La proibizione del furto comprende l’appropriazione illecita dei beni altrui, il rapimento, lo stupro e ogni tipo di frode. È vietato negare il salario dovuto a un dipendente, agire in modo disonesto e falsificare pesi e misure.
Questo precetto condanna qualsiasi tipo di appropriazione illegale, sia di persone che di oggetti, e per estensione anche l’inganno.
Il rispetto della proprietà altrui assume un significato ancora più elevato se consideriamo che, secondo la concezione della Torah, tutto ciò che esiste nel mondo appartiene in realtà soltanto a Dio; dunque l’uomo non ha il diritto di ritenersi padrone dei beni di cui dispone, e meno che mai di quelli dei suoi simili.
Origine biblica del precetto
Secondo i Maestri, la prima formulazione del divieto del furto risale alla distinzione, posta da parte di Dio nel racconto della Creazione, tra ciò di cui l’uomo poteva usufruire e ciò che invece gli era proibito (vedi Genesi 1:29 e Genesi 2:16).
Il furto sembra essere il peccato dominante della generazione del Diluvio, che viene definita «piena di rapina (chamas)» (Genesi 6:11).
Nella narrazione dei rapporti degli antichi patriarchi con i loro contemporanei pagani, il furto viene condannato in più occasioni (vedi Genesi 30:33, 31:32 e 44:8).
Certamente il concetto di furto può comprendere anche tipi d’illeciti similari come la frode commerciale, la falsificazione di pesi, misure e monete, il negare il salario ai dipendenti, il rapimento di persone per ridurle in schiavitù, la rapina.
Lo stupro, però, cosa c’entra con il furto?
Se proprio si volesse ampliare il concetto di furto fino a includere ambiti molto più lontani, forse l’adulterio vi potrebbe rientrare, dato che nel decimo comandamento si vieta di desiderare la casa, la moglie, gli animali e altre cose appartenenti al patrimonio del prossimo; tuttavia, per quanto riguarda il divieto dell’adulterio, ci sono già specifiche prescrizioni nella Torah. Perfino l’assassinio potrebbe essere inteso come un furto, specialmente se si uccide qualcuno per carpirne i privilegi sociali, la sua eredità o per impossessarsi dei suoi beni; ma anche per questo caso nella Torah sono presenti diverse normative.
Già, ma lo stupro? E’ violenza contro la persona, e in questo senso sarebbe se mai più vicino al concetto di omicidio anziché di furto, poiché spesso la violenza di questo tipo “uccide” intimamente la persona nella mente e nella personalità, specialmente quando si tratta di bambini, dato che il loro sviluppo ne è compromesso.
Molti reati sessuali sono specificati e anche ripetuti nella Torah, ma sullo stupro non esiste una parola. Solo in un passo biblico (Deuteronomio 22:25-27) è trattato il caso dello stupro assolutamente particolare di una donna che sia: 1. vergine; 2. fidanzata; 3. aggredita in aperta campagna. Ma è fondamentale precisare che in tale passo il reato non è considerato come violenza carnale verso la donna, ma come adulterio nei confronti del fidanzato di lei; di conseguenza di fronte ai giudici compare anche la stessa donna, però non nella veste di vittima bensì come imputata di adulterio insieme all’uomo che l’ha violentata. Succede pertanto che il concetto di “stupro”, sebbene qui faccia finalmente la sua comparsa nella Torah, non vi appare come reato commesso contro la donna violentata bensì quale attenuante affinché essa non sia giustiziata per infedeltà nei confronti del suo promesso sposo. La normativa biblica è molto chiara: “25 Ma se l’uomo trova per i campi la fanciulla fidanzata e facendole violenza pecca con lei, allora dovrà morire soltanto l’uomo che ha peccato con lei; 26 ma non farai nulla alla fanciulla. Nella fanciulla non c’è colpa degna di morte: come quando un uomo assale il suo prossimo e l’uccide, così è in questo caso, 27 perché egli l’ha incontrata per i campi: la fanciulla fidanzata ha potuto gridare, ma non c’era nessuno per venirle in aiuto (CEI)
Probabilmente i Maestri devono aver notato che nella Torah esiste questo baratro legislativo, per cui avranno creduto opportuno inserire il reato di stupro, sebbene sia del tutto fuori luogo, almeno nell’ambito del furto. In questo modo il divieto di violentare le persone sarebbe in qualche maniera presente nella Torah, ma non reso comprensibile da una chiara norma, per di più corredata da una precisa sanzione penale. Tale divieto si troverebbe così nascosto tra le pieghe recondite di un illecito assai diverso, cioè il furto, la cui sanzione è senz’altro mite essendo limitata al risarcimento. In effetti, il risarcimento di cinquanta sicli d’argento è sancito in due passi della Torah, ma riguarda il caso della vergine deflorata, con la seduzione o con la forza, da chi non l’ha prima sposata evitando così il pagamento a suo padre del “prezzo della sposa”. Furto, quindi, ma di verginità. La medesima ragazza, però, ormai disonorata e di conseguenza priva di valore commerciale, non era in nessun modo protetta dalla legge come persona soggetta ad aggressioni carnali; così pure non lo erano tutte le donne non più vergini.
