I tempi in cui gran parte del mondo pensava che il sesso prima del matrimonio fosse immorale o illecito sono ormai lontani. Nell’ultimo secolo, i rapporti prematrimoniali hanno conosciuto una progressiva accettazione nei paesi occidentali, dove sono oggi divenuti la norma.
Anche tra le nazioni più aperte sul fronte dei costumi sessuali, esiste però ancora una minoranza di persone che crede nel valore della castità e che si astiene dal sesso prematrimoniale in nome della propria fede religiosa.
Su questo tema, infatti, le religioni hanno spesso manifestato posizioni intransigenti, di solito non distinguendo tra “sesso occasionale” e relazioni stabili e monogame. Secondo il catechismo della Chiesa cattolica, “l’atto sessuale deve avere posto esclusivamente nel matrimonio; al di fuori di esso costituisce sempre un peccato grave”. Per l’Islam, i rapporti prematrimoniali rappresentano un atto inammissibile da punire severamente.
Nell’Ebraismo, il sesso prematrimoniale non fa parte della categoria delle arayòt, cioè le relazioni proibite dalla Torah, ma non è comunque ammesso. Secondo Rabbi Jonathan Sacks z”l, “Il sesso appartiene, per la Torah, all’ambito del matrimonio, ed il matrimonio è ciò che più si avvicina alle profonde risonanze dell’idea biblica di alleanza”.
Fino a qui la questione sembrerebbe piuttosto semplice, ma consultando la Bibbia e le fonti ebraiche successive, come ci apprestiamo a fare in questo articolo, si può arrivare a scoprire qualcosa di niente affatto scontato.
Il caso del seduttore
Provando a ricercare nella Bibbia dei brani che trattino del sesso prematrimoniale, dobbiamo subito fare i conti con una difficoltà: nella società del Vicino Oriente antico, tremila anni fa, i rapporti sessuali al di fuori del matrimonio – eccetto i casi di adulterio, stupro e prostituzione – rappresentavano un fenomeno di portata marginale, o persino improbabile. Ciò a causa dell’età precocissima in cui i giovani si sposavano, del fatto che i matrimoni erano di solito combinati, dei vantaggi sociali ed economici associati alla verginità femminile, e anche delle scarse occasioni di interazione sociale tra persone di sesso opposto.
Esiste però un caso in cui il testo della Torah discute effettivamente del sesso prematrimoniale, ed è quello della legge relativa al seduttore. In Esodo 22:15-16 si legge:
Quando un uomo seduce una vergine che non è fidanzata e giace con lei, egli dovrà pagare il prezzo nuziale per [averla] in moglie. Se il padre di lei si rifiuta di dargliela [in sposa], egli dovrà versare una somma di denaro secondo il prezzo nuziale delle vergini.
In questi versi, la Torah si riferisce a un rapporto consensuale, non a uno stupro. Il verbo patah qui utilizzato può essere tradotto con “sedurre” o “persuadere”, ma indica spesso un inganno o un raggiro (vedi Giudici 14:15; 1 Re 22:22). La situazione tipica prospettata qui dalla Torah è quella di una giovane che è stata convinta da un furbo approfittatore a concedersi a lui senza passare per la via ufficiale del matrimonio.
La legge, però, esamina unicamente il caso in cui ad essere sedotta sia una vergine (betulah) non fidanzata, cioè non ancora promessa in sposa a qualcuno. Perché questa esclusività?
La risposta sta nel fatto che la verginità di una fanciulla aveva un alto valore economico: la somma versata dallo sposo per ottenere in moglie una donna illibata costituiva per la famiglia della giovane un’opportunità di guadagno notevole, e a volte persino una fonte irrinunciabile di sopravvivenza.
In un simile contesto arcaico, avere un rapporto sessuale con una vergine (senza prima averla presa in moglie) significava privare la famiglia della ragazza di tale fonte di sostentamento. In altre parole, il seduttore compiva un vero e proprio furto. Per tutelare la parte lesa, la Torah stabilisce quindi che l’uomo si assuma le proprie responsabilità e paghi il “prezzo nuziale delle vergini”, anche nel caso in cui gli sia negato di sposare la ragazza che ha sedotto.
