È proibito maledire Dio o parlare di Lui con disprezzo. Il divieto si riferisce sia al Nome Divino per eccellenza (il Tetragramma), sia ad ogni altro nome che i non-ebrei associano al Creatore, in qualsiasi lingua.
“Birchat Hashem” si traduce letteralmente con “Benedizione del Nome”, ma il precetto allude in realtà alla proibizione della bestemmia. Maledire il Nome di Dio significa rinnegare l’intera Legge e disprezzare la fonte stessa della propria vita e dell’esistenza.
Da questo precetto si impara anche il potere della parola e del linguaggio umano; perciò non è permesso pronunciare falsi giuramenti o fare promesse in modo superficiale.
Dalla condanna della blasfemia deriva anche il rispetto per la Torah e per tutto ciò che è sacro, da non confondere con l’atteggiamento nocivo di fanatismo religioso ed eccessivo timore reverenziale ancora dominante in alcune società.
Origine biblica del precetto
La proibizione universale della bestemmia è uno dei temi centrali del Libro di Giobbe, ambientato in un contesto non ebraico.
«Può darsi che i miei figli abbiano peccato e abbiano bestemmiato Dio nel loro cuore» (Giobbe 1:5, vedi anche Giobbe 2:9-10).
Secondo un’opinione espressa nel Talmud, la proibizione si ricava da questo passo del Levitico:
«Chiunque maledice il suo Dio, porterà la pena del suo peccato» (Levitico 24:16).
L’espressione qui tradotta con “chiunque”, nel testo ebraico è “ish, ish” (letteralmente: “un uomo, un uomo”, cioè qualsiasi essere umano). Da ciò si comprende, secondo alcuni Maestri, che il testo si riferisca sia agli Ebrei che agli appartenenti ad altri popoli.
Bisogna inoltre notare che la profanazione del nome di Dio è uno dei peccati per i quali furono puniti i popoli di Canaan (vedi Levitico 18:21), per cui il carattere universale della proibizione è ben radicato nel testo biblico.