Eppure le leggi sul sesso presenti e ripetute in due capitoli di Levitico sono durissime poiché la sanzione per i rei non consiste mai in un semplice risarcimento bensì nella pena di morte. Appare quindi evidente un’incongruenza: la legislazione biblica è severissima verso atti che oggi, per le leggi e per il senso comune, non sono reati, mentre è del tutto assente verso altri atti che, per le leggi e per il senso comune, sono detestabili e perciò condannabili. Per esempio: la Torah condanna a chiare lettere con ben tre articoli il rapporto consenziente fra un uomo e una donna durante il ciclo mestruale di questa (Levitico 15:24; 18:19; 20:18), e decreta la pena capitale per entrambi; addirittura si occupa del caso molto improbabile (sicuramente rarissimo) della moglie che, fingendo di aiutare il marito che lotta con un altro uomo, tocca i genitali di quest’ultimo (Dt 25:11-12). Non prescrive, invece, una sola norma che vieti il rapporto sessuale violento di un uomo (spesso anche di più uomini insieme) su di una donna non consenziente, o peggio, su una bambina: situazioni realmente gravi, distruttive e frequentissime in ogni luogo e tempo.
Non si può fare a meno di considerare che la Torah, in tema di reati sessuali, si occupi del granello ma ignora la montagna.
Dimentichi che la Torah prevede una norma basilare: ayin tachat ayin, cioè, tradotto in termini rabbinici, a ogni danno compiuto contro il prossimo deve corrispondere un indennizzo proporzionato. Qualsiasi caso di violenza deve essere trattato secondo questo principio, quindi non esiste la possibilità che un atto di aggressione sia condonato.
Inoltre, per comprendere la Torah bisogna leggerla alla luce dei codici giuridici precedenti (codice di Hammurabi, leggi medio-assire), non certo alla luce dei codici attuali. Solo così è possibile capire pienamente perché la Torah analizza determinati casi e non altri. Ogni cosa nel suo contesto.
Affermi che non esiste la possibilità che qualsiasi atto d’aggressione sia condonato nel sistema giuridico della Torah; purché, occorre però aggiungere, si tratti di atti che la mente dell’antico legislatore biblico riuscisse a intendere come violenti. Di sicuro non ravvisava la violenza nello stupro. Si pensi che in Italia lo stupro è stato reato contro la morale pubblica fino al 1996: soltanto da 23 anni si è capito che un tale atto va inteso come reato contro la persona!
Per millenni l’uomo ha impostato le leggi secondo la sua visione misogina e antropocentrica; in quest’ottica non è mai riuscito a immaginare lo stupro come violenza verso la donna ma come un “piacere” coatto da lei condiviso.
In tal senso, la legislazione della Torah riguardante i reati sessuali costituisce un documento storico che attesta appunto questa triste mentalità che solo le lotte femministe del ventesimo secolo hanno mutato incidendo sulle leggi.
Per fortuna non abbiamo la legge italiana come guida per l’applicazione concreta della legge biblica, ma la Halakhah fissata dai Saggi d’Israele, che proibisce persino lo stupro della propria moglie (cosa per nulla scontata nell’antichità) e impone allo stupratore precise sanzioni relative al danno fisico, al costo delle cure e all’infamia.
