiàhu (Giosia), nipote di Menashè e figlio di Amòn, due re malvagi e fanatici dei culti stranieri, restaura il monoteismo e si impegna ad applicare tutta la Torah. Per questo, la profetessa Chuldah gli promette che Dio lo risparmierà dalla rovina che si abbatterà sulla nazione (22:20).

Purtroppo, i suoi due successori si sviano di nuovo, e conducono il popolo a peccare. In particolare, suo nipote Yehoiakhin, anche noto come Yekhoniah, è condannato severamente nel Libro di Geremia, che lo maledice affermando che nessuno dei suoi discendenti siederà mai sul trono di David (Geremia 22:30).

Il nipote di questo re maledetto, Zerubavèl, viene però descritto in maniera molto positiva: è lui a essere scelto dai profeti per ricostruire il Tempio (Aggeo 1:12; Zaccaria 4:9) e a essere indicato idealmente come il germoglio davidico da cui il regno ebraico potrà rinascere (Zaccaria 6:12). A quanto pare, la maledizione sul suo avo non è un ostacolo alla sua esaltazione.

Sembra pertanto che l’idea della “colpa dei padri”, alla luce di quanto la Bibbia stessa riporta, non agisca come un destino inesorabile o come una sorta di condanna genetica. Nelle vicende dei re d’Israele, a essere schiacciati dal peso degli errori dei padri è solo chi prosegue sulla via tracciata dalle generazioni corrotte.

La parola a Geremia

In una sua preghiera, il profeta Geremia si rivolge all’Altissimo usando parole che rievocano in modo evidente il linguaggio della Torah:

Tu compi bontà con mille [generazioni] e ripaghi l'iniquità dei padri in seno ai loro figli dopo di essi, Dio grande e forte, il cui nome è HaShem delle schiere.
Tu sei grande nei pensieri e potente nelle imprese, i tuoi occhi sono aperti su tutte le vie degli uomini, per dare a ciascuno secondo la sua condotta e il merito delle sue opere
(Geremia 32:18-19). 

Questi versi sono molto preziosi poiché ci offrono una parafrasi o un commento alla formula di Esodo 20:5-6, facendoci comprendere in che modo essa era intesa molto prima dell’epoca del Talmud e di Rashi.

Come nota Rabbi Moshe Shammah, qui Geremia cita il concetto della “colpa dei padri” (con le parole “ripaghi l’iniquità dei padri in seno ai loro figli – v. 18), ma lo accosta subito dopo a un’idea che potrebbe apparire il suo opposto: “per dare a ciascuno secondo la sua condotta e il merito delle sue opere” (v. 19).

Affinché i due versi abbiano senso, si deve dunque presupporre che, agli occhi di Geremia, non ci fosse alcuna contraddizione tra il “ripagare i figli dell’iniquità dei padri” e il “dare a ciascuno secondo la sua condotta”. Solo se i due principi sono compatibili o complementari risulta possibile menzionarli insieme nella medesima preghiera.

Ciò rafforza quanto già emerge dai racconti del Libro dei Re dove, come abbiamo visto, il concetto della responsabilità intergenerazionale non esclude e non annulla quello della responsabilità individuale.

Una svolta pedagogica

Dopo il trauma della distruzione di Gerusalemme e dell’esilio degli Ebrei a Babilonia, i superstiti del popolo caddero in un profondo sconforto. La consapevolezza delle colpe dei loro padri, che avevano condotto la nazione alla rovina, pesava sulle loro coscienze afflitte: “I nostri padri peccarono e non sono più, e noi portiamo la pena delle loro iniquità!” (Lamentazioni 5:7).

In uno scenario così cupo, il pensiero che Dio “chiede conto dell’iniquità dei padri sui figli” rischiava di gettare il popolo in un pessimismo deleterio: come si potrebbe rimediare a secoli di peccati e corruzione? Forse, credevano in tanti, risollevare le sorti di Gerusalemme sarebbe stato impossibile.

Nell’epoca dell’esilio, i profeti cominciarono perciò a utilizzare un linguaggio differente che non potesse più essere frainteso, non parlando più delle “colpe dei padri”, ma esprimendosi con chiarezza:

Voi dite: Com'è possibile che il figlio non porti l'iniquità del padre? [ciò avviene perché] il figlio ha agito secondo giustizia e diritto, ha osservato tutti i miei decreti e li ha messi in pratica, perciò egli vivrà.
La persona che ha peccato dovrà morire. Il figlio non porta l'iniquità del padre, né il padre l'iniquità del figlio. Sopra il giusto sarà la sua giustizia e sopra il malvagio la sua malvagità
(Ezechiele 18:19-20).

Questo sembra essere il motivo per cui il Libro delle Cronache, che ripercorre le vicende già narrate nel Libro dei Re, evita di menzionare maledizioni dinastiche o riferimenti all’influenza dei peccati degli antenati, concentrandosi piuttosto sulla condotta di ciascun sovrano e di ogni generazione.

Come suggerisce Rabbi Hayyim Angel nel suo libro Vision from the Prophet and Counsel from the Elders, questa non è una svolta teologica, ma una svolta pedagogica: gli autori biblici successivi vissuti dopo l’esilio non modificano sostanzialmente la visione della giustizia divina presentata nella Torah (che aveva sempre posto al centro la responsabilità individuale), ma la illustrano in maniera meno ambigua, allo scopo di infondere coraggio in un popolo che si cedeva incapace di risalire dall’abisso morale dei suoi padri.

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