Genesi

Scintille di Torah III: Genesi

Scintille di Torah” è la raccolta di brevi commenti alla parashàh (porzione settimanale di Torah/Pentateuco secondo il ciclo di lettura annuale ebraico) che pubblichiamo ogni settimana sui nostri profili Instagram e Facebook.

Di seguito troverete tutti i commenti al Libro della Genesi pubblicati nel 2023.

BERESHIT

E la terra era vuota e vacua, oscurità sulla faccia dell’abisso, e un vento di Elohim aleggiava sulla faccia delle acque (Genesi 1:2).

Questa settimana comincia un nuovo ciclo di lettura della Torah, e si riparte come sempre dal principio, dal Libro della Genesi (Bereshit).

Avevamo in mente di commentare il brano parlando del tema dell’universalità del racconto biblico, ma la terribile situazione in cui si trova attualmente il popolo d’Israele dopo i recenti attacchi terroristici ci spinge verso una riflessione differente.

La Torah descrive la terra nel suo stato primordiale come una desolazione caotica e senza vita. Questa stessa immagine è usata in tutt’altro contesto dal profeta Geremia, che nel suo libro scrive: “Ho visto la terra, ed ecco era vuota e vacua; ho guardato verso i cieli, e non c’era in essi luce” (Geremia 4:23).

Il profeta cita le espressioni del primo capitolo della Genesi per descrivere poeticamente la rovina della terra d’Israele al tempo dell’invasione babilonese che portò in seguito alla distruzione del Tempio. Tanto profondo è lo sconforto che il mondo intero, agli occhi di Geremia, sembra regredito alla sua condizione originaria di caos e oscurità.

Nello stesso brano, il profeta esprime così la sua sofferenza: “Mi dimeno dal dolore. Oh, le pareti del mio cuore! Il mio cuore batte forte dentro di me. Io non posso tacere, perché, o anima mia, ho udito il suono della tromba, il grido di guerra. Si annunzia rovina sopra rovina, perché tutto il paese è devastato” (4:19-20).

Poco più avanti, però, il testo paragona l’angoscia di Gerusalemme al grido di una donna che sta per partorire (4:31). Questa metafora suggerisce l’esistenza di un potenziale positivo nascosto all’interno del dramma che colpisce la nazione, la possibilità che dalla sconfitta nasca una nuova vita, un germoglio di redenzione.

Geremia sa bene che, nella Genesi, all’immagine del caos primordiale fa seguito l’imperativo della voce divina che dichiara: “Sia luce!”. Per questo, egli conclude i suoi annunci di sventura con promesse di riscatto che hanno rappresentato una fonte di speranza nel corso dei millenni di esilio e persecuzione.

NOACH

E avvenne, al termine di quaranta giorni, che Noach aprì la finestra dell’arca che aveva fatto, e mandò il corvo, che uscì e ritornò più volte finché non si prosciugarono le acque da sopra la terra (Genesi 8:6-7).

Dopo essere stato risparmiato dalla devastazione del Diluvio, Noach si ritrova rinchiuso per mesi nella sua arca, ansioso di conoscere il futuro che lo attende.

La scelta di inviare degli uccelli fuori dall’arca riflette un’usanza degli antichi marinai, che osservavano appunto il volo degli uccelli per scoprire in quale direzione si trovasse la terraferma.

Ma per quale motivo il testo ci parla di due diverse specie, il corvo e la colomba? E perché la missione del corvo fallisce, mentre quella della colomba riesce?

I due animali sembrano simboleggiare due diversi approcci al tema della distruzione del mondo e della sua rinascita: il nome del corvo (in ebraico orev) richiama la sera (erev), dunque l’oscurità e il disordine. Come ci ricorda Isaia (34:11), il corvo è associato alle rovine e ai luoghi devastati.

La colomba (yonah), immagine opposta, è nella Bibbia un simbolo di fedeltà, bellezza e libertà (Salmi 55:6; Cantico 6:9), ed è celebrata per la sua capacità di fare il nido anche in luoghi inospitali (Geremia 48:28).