Trovo più probabile che la Halakhah fissata dai Saggi d’Israele sia una guida per l’applicazione di leggi laiche sorte nel mondo occidentale; non vedo come possa essere una guida per le seguenti leggi sancite in Deuteronomio:
“Quando un uomo verrà colto in fallo con una donna maritata, tutti e due dovranno morire: l’uomo che ha peccato con la donna e la donna.” (Deuteronomio 22:22, CEI)
Qui non è neppure specificato se la donna era consenziente o presa con la forza (quella muscolare o quella dell’autorità, come nel caso di Davide con Betsabea). Per la legge biblica non fa differenza, poiché la donna ha un solo proprietario; e non conta in quale luogo è stata trovata a giacere con l’altro uomo, se in città o in campagna. Per la legge biblica, le sarebbe bastato gridare e il congiungimento carnale non sarebbe avvenuto.
Pertanto, essa dovrà morire con il suo stupratore.
Segue il caso della vergine fidanzata; questa ha due proprietari, con opposti interessi riguardo al prezzo della sposa: chi dei due dovrà rimetterci?
Salomonicamente, il legislatore biblico contempla due casi: se la ragazza è posseduta in un centro abitato, si presume che fosse consenziente, perché se non lo fosse stata avrebbe gridato. Pertanto a vincere la causa è il fidanzato, la ragazza sarà lapidata insieme all’uomo con cui giaceva, e suo padre perderà il valore monetario che lei rappresentava per lui.
Da ciò si deduce che nell’attuale mondo super urbanizzato le migliaia di denunce di violenza carnale che ci sono ogni anno sono tutte false; infatti, basta che la vittima si metta a gridare e lo stupro non avviene.
Se però il fattaccio succede in aperta campagna, a vincere la causa è il padre della vergine: egli potrà tenersi il prezzo della sposa già versatogli, e la ragazza sarà assolta dall’accusa di adulterio perché si presume che abbia gridato durante lo stupro ma che nessuno l’abbia sentita. (Deuteronomio 22:23-27).
Segue il terzo caso della vergine che ha un solo proprietario, che è suo padre; essa è ancora merce in attesa di essere venduta. Se la ragazza è posseduta, non importa se con la seduzione o con la forza, sta di fatto che avrà perduto il suo valore monetario rappresentato dal suo imene integro. L’uomo che l’ha presa, pertanto, dovrà semplicemente risarcire il proprietario della ragazza, cioè suo padre, con la somma di cinquanta sicli. In più, se il padre vuole, costui dovrà sposarla senza la possibilità di ripudio, e non importa che il violentatore o seduttore sia già sposato poiché il regime poligamico gli consente di sposare quante donne vuole.
Che cosa potrebbe chiedere di più una ragazza stuprata?
Premesso che la Halakhah a cui mi riferivo risale all’epoca del Secondo Tempio e non deriva perciò da “leggi laiche del mondo occidentale”, le leggi del Deuteronomio risultano alquanto travisate dalla tua analisi.
Bisogna prima di tutto tenere conto del fatto che l’idea di un codice di leggi esaustivo da applicare rigidamente in tutti i suoi dettagli è piuttosto moderna. Nel Vicino Oriente antico i codici di leggi fungevano da linee guida e da capisaldi ideali: spettava sempre ai giudici valutare caso per caso sulla base dei principi stabiliti dalla legge. Inoltre, è bene ricordare che la mentalità semitica non si esprime attraverso concetti astratti, ma attraverso immagini molto concrete ed emblematiche.
L’atto di “gridare” della fanciulla stuprata è ciò che più si avvicina al nostro concetto moderno di “negato consenso al rapporto sessuale”. Se la fanciulla è in città e “non ha gridato”, allora ciò dimostra che era consenziente all’atto ed ella condivide perciò la colpa di adulterio con l’uomo. Se invece era “nel campo”, la legge dà credito a prescindere alla sua pretesa di essere stata stuprata, in quanto la mancanza di opposizione all’uomo non dimostra il suo consenso (chiedere aiuto non le sarebbe servito a nulla, essendo lontana da altri uomini).
È un po’ come la questione dello scassinatore che viene ucciso mentre si introduce in una casa: se ciò avviene di notte, la Torah non considera colpevole di omicidio chi l’ha colpito; se invece avviene di giorno, l’assassino è condannato. Anche qui il testo utilizza immagini concrete e situazioni tipiche da non prendere rigidamente alla lettera: il senso è che se l’intento del ladro (rubare) è chiaro, chi lo uccide non è giustificato; all’opposto, se le circostanze poco chiare (la notte) fanno temere al proprietario della casa per la propria vita, egli non subisce una condanna per omicidio.
Se la Halakhah cui ti riferisci menzionasse le automobili, avrei qualche dubbio che essa risalga all’epoca del secondo tempio. I dubbi su questa sua presunta epoca d’origine mi restano comunque dato che parla addirittura dei diritti della moglie stuprata dal marito: ciò è anacronistico rapportato alla norma della Torah che condanna a morte la donna maritata insieme all’uomo che l’ha violentata non sapendo distinguere fra stupro e seduzione amorosa.
La moglie ha nel marito il solo proprietario, è solo merce già acquistata ed è comunque contaminata; secondo l’antico modo di pensare è meglio eliminarla. Anche la vergine non fidanzata ha un solo proprietario, che è suo padre, ed è merce in attesa di essere venduta. Pure in questo caso la legge mosaica non sottilizza se la sua verginità è perduta a causa di un amante o di uno stupratore; conta solo che il suo imene ormai non più integro sia risarcito.
Soltanto nel caso della vergine promessa in sposa vi è un vago accenno all’idea di stupro, e non perché la ragazza abbia giustizia, ma perché sia assolta e non muoia insieme al suo stupratore come succede alla donna maritata. Tale attenzione, solo in questo caso, è perché la vergine fidanzata ha non uno ma due proprietari che si disputano il prezzo nuziale.
La tua risposta spiega il significato dei versi biblici ma penso che ciò non sia necessario poiché essi sono espressi con molta chiarezza: trovo ovvio che, nel caso della vergine fidanzata, il gridare aiuto di questa durante il congiungimento carnale equivalga al nostro “negato consenso al rapporto sessuale”. Ma ciò che io contesto è che il non aver gridato non implica sempre, tuttavia, l’assenso al rapporto sessuale. Infatti, e lo ripeto, le migliaia di stupri denunciati che avvengono nei centri abitati oggigiorno in questo mondo ormai del tutto urbanizzato, fanno comprendere che le vittime NON HANNO POTUTO gridare; per un violentatore è facile impedire le grida d’aiuto della sua preda se la minaccia con un’arma, o la stordisce, o la prende in luoghi dove la gente intorno non si sogna d’intervenire. Quest’ultimo caso è trattato in un film con Jodie Foster, dal titolo “Sotto accusa”: una ragazza è violentata nella saletta interna di un bar affollatissimo da tre individui, mentre altri cinque non partecipano alla violenza ma si godono lo spettacolo. Durante il processo l’avvocato che difende gli stupratori chiede alla vittima se ha gridato, ma lei risponde di no… Non poteva, non riusciva, era paralizzata dallo shock, e anche se fosse stata in grado di urlare nessuno degli astanti sarebbe intervenuto.
Si comprende che la logica biblica che fonda l’assenso dato o negato sulle grida della donna è elementare, e comunque lo stupratore compariva davanti al tribunale per aver toccato la donna d’altri, non per violenza carnale. Il concetto di stupro era talmente assente nella concezione dei legislatori biblici che a malapena è stato da loro evocato nella situazione particolarissima dell’aggressione in campagna di una vergine fidanzata, ma ciò allo scopo paradossale di assolverla, essendo anche lei, la vittima, sotto accusa con l’imputazione di adulterio nei confronti del suo fidanzato e consentire a suo padre di tenersi il “prezzo della sposa” già intascato.
Il modo in cui il legislatore espone il concetto di stupro in Deuteronomio 22:25 dà perfino l’impressione che lo stia spiegando a bambini ritardati, a tal punto tale nozione era vaga e difficile da comprendere nell’antichità:
“Nella fanciulla non c’è colpa degna di morte: come quando un uomo assale il suo prossimo e l’uccide, così è in questo caso.” (CEI).
Ciò farebbe intendere che la stessa parola “stupro” sia inesistente nell’antica lingua ebraica, così come pure lo è il reato; solo il Talmud ha ovviato a tale vuoto ma inserendolo in uno dei molti significati che potrebbe assumere il concetto di furto.
Ma che cosa c’entri il furto con la violenza carnale, questo resta un mistero.
La proibizione di stuprare le propria moglie è ripetuta più volte nel Talmud (Trattato Eruvin 100b), in alcuni casi riportata come una baraita (una tradizione orale dell’epoca del Secondo Tempio), e in altri come una legge trasmessa in nome di autorità rabbiniche del III e del IV secolo. In ogni caso molto prima dell’epoca illuminista, ovviamente.
La tua analisi critica parte da un assunto che ritengo fortemente erroneo, ossia l’idea che la donna sia, secondo la Torah, una merce inanimata (o quasi), che ha valore solo in rapporto al suo proprietario (l’uomo). Questa idea non tiene conto del fatto che la Torah ci presenta fin dall’inizio il maschio e la femmina della specie umana come “immagine di Elohim”, e che la sottomissione della donna all’uomo nella società è indicata negativamente come una delle maledizioni che seguono al peccato dell’Eden. Inoltre va ricordato che la Torah si schiera fortemente a difesa della donna senza proprietario per eccellenza: la vedova, menzionata insieme all’orfano e allo straniero come esempio tipico di vittima di oppressione la cui voce è ascoltata da Dio. Non dimentichiamo poi che la Torah vieta di fatto lo stupro della donna non ebrea prigioniera in guerra, e che prevede la pena di morte [anche] per chi uccide una schiava (cosa impossibile se la donna, in questo caso neppure libera, fosse pura merce inanimata).
Non è vero inoltre che la Torah non faccia distinzione se “la verginità è perduta a causa di un amante o di uno stupratore”. In Esodo troviamo infatti la legge relativa al semplice seduttore, mentre solo in Deuteronomio si parla di stupro. Nel secondo caso, l’uomo è obbligato a sposare la fanciulla senza possibilità di divorziare per tutta la sua vita, cosa che oggi ci appare inconcepibile, ma che a quel tempo rappresentava una forma di tutela notevole. Questo naturalmente a prescindere dai possibili danni fisici arrecati, che l’aggressore deve sempre risarcire in qualsiasi circostanza (cfr. Ketubot 40b).
Ribadisco poi che il “gridare” è immagine emblematica che indica il consenso, e che la legge non era applicata in maniera letterale e “alla cieca”, ma valutando caso per caso in base ai principi ideali stabiliti dal codice. Quindi non ha senso attribuire ai giudici israeliti una sorta di “miopia biunivoca”.
Scrivi: “Il modo in cui il legislatore espone il concetto di stupro in Deuteronomio 22:25 dà perfino l’impressione che lo stia spiegando a bambini ritardati”. No, non a bambini ritardati, ma a un popolo che viveva in un’epoca in cui le leggi stabilivano che la moglie di uno stupratore dovesse essere stuprata a sua volta come pena per l’atto compiuto dal marito; che lo stupratore potesse essere perdonato dal re; che il marito di una donna condannata all’annegamento per stupro insieme al suo violentatore potesse decidere di tuffarsi nel fiume e salvarla. La Torah si cala in questo contesto e modifica l’assetto preesistente prescrivendo quelle che per noi sono misure arcaiche e persino aberranti, ma che all’epoca rappresentavano concretamente la miglior forma di tutela per la donna stuprata e per la sua famiglia.
Solo una nota sul trattamento delle vedove, delle prigioniere di guerra e delle schiave secondo le norme della Torah. Scrivi:
“Inoltre va ricordato che la Torah si schiera fortemente a difesa della donna senza proprietario per eccellenza: la vedova, menzionata insieme all’orfano e allo straniero come esempio tipico di vittima di oppressione la cui voce è ascoltata da Dio. Non dimentichiamo poi che la Torah vieta di fatto lo stupro della donna non ebrea prigioniera in guerra, e che prevede la pena di morte [anche] per chi uccide una schiava (cosa impossibile se la donna, in questo caso neppure libera, fosse pura merce inanimata).”
Tengo a precisare che le vedove non ereditavano e, come le ripudiate, finivano in mezzo alla strada. Se erano ancora giovani trovavano sicuramente marito data l’abbondanza di uomini celibi causata dal sistema poligamico (legge dei numeri: se un uomo ha quattro mogli, come Giacobbe, tre uomini resteranno senza una donna); ma per quelle invecchiate non c’erano mariti né la previdenza sociale. Così era pure per gli orfani di padre e per gli stranieri in stato di bisogno per qualche ragione avversa. Tutta questa gente senza mezzi di sostentamento costituiva un pericolo per i possidenti; era quindi conveniente consentire loro almeno di spigolare nei campi. Se la spigolatura è da intendersi non come misura pragmatica per garantire l’ordine sociale ma come atto amorevole di Dio verso i nullatenenti, allora, in questo senso, gli imperatori romani erano molto più misericordiosi di Dio. Infatti, per nutrire un milione di romani nullatenenti e nullafacenti non sarebbe potuta bastare la spigolatura nei campi intorno a Roma, per cui importavano grano dall’Egitto che distribuivano gratuitamente al popolo, e in più fornivano il divertimento dei giochi mortali e costosi nel Circo.
Riguardo alle prigioniere di guerra di cui parla il sacro testo, esse erano solo vergini e, come tali, destinate al matrimonio. Unicamente per questa ragione non erano violentate. Le non vergini, invece, erano già state stuprate prima di essere ammazzate durante lo sterminio della popolazione nemica; è proprio la Torah che fornisce un quadro di ciò che avveniva in Medio Oriente in seguito alla conquista di una città:
“I loro piccoli saranno sfracellati davanti ai loro occhi;
saranno saccheggiate le loro case,
disonorate le loro mogli.” (Isaia 13:16 CEI).
“In quel tempo Menachem, venendo da Tirza, espugnò Tifsach, uccise tutti i suoi abitanti e devastò tutto il suo territorio, perché non gli avevano aperto le porte e fece sventrare tutte le donne incinte.” (2Re 15:16, CEI)
“Brucerai le loro fortezze, ucciderai di spada i loro giovani, sfracellerai i loro bambini, sventrerai le loro donne incinte”. (2Re, 8:12, CEI)
“Samaria sarà ritenuta colpevole, poiché è realmente ribelle contro il suo Dio. Cadranno di spada. I loro propri fanciulli saranno sfracellati, e le loro stesse donne incinte saranno sventrate.” (Osea 13:16, TNM)
La Torah narra di infinite stragi di popolazioni nemiche, quindi di milioni di esseri umani, uomini, donne, bambini, scannati dagli israeliti; essa non pone divieti a tali efferatezze, al contrario condanna il soldato che si mostra incerto:
“Maledetto chi compie fiaccamente l’opera del Signore,
maledetto chi trattiene la spada dal sangue!” (Geremia 48:10, CEI)
Gli unici divieti che la Torah pone agli assedianti israeliti sono di non toccare la fetta di bottino destinato a Dio e di non abbattere gli alberi da frutto:
“Nessuno rubi la parte del bottino destinato a Dio: Nulla di ciò che sarà così votato allo sterminio si attaccherà alle tue mani, affinché il Signore rinunci alla sua ira ardente” (Dt 13:17, NR)
“Quando cingerai d’assedio una città per lungo tempo, per espugnarla e conquistarla, non ne distruggerai gli alberi colpendoli con la scure; ne mangerai il frutto, ma non li taglierai, perché l’albero della campagna è forse un uomo, per essere coinvolto nell’assedio?” (Dt 20:19, CEI)
Tornando alla prigioniera di guerra, la norma biblica tratta chiaramente di una vergine catturata in un assedio, orfana del padre e della madre uccisi nel corso della strage, e destinata a essere moglie di un soldato:
“Essa… dimorerà in casa tua e piangerà suo padre e sua madre per un mese intero; dopo, potrai accostarti a lei e comportarti da marito verso di lei e sarà tua moglie.” (Dt 21:13, CEI)
Poiché si dava molto valore alla verginità della sposa, e di vergini disponibili in Israele ce n’erano pochissime perché finivano in massa nei ginecei dei ricchi, i soldati potevano perlomeno trovare una moglie vergine in quest’altra maniera. Moglie, dunque, sarebbe dovuta essere la prigioniera e non schiava, ossia la futura madre di piccoli israeliti che avrebbe dovuto allevare ed educare. Ma come poteva? La vergine straniera avrebbe potuto anche avere soltanto dieci o dodici anni, di sicuro in età adolescenziale, il che vuol dire che la sua defunta mamma era magari incinta quando fu uccisa e, secondo la prassi, era stata stuprata, sventrata e il suo feto sfracellato, tutto ciò sotto gli occhi della prigioniera… poi futura madre dei figli di uno di quegli uomini.