Cosa può dirci allora questo brano sulla concezione biblica del sesso prematrimoniale? In un suo articolo, Rav Elchanan Samet spiega:
“Qual è la punizione inflitta a una fanciulla sedotta? Assolutamente nessuna. Anche il seduttore non è punito; piuttosto, egli deve pagare il padre della fanciulla sedotta per risarcirlo della sua perdita […]. Vediamo, allora, che i rapporti sessuali consensuali tra un uomo e una vergine non fidanzata, sebbene non certo adeguati dal punto di vista morale, non costituiscono un crimine. La Torah affronta la questione rigorosamente dalla sola prospettiva economica”.
Nel testo biblico non troviamo alcun giudizio contro i due amanti per l’atto sessuale compiuto. La ragazza, in particolare, non subisce nessuna pena, mentre l’uomo è soltanto obbligato a rendere conto del danno economico che ha arrecato nel soddisfare i suoi impulsi carnali; impulsi che, tuttavia, non rappresentano alcun sacrilegio.
Il sesso prematrimoniale è visto insomma come un’anomalia rispetto alle consuetudini della società dell’epoca, non come una dissacrazione della Legge divina, diversamente dall’adulterio e dall’incesto, che sono invece severamente ed esplicitamente condannati (Esodo 20:14; Levitico 18:6).
Da dove nasce il divieto?
Se è vero che, come abbiamo appena visto, la Torah non presenta mai il sesso prematrimoniale come un sacrilegio, né lo annovera tra le “relazioni vietate”, su quale base l’Ebraismo proibisce ogni rapporto sessuale estraneo all’ambito del matrimonio?
I rabbini hanno indicato come fonte di tale divieto due versi della Torah in cui troviamo la condanna della prostituzione:
Non contaminare tua figlia facendola diventare una prostituta, affinché il paese non si dia alla prostituzione e il paese non si riempia di scelleratezze (Levitico 19:29).
Non vi sarà alcuna prostituta tra le figlie d’Israele, né vi sarà alcun [uomo] dedito alla prostituzione tra i figli d’Israele (Deuteronomio 23:18).
In riferimento al primo verso citato, Rashi (basandosi sull’antico commentario rabbinico al Levitico noto come Sifra) riporta che qualsiasi donna che si concede a un uomo per uno scopo diverso dal matrimonio commette un atto di prostituzione. Nachmanide, tuttavia, non concorda e afferma che “se un uomo non sposato ha rapporti sessuali con una donna non sposata, senza l’intenzione di renderla sua moglie, egli non la rende in questo modo una meretrice”.
Al secondo verso si appella invece Maimonide nel Mishneh Torah (Ishut 1:4) dichiarando che qualsiasi relazione carnale al di fuori del matrimonio è definita zenùt, ossia “prostituzione”. Prima della Rivelazione della Torah sul Monte Sinai, scrive ancora Maimonide, i rapporti occasionali erano permessi; in seguito, però, la Torah ha proibito agli Ebrei ogni forma di zenùt.
Questa è l’opinione che l’Ebraismo ha accettato come valida e vincolante, malgrado il dissenso del Raavad (Rabbi Avraham ben David) che, commentando le parole del suo contemporaneo Maimonide, scrive:
“Non c’è kedeshah (“prostituta”) se non colei che è promiscua e disponibile ad [avere rapporti] con chiunque. Tuttavia, nel caso di una donna che si riserva a un solo uomo, non c’è né fustigazione né divieto, e questa è la pileghesh (“concubina”) di cui parla la Scrittura”.
Dunque, in sintesi, da una parte abbiamo la visione più rigida di Rashi, Maimonide e altri maestri, secondo cui qualunque rapporto carnale che non rientri nell’ideale del matrimonio sarebbe da assimilare alla prostituzione; e dall’altra quella (meno nota) di Nachmanide e Raavad, i quali riescono invece a cogliere maggiori sfumature tra i due estremi rappresentati dalla moglie e dalla prostituta.
A proposito di concubine
Parlando di sesso prematrimoniale non si può fare a meno di ricordare l’antica istituzione del concubinato, una forma di relazione coniugale distinta dal matrimonio che era accettata e considerata legittima nei tempi biblici.
Tradizionalmente, siamo abituati ad associare al termine “concubina” un senso scabroso o sgradevole. Anche la parola ebraica pilèghesh, usata nella Bibbia per indicare le concubine, ha assunto oggi in Israele un’accezione negativa, essendo usata spesso per indicare una donna coinvolta in una relazione segreta o illecita. Nelle Scritture, tuttavia, pur non essendo mai esaltato come una condizione ideale, il concubinato non è mai oggetto di divieti o di condanne.
Che cos’era esattamente la pileghesh? I Maestri del Talmud non sono concordi nel definire tutte le specificità di questo tipo di relazione, ma si ritiene generalmente che la concubina fosse una sorta di compagna coniugale di status sociale e giuridico inferiore rispetto a una normale moglie. In ogni caso, non si trattava di una forma di schiavitù né di un “rapporto occasionale”, dal momento che la pileghesh abitava con il suo uomo e poteva generargli dei figli (è il caso di Bilhah e Zilpah, concubine del patriarca Giacobbe nella Genesi).
Benché il concubinato (come la poligamia) sia di fatto sparito dal mondo ebraico fin dall’epoca del Secondo Tempio, alcuni pensatori hanno provato in più occasioni a riportare in vita questa istituzione proponendola come un equivalente biblico e halakhico del concetto moderno di “convivenza”, quasi un corrispettivo religioso delle “unioni civili”.
A questo proposito, si fa spesso riferimento all’opinione isolata di Rabbi Yaakov Emden, famoso rabbino tedesco del Settecento, secondo cui il concubinato non solo è lecito alla luce della Torah, ma risulterebbe anche preferibile per gli uomini e per le donne che non intendono farsi carico delle responsabilità del matrimonio e che desiderano conservare maggiori libertà nella loro relazione. Un pensiero che resta oggi, all’interno dell’Ebraismo e del mondo religioso in generale, altamente controverso.
Bella, interessante lezione. Grazie.
Caro redattore,
se non sbaglio, mi risulta che nel Talmud si accenna a un’età minima per il matrimonio, che sarebbe di 12 anni. La Torah, tuttavia, non pone limiti d’età per le spose ma parla solo di “vergini” e occorre osservare che le donne sono vergini dal momento della loro nascita. Poiché i matrimoni erano combinati e poiché le “vergini” avevano un prezzo, è chiaro che l’età delle novelle spose dipendeva dall’arbitrio e dall’interesse economico dei loro padri. In quest’ottica, le bambine costituivano, specialmente nelle famiglie indigenti, una fonte di guadagno, ma allo stesso tempo motivo di grandissima apprensione perché detta fonte era molto precaria. Infatti, a causa della mortalità che in passato colpiva perfino la metà dei bambini entro i cinque anni, e che mieteva vittime anche negli anni successivi, la morte prematura di una figlia equivaleva alla perdita del prezzo nuziale. Tale perdita poteva essere provocata anche dal “furto” della verginità da parte di qualsiasi debosciato. Con l’imene non più integro, infatti, come per un prezioso vaso cinese incrinato, il valore economico di una figlia si azzerava.
Dati questi presupposti di natura commerciale, il padre israelita, per quanto potesse essere umano e affettuoso, doveva comunque essere assillato dalla necessità di maritare al più presto le sue figlie, il che doveva indurlo ad accettare ogni richiesta di matrimonio qualunque fosse la loro l’età.
A questo punto si pone la domanda: ci sono uomini interessati a fare sesso con una bambina?
Su internet si possono vedere immagini del nostro tempo di uomini mediorentali tutt’altro che giovani con accanto le loro mogli bambine. Una testimonianza scioccante è sicuramente quella di una yemenita che ha pubblicato la sua storia intitolata “ Io, Nojoud, 10 anni, divorziata”. All’età di otto anni, nel 2008, Nojoud era stata data in moglie da suo padre a un uomo di trent’anni. La bambina, poiché nessuno dei suoi parenti volle aiutarla, si recò da sola al tribunale e lì ottenne aiuto e poté divorziare poiché, attualmente, la legge dello Yemen non consente il matrimonio di bambini così piccoli. Infatti, suo padre e suo marito sono stati arrestati, suppongo con grande sconcerto non soltanto loro ma pure dei loro parenti e vicini per la costatazione che sacre consuetudini millenarie siano state cancellate da “assurde” leggi importate dall’occidente.
Tornando all’istituzione matrimoniale com’era regolata nella Torah, trovo importante quest’altra considerazione: alla agevolazione di comprare bambine in moglie si aggiungevano quelle della poliginia e del ripudio; grazie alla prima un uomo facoltoso poteva acquistare quante mogli avesse voluto. Col ripudio, che non prevedeva l’obbligo di mantenimento per le mogli ripudiate, l’uomo poteva sfoltire il suo gineceo (se non proprio l’harem) come si fa con gli abiti dismessi nell’armadio.
Considerato ciò, si potrebbe presumere che nell’antico Israele le ragazze adolescenti fossero per la maggior parte già sposate (e alcune addirittura già ripudiate). Solo quelle poco attraenti, come era Lea, la sorella di Rachele, restavano a lungo nubili. Riguardo alle altre, credo che il nubilato riguardasse sostanzialmente la fascia d’età sotto gli 11 o 12 anni.
Pertanto, data l’età media infantile delle sedotte, ha davvero senso parlare di “seduzione”?
Le donne si possono sedurre, ma riguardo alle bambine si deve parlare di plagio, il quale, anche se c’è il consenso della vittima, è ovviamente nient’altro che stupro.
In Deuteronomio c’è un’altra legge che fa riferimento allo stupro di una vergine e che condanna il reo solo in caso di flagranza, mentre in Esodo il riferimento è alla seduzione di una vergine. Stando alle osservazioni di cui sopra, poiché le “prede”, ossia le vergini, erano quasi sempre soltanto delle bambine, mi chiedo in cosa consisterebbe per il legislatore biblico la differenza tra il violare e il sedurre.
Secondo me l’abuso su una minore era classificato come seduzione solo qualora costei faceva il nome del responsabile (il quale spesso doveva essere un parente o un vicino). In questo caso, anche se non c’era stata flagranza e quindi una chiara responsabilità giuridica, il cosiddetto seduttore doveva però fare i conti con i coltelli del padre e di altri famigliari. In Sicilia, fino a pochi decenni fa, situazioni di questo genere avevano generato la consuetudine chiamata “fuitina”. In Sicilia, però, il seduttore (o rapitore) aveva l’obbligo di sposare la sedotta (o rapita), mentre per la legge mosaica l’obbligo consisteva nel pagamento del prezzo nuziale al padre della bambina. Costui, dopo aver intascato il prezzo della sposa, non era tenuto né legalmente né moralmente a maritare la sua figliola con chi l’aveva abusata. E allora? Gli sarebbe toccato mantenere una “disonorata”, ossia una bocca in più da sfamare e che prima o poi sarebbe stata posseduta ancora da chiunque, e oramai impunemente? La legge mosaica, infatti, condannava molti tipi di atti sessuali, ma non la violenza carnale delle “non vergini”.
Tuttavia, c’è una norma contenuta in Esodo che offriva al padre una via d’uscita: egli poteva vendere la sua non più intatta figliola come schiava per la durata legale di sei anni. Durante questo tempo il suo padrone, se avesse voluto rivenderla a sua volta, poteva farlo solo ad altri ebrei; in questa maniera, trascorsi i sei anni, costei non avrebbe avuto difficoltà a tornare da suo padre che l’avrebbe potuta vendere nuovamente.
Non sono d’accordo che la Torah proibisca la prostituzione. Un esempio è l’episodio delle due prostitute che chiesero giustizia al re Salomone, il quale ascoltò il loro caso ed emise una sentenza. Se in Israele fosse stato illecito il mestiere di prostituta non credo che esse avrebbero avuto il diritto di presentare la loro contesa al supremo giudice d’Israele. Sarebbe come se due ladri si rivolgessero al tribunale per dirimere le loro controversie sulla spartizione della refurtiva.
Che fosse lecito agli uomini israeliti frequentare le prostitute è pure rivelato dal comportamento di un paio di personaggi biblici di primo piano: uno è Giuda, il capostipite dei giudei, il quale una volta, avendo adocchiato una meretrice ferma sulla strada, la ingaggiò per una prestazione, ma senza sapere che costei era in realtà sua nuora. Dato che proprio due figli di Giuda erano stati giustiziati direttamente da Hashem per i loro peccati, uno di loro in particolare proprio per una colpa sessuale, mentre Giuda non ebbe castighi dal cielo come conseguenza di quella sua copula mercenaria, si dedurrebbe che il sesso a pagamento non fosse vietato in epoca patriarcale. E non lo era nemmeno al tempo dei giudici: il più conosciuto di tali giudici, Sansone, quando passò la notte presso una di queste donnine a Gaza, ebbe sempre su di sé lo spirito divino da cui gli proveniva la sua forza prodigiosa; in quell’occasione divelse a mani nude la porta delle mura fortificate lasciando con un palmo di naso i nemici che pensavano di catturarlo. Eppure bastò che egli perdesse la sua lunga chioma di nazireo non di sua volontà ma mentre dormiva perché Dio lo abbandonasse nelle mani dei filistei. Pure da questo episodio si deduce che la frequentazione di prostitute perfino da parte dei suoi eroi non era condannata da Hashem.
Tuttavia vi sarebbe nella Torah una norma che vieterebbe la prostituzione in Israele. Riporto il verso
così come è trascritto nel tuo articolo:
“Non vi sarà alcuna prostituta tra le figlie d’Israele, né vi sarà alcun [uomo] dedito alla prostituzione tra i figli d’Israele (Deuteronomio 23:18).”
Deuteronomio 23, verso18 in alcune traduzioni, verso 17 in altre; ma la vera divergenza non è questa: alcune versioni (CEI, TNM, Nuova Diodati, Ed. Paoline) traducono “prostituta SACRA o DI TEMPIO”, idem per il prostituto. Questa specificazione, che non può essere inventata dai traduttori, rivela se mai un’opportuna distrazione in quegli altri traduttori che l’hanno omessa per dare a intendere che in Israele non fosse ammessa la prostituzione comune, mentre in realtà era proibita solo quella religiosa tipica dei pagani.
C’è un’altra legge che sembrerebbe indicare il divieto del meretricio:
“Non contaminare tua figlia facendola diventare una prostituta, affinché il paese non si dia alla prostituzione e il paese non si riempia di scelleratezze” (Levitico 19:29).
Intanto si nota subito che in questa norma è assente una pena per il padre-magnaccia, cosa assai rara nella Torah i cui divieti sono regolarmente integrati da condanne capitali. Sembrerebbe più un’esortazione rivolta ai padri affinché, avendo essi il diritto di lucrare sulle loro figlie sia maritandole sia vendendole come schiave, non le usassero invece come più comoda fonte di guadagno facendole prostituire. Ciò anche perché sia le mogli sia le schiave divenute concubine (a differenza delle prostitute che sono donne di tutti), dovevano dare figli agli uomini cui appartenevano, cosa fondamentale nella mentalità biblica che poneva la proliferazione tra i più alti valori della vita.
I casi di Salomone e Sansone non dimostrano in modo inequivocabile che la prostituzione fosse lecita secondo la Torah. I testi narrativi del Tanakh contengono molte opere e usanze di certo proibite nel Pentateuco, ma tali proibizioni spesso non erano di fatto osservate in Israele, neppure tra le alte sfere. Alcuni studiosi fanno notare a questo proposito che la Torah non era “la legge dello Stato” nell’antico Israele: lo divenne solo dopo l’esilio in Babilonia. Detto ciò, è vero che in Deuteronomio non si parla di prostituzione in generale, ma di “kedeshah”, parola che ha la stessa radice di kadosh (santo), e indica propriamente le prostitute sacre del templi pagani. Dal punto di vista del senso letterale, il Deuteronomio mette al bando la prostituzione sacra, pratica comune tra alcuni culti politeisti. Da notare però che anche le prostitute “profane”, come Tamar nel racconto di Genesi, occasionalmente sono chiamate anche loro “kedeshah”, probabilmente per una forma di eleganza, dato che il termine che indica le prostitute comuni (zonah) era percepito come volgare.
In Levitico 19 invece si parla genericamente di prostituzione. Non è strano che il verso non riporti alcuna pena per il trasgressore: gran parte dei comandamenti riportati qui nel “codice di santità” non sono associati esplicitamente a una pena. Ma la sostanza non cambia poiché la Torah non riporta buoni consigli (come talvolta il libro dei Proverbi) ma mitzvot (comandamenti), e la vendita di una figlia come prostituta è definita con il verbo “profanare”, che non è usato per azioni di poco conto ma per dissacrazioni.
Caro redattore, scrivi:
“I testi narrativi del Tanakh contengono molte opere e usanze di certo proibite nel Pentateuco, ma tali proibizioni spesso non erano di fatto osservate in Israele, neppure tra le alte sfere.”
Veramente l’intero Tanakh contiene, fin dalle prime pagine, la narrazione di un costante e ripetuto alternarsi di violazioni delle leggi divine da parte degli uomini, di successive reprimende celesti per tali violazioni e di conseguenti castighi, anche tra le alte sfere.
Hashem non si limita a guardare ma punisce immancabilmente. Ma laddove non castiga non è certo per disattenzione, e la frequentazione di meretrici da parte di alcuni suoi beniamini non l’ha mai punita.
D’altra parte, poiché i divieti sessuali posti dalle leggi divine erano parecchi e spesso gli uomini biblici si sposavano in età avanzata (Isacco ed Esaù a 40 anni, Giacobbe forse a 80) oppure erano vedovi e non si risposavano (come Giuda e Sansone) viene da chiedersi come facessero costoro a soddisfare lecitamente la propria libido finché non avevano moglie. Non mi pare che il Tanakh esalti la castità come invece fa il Nuovo Testamento. La prostituzione, quindi, doveva essere anche in Israele, come in tutto il resto del mondo e in tutte le epoche, la necessaria valvola di sfogo per tutti gli uomini… poco ascetici. Una valvola opportuna affinché essi non si sfogassero abitualmente con le donne d’altri né con le loro consanguinee, o abusando di animali o sodomizzando uomini.
I meccanismi di peccato-condanna-punizione non sono così semplici e banali nel Tanakh, tranne che forse nei primi capitoli della Genesi. Il caso di Salomone è esemplare: egli fa tutto ciò che la Torah proibisce a un re, oltre a compiere grandi meriti, ma il testo lo condanna per un unico atto. Non è un’anomalia ma una caratteristica tipica dei racconti biblici: menzionare un unico peccato come l’emblema di un intero sistema di comportamento da condannare. Ma siamo ben oltre il tema di questo articolo.
Riguardo la presunta età avanzata a cui gli uomini biblici si sposavano, bisogna tenere conto della simbologia numerica della Torah. 40 anni nella Bibbia significa “un certo tempo di preparazione o transizione”, mentre 70 anni sono “un tempo completo, un tempo di maturità”. Non sono cifre da prendere alla lettera come è portato a fare il lettore occidentale moderno, specialmente se parliamo di figure che a tratti trascendono la storia, come i patriarchi o i capostipiti delle tribù.
Ma venendo alla nostra questione: le prostitute c’erano oppure no nell’antico Israele? Certo che c’erano, come ovunque nel mondo. La loro attività era proibita? Beh, in teoria, secondo il Levitico, dare la propria figlia alla prostituzione era certamente vietato. Una tale scelta è definita una dissacrazione e una fonte di corruzione morale per il paese. Tuttavia, e questo è il mio parere personale, nel caso di una donna che si trovava già in questa condizione, perché straniera proveniente da un paese in cui non esisteva una simile condanna, o perché venduta da un padre iniquo, la sua attività sessuale non era di per sé considerata un peccato né un crimine.