La Genesi vuole dunque mostrare che il nuovo mondo emerso dalle acque può essere inaugurato solo all’insegna della purezza e del rinnovamento, non attraverso un’immagine cupa e negativa. Per questo il corvo non si rivela di alcun aiuto nel racconto, mentre la colomba annuncia a Noach il ritorno alla vita.


LEKH LEKHÀ

E Avram udì che era stato fatto prigioniero suo fratello, e armò i suoi [uomini] addestrati, nati in casa sua, trecentodiciotto, e inseguì [gli invasori] fino a Dan (Genesi 14:14).

Il terribile massacro avvenuto in Israele lo scorso 7 ottobre, insieme al duro conflitto che ne è scaturito, ha spinto molti Ebrei a ricercare elementi di attinenza tra la parashah (porzione di Torah) della settimana e la situazione attuale.

A questo proposito, la scorsa settimana in molti hanno notato che nella parashah di Noach compare due volte la parola “Hamas” (in ebraico “violenza”), in riferimento alla corruzione della terra prima del Diluvio.

Nel brano che sarà letto questo Shabbat si trova un altro tema che negli ultimi giorni appare altamente rilevante: quello degli ostaggi e della loro liberazione.

Il capitolo 14 della Genesi ci racconta infatti che Lot, nipote di Avraham (Abramo), viene fatto prigioniero nel corso di una battaglia tra una coalizione di re mesopotamici e cinque città della pianura del Giordano.

Malgrado il suo carattere generalmente pacifico e soprattutto cauto, Avraham non esita a scendere in campo e a inseguire le truppe dei re per trarre in salvo il suo parente, impresa che egli porta a termine con inatteso successo.

“Redimere i prigionieri”, dichiarano a questo riguardo i Maestri del Talmud, “è un grande
Comandamento”. Secondo Maimonide, chi non si mobilita per liberare un prigioniero trasgredisce ben due precetti della Torah: “Non indurirai il tuo cuore e non chiuderai la mano davanti al tuo fratello bisognoso” (Deut. 15:7) e “Non restare impassibile davanti al sangue del tuo prossimo” (Levitico 19:16).


CHAYEI SARAH

Malgrado il nome della parashah di questa settimana sia “Chayé Saràh” (La vita di Sarah), in essa non si parla in realtà della vita, ma della morte di Sarah, moglie di Avraham.

Oltre al tema del lutto e della perdita, troviamo qui soprattutto quello del rinnovamento, un vero e proprio “passaggio del testimone” tra la vecchia generazione, che conclude il suo percorso, e quella nuova, che ne eredita la missione. 

Ad Avraham, come sappiamo, succede il figlio Yitzchak (Isacco). Non meno importante è però la transizone tra Sarah e Rivkah (Rebecca). Quest’ultima è la nuova matriarca che, giunta dalla Mesopotamia, prende il posto di Sarah.

Il testo ci dice infatti che “Yitzchak portò Rivkah nella tenda di sua madre, la sposò, la amò e fu consolato per la perdita di sua madre” (Genesi 24:67).

Sarah e Rivkah hanno molto in comune: entrambe sono inizialmente sterili fino a che un intervento divino non le rende feconde, ed entrambe catturano l’attenzione di un re straniero che desidera sposarle.

Rispetto a Sarah, però, Rivkah rappresenta un progresso: mentre la prima era sempre rimasta passiva nel suo rapporto con la Divinità, lasciando che fosse Avraham a comunicare con l’Altissimo, la seconda prende l’iniziativa di “consultare Dio” (25:22-23) e riceve perciò una rivelazione sul futuro dei suoi figli.

Inoltre, Yitzchak prega per Rivkah a causa della sua sterilità (25:21), cosa che Avraham non aveva mai fatto per sua moglie. Rivkah ha poi l’onore di essere l’unica donna di suo marito, mentre Avraham aveva generato figli da Hagar e Keturah oltre che da Sarah.