Personalmente, riguardo alle norme della Torah, mi soffermo sui loro aspetti pratici. Una domanda ovvia che il legislatore doveva porsi era: come avrebbe reagito una prigioniera colma d’odio se si fosse continuato a trattarla da nemica? Sarebbe stata una madre amorevole dei figli del suo nemico? Considerato il disprezzo per i figli bastardi sancito nella legge mosaica, tale che tutti i loro discendenti erano ritenuti impuri in perpetuo (Deuteronomio 23:2), si poteva temere che una prigioniera avrebbe potuto perfino farsi ingravidare alla prima occasione da qualche servo per regalare in segreto al suo nemico un figlio bastardo. In sostanza, conveniva offrire alla donna un minimo di garanzie affinché s’integrasse per divenire essa stessa “israelita” dimenticando il suo passato e fosse una buona madre.
In quanto alla pena di morte che affermi fosse inflitta a chi uccideva una schiava straniera, solo in Esodo 21, le cui normative riguardano però unicamente gli schiavi ebrei volontari (che avevano qualche diritto altrimenti non si sarebbero mai venduti come schiavi) e non quelli stranieri (che non avevano nessun diritto come in qualunque parte del mondo antico e come sancito in Levitico 25), è evocata solo parzialmente la legge del taglione; dico parzialmente perché, se lo schiavo colpito non moriva sul momento ma sopravviveva un giorno o due, il padrone la passava liscia:
“Quando un uomo colpisce con il bastone il suo schiavo o la sua schiava e gli muore sotto le sue mani, si deve fare vendetta. Ma se sopravvive un giorno o due, non sarà vendicato, perché è acquisto del suo denaro.” (Esodo 21:20-21, CEI)
Per le vedove, gli orfani e gli stranieri esistevano altre misure di sostegno economico oltre alla “spigolatura”. A loro spettavano gratuitamente le decime del raccolto e le offerte di comunione presentate obbligatoriamente durante le feste di pellegrinaggio. Inoltre era vietato prendere in pegno la veste della vedova, e in generale era proibito “ledere il suo diritto”.
Che le prigioniere di guerra tutelate dalla Torah fossero solo vergini è una tua deduzione assente dal testo, che parla invece genericamente di “eshet” (donna), non di almah (giovane), betulah (vergine) o naarah (fanciulla). Infatti l’Halakhah prescrive esplicitamente che il precetto vale anche per le donne non vergini.
Ti invito inoltre a non citare versetti fuori dal contesto, come nel caso di 2 Re 8, che dal modo in cui l’hai citato sembra un comandamento, mentre in realtà non lo è affatto.
Ho menzionato la legge che prevede la pena di morte per chi uccide una schiava per dimostrare come non corrisponda per nulla al vero il tuo assunto secondo cui la donna sia soltanto merce nelle mani dell’uomo. Mentre per Hammurabi e gli altri antichi codici mediorientali il padrone poteva uccidere liberamente il proprio schiavo, la Torah ha riconosciuto per la prima volta la dimensione umana e sacra della vita dello schiavo, maschio e femmina.
In effetti la mia citazione di 2 Re 8:12, che ho riportato parzialmente per brevità, appare come un comandamento mentre è solo una profezia. La rettifico riportando il verso per intero poiché non è mia intenzione utilizzare simili mezzucci.
“Cazaèl disse: «Signor mio, perché piangi?». Quegli rispose: «Perché so quanto male farai agli Israeliti: brucerai le loro fortezze, ucciderai di spada i loro giovani, sfracellerai i loro bambini, sventrerai le loro donne incinte».”
Dici che l’Halakhah afferma che il precetto sulle prigioniere di guerra valeva anche per le donne non vergini; di sicuro però tale precetto riguardava unicamente le donne da pochissimo tempo diventate orfane anche di madre giacché era loro concesso un mese per piangerne la perdita. Ciò fa intendere che la madre era stata, non casualmente ma di prassi, uccisa quando lei fu catturata. Perché la madre, io mi chiedo, che poteva essere una donna ancora giovane e fertile, doveva (di prassi) morire e la figlia no? Forse perché la madre non era vergine e la figlia sì?
Certamente la mia è anche deduzione, che però viene dall’eccessiva importanza che le leggi e le storie del Tanakh assegnano alla verginità. In questo senso, molto indicativo è l’episodio delle 400 ragazze vergini della città israelita di Iabes di Galaad, che furono le sole persone risparmiate in essa dopo la sua distruzione provocata dagli altri israeliti allo scopo di dar moglie ai 600 guerrieri, unici superstiti di Beniamino, in maniera che questa tribù non si estinguesse. La mattanza di tutte le donne di Iabes, a eccezione delle quattrocento vergini, non risolse però il problema poiché restavano ancora 200 uomini da ammogliare. Eppure donne giovanissime ma non vergini dovevano esserci state in quella città e in numero anche maggiore, ma tutte erano state eliminate poiché, evidentemente, solo le vergini servivano per il matrimonio. Occorse quindi che quei 200 uomini rapissero altrove 200 fanciulle israelite, purché vergini.
Quest’episodio, inoltre, suffraga un’altra mia deduzione: che anche gli israeliti, quando invadevano un territorio e ne sterminavano tutta la popolazione, commettessero atrocità innominabili che la Torah non proibisce (il suo unico divieto era di non abbattere gli alberi da frutto intorno alla città). Tale deduzione deriva dal fatto che il genocidio delle genti di Beniamino narrato nell’episodio in questione non riguardava popolazioni pagane ma una tribù israelita. Lo sterminio di questa avvenne non per esplicito comando divino ma perché gli israeliti coalizzati erano stati sconfitti duramente in due battaglie dall’esercito di Beniamino e ciò non per caso; Dio voleva si capisse che le vittorie in battaglia era solamente lui che le assegnava a chi voleva. Infatti, solo alla terza battaglia concesse che Beniamino fosse battuto, ma ormai il furore e la sete di vendetta dei loro confratelli israeliti era montato a tal punto che uccisero in tutto il territorio ogni essere vivente. Quei 600 guerrieri si salvarono essendosi rifugiati nel deserto. Solo a quel punto gli israeliti ritrovarono la lucidità e si resero conto di aver quasi estinto una delle loro tribù e quindi sparsero lacrime dopo aver sparso tanto sangue.
Una tale esplosione di violenza irrefrenabile non fa certo pensare che le donne di Beniamino, tutte le donne poiché non ne scampò una, fossero state uccise dolcemente come da chirurghi in camice bianco. E mentre avvenivano infinite sevizie sulla popolazione inerme, Dio che faceva? Coerentemente con la legge da lui rivelata, che omette del tutto di includere lo stupro e le sevizie fra i reati, non intervenne né per impedire né per castigare azioni che, ai nostri occhi, appaiano raccapriccianti e disumane.
I rabbini talmudici hanno tentato di ovviare alle lacune della legge mosaica, sebbene Mosè abbia comandato che alla Torah nulla mai si dovesse togliere né aggiungere essendo essa perfetta (Deuteronomio 4:1-8 ). Di conseguenza hanno detto che il reato di stupro ci sarebbe, ma nascosto fra le pieghe di quello di furto. I rabbini talmudici hanno pure dovuto inventare le leggi noachidi per far fronte all’accusa dei cristiani di pretendere di essere i soli detentori di verità divine rivelate. Inoltre hanno dovuto adattarsi al diritto romano che vietava la poliginia, il ripudio della moglie e il prezzo della sposa (capisaldi dell’istituto matrimoniale israelita). Nella Roma monogamica, era la famiglia della sposa che portava la dote, che il marito doveva restituire alla moglie se voleva il divorzio. Pertanto, il prezzo della sposa si è trasformato nella ketubah, l’equivalente ebraico della dote nuziale versata agli sposi dalla famiglia della donna.
In circostanze belliche ordinarie il Deuteronomio prevede che l’esercito israelita uccida solo i maschi adulti. Questo al di là dei casi eccezionali di cherem contro i Cananei e delle “porcate” compiute contro i Beniaminiti nel tempo in cui “ognuno faceva ciò che gli pareva giusto”.
I rabbini non hanno aggiunto il reato di stupro, in quanto già la Torah condanna qualsiasi tipo di danno o aggressione, e tratta esplicitamente lo stupro nei tre casi emblematici della vergine, della donna sposata e della donna prigioniera.
I rabbini non hanno neppure inventato i sette precetti noachidi, in quanto già la Bibbia afferma l’esistenza di valori morali universali la cui osservanza è vincolante per l’umanità intera. I rabbini hanno solo codificato sinteticamente questi precetti, una cui versione pre-talmudica esisteva già nel libro dei Giubilei e negli Atti degli apostoli.