Con la storia di Rivkah assistiamo insomma a un passo avanti nella graduale crescita spirituale degli antenati d’Israele, con nuove possibilità che iniziano ad aprirsi sul ruolo della donna nell’universo della Torah.


TOLEDOT

Nella parashah di questa settimana incontriamo per la prima volta Yaakòv (Giacobbe), capostipite del popolo ebraico.

I racconti iniziali che lo vedono protagonista non sono però molto positivi dal punto di vista etico: l’astuto Yaakov si fa cedere il diritto alla primogenitura dal suo gemello Esàv (Esaù) in cambio di una minestra, poi gli sottrae la benedizione del padre con un raggiro ordito dalla madre Rivkah.

La Genesi non sembra quindi voler presentare il giovane Yaakov come un modello morale da imitare. Del resto, il patriarca pagherà le conseguenze di tali azioni per il resto della sua vita, diventando a sua volta vittima di raggiri e umiliazioni.

Esiste tuttavia una forte tendenza, presente in alcuni Midrashim e commentari rabbinici, a giustificare Yaakov interpretando i suoi sotterfugi come legittimi o persino necessari. Per alcuni è infatti impossibile immaginare che uno dei padri della nazione ebraica, un uomo di Dio, possa aver compiuto azioni disdicevoli.

Il fatto che una simile interpretazione non sia però conforme al messaggio della Torah si può dedurre anche dall’idea che di questi racconti avevano i più antichi e autorevoli lettori della Bibbia: i profeti d’Israele.

In una sua invettiva contro la corruzione degli Israeliti, Osea rievoca gli atti del loro antenato: “Il Signore tratterà Yaakov secondo le sue opere, lo ripagherà secondo le sue azioni. Egli nel grembo ingannò il fratello” (12:3-4).
Il profeta va qui anche oltre il testo della Genesi, attribuendo a Yaakov un carattere fraudolento già nel ventre materno.

Ancora più aspro è Geremia, che in un suo discorso proclama: “Ognuno si guardi dal suo amico, non fidatevi neppure del fratello, poiché ogni fratello di certo inganna il fratello” (9:3). Il fatto che questo verso si riferisca alla vicenda di Yaakov è evidente nel testo ebraico, dove l’espressione qui tradotta con “di certo inganna” è “akov ya’akov”, chiara allusione al nome del patriarca.

Come scrisse Rav Hirsch, “la conoscenza che ci è stata trasmessa riguardo i difetti e le debolezze dei nostri grandi uomini non sottrae nulla alla loro grandezza; al contrario, la accresce e rende le loro storie ancora più istruttive”.


VAYETZÈ

E Yaakòv fece un sogno: ed ecco, una scala poggiava sulla terra, e la sua cima era in cielo; ed ecco, gli angeli di Dio salivano e scendevano su di essa (Genesi 28:12).

L’immagine della scala, contemplata dal patriarca Yaakov nel famoso sogno che egli ebbe sulla via per la città di Charàn, è stata interpretata in vari modi e ha ispirato molte riflessioni teologiche nel corso dei millenni.

Concentrandoci solo sugli elementi che il testo ci fornisce, possiamo notare una certa analogia tra questa misteriosa scala e un’altra struttura descritta nella Genesi: la torre di Bavèl (Babele).

In entrambi i casi troviamo infatti l’espressione “veRoshò BaShamayim”, cioè “La sua cima [era] in cielo”, che non compare in nessun altro brano della Bibbia.

Inoltre, i nomi “Bavel” e “Beit El” (la località in cui Yaakov si era coricato quando ebbe questo sogno), hanno quasi lo stesso significato: Bavel, in lingua sumera, si può tradurre con “Porta di Dio”, mentre Beit El con “Casa di Dio”.

Nel caso della torre, l’incontro tra l’umano e il Divino avveniva però secondo un’unica direzione, una discesa verticale: “E HaShem scese a vedere la città e la torre che gli uomini stavano costruendo” (Genesi 11:5).

Al contrario, nel sogno di Yaakov, il movimento divino segue due direzioni: “ed ecco, gli angeli di Dio salivano e scendevano”.

Ciò avviene perché la torre costituisce un tentativo umano e blasfemo di elevazione, mentre l’immagine della scala è l’allegoria di un vero contatto con Dio, che non deriva dall’orgoglio dell’uomo, ma dalla libera volontà del Creatore di relazionarsi con le creature.


VAYISHLACH

E tornarono i messaggeri da Yaakov dicendo: «Siamo stati da tuo fratello Esav; ora egli stesso ti sta venendo incontro e ha con sé quattrocento uomini». E fu molto intimorito Yaakov, e si sentì angosciato (Genesi 32:7-8).

Durante il suo viaggio di ritorno in patria, il patriarca Yaakov è chiamato a confrontarsi con il proprio passato: Esav, forse ancora pieno di rancore per il “furto della benedizione” avvenuto vent’anni prima, gli viene incontro portando con sé un’intera milizia.

Yaakov teme il peggio. Il testo ci dice che egli “fu intimorito” (vayrà’) e che “si sentì angosciato” (vayetzer). Qual è la differenza tra queste due espressioni?

Gli antichi Maestri, che si servono di ogni dettaglio della Torah per trasmettere insegnamenti, affermano nel Midrash Rabbah che “il timore e l’angoscia non sono la stessa cosa”.

Yaakov provava angoscia, continua il Midrash, perché aveva paura di essere ucciso; ma il timore nasceva in lui da un altro pensiero: la possibilità di uccidere qualcuno per difendersi dall’attacco di Esav.

Da un’apparente ridondanza nel testo biblico, i Saggi d’Israele fanno derivare uno dei capisaldi dell’etica ebraica: uccidere è talvolta necessario, per proteggere la propria vita da un aggressore, ma non è mai qualcosa di cui essere lieti. Yaakov contemplava l’idea di difendersi ricorrendo alle armi, ma non guardava con favore a una simile evenienza.

Secondo i Maestri, anche quando è giustificata, la violenza non è mai un atto da celebrare. E il giusto, seguendo la via di Yaakov, deve avere timore sia di essere colpito che di colpire.


VAYESHEV

Questa settimana comincia la lettura dell’appassionante storia di Yosèf (Giuseppe), odiato dai suoi fratelli, venduto in Egitto come schiavo e poi, grazie a un clamoroso capovolgimento della sorte, divenuto ministro del Faraone.

La vicenda di Yosef presenta caratteristiche tipiche di una fiaba, con la figura del povero sventurato che supera le avversità fino a trasformarsi in un principe. Tuttavia, quella che sembra una storia inverosimile rappresenta di fatto un archetipo che si è realizzato molte volte nella storia ebraica.

Numerosi sono infatti gli Ebrei che, nel corso dei millenni, hanno seguito le orme di Yosef facendo fortuna in esilio, riuscendo a stupire sovrani stranieri e ad influenzare positivamente la società, nonostante la loro appartenenza a un popolo spesso disprezzato e perseguitato.

Oltre ai due esempi biblici di Mordechai (nel libro di Ester) e Daniel, tra i personaggi che hanno seguito il modello di Yosef ricordiamo Maimonide, che proprio in Egitto divenne il medico privato del Sultano, ottenendo un’immensa fama; ma anche Abravanel, che in un clima fortenente antiebraico riuscì a conquistarsi l’ammirazione dei sovrani spagnoli, che gli proposero (senza successo) di mantenere il suo posto come funzionario di corte persino dopo la cacciata degli Ebrei dal loro regno nel 1492.

Appartiene a questa schiera anche il filosofo tedesco Moses Mendelssohn, contemporaneo di Kant, che fu apprezzato anche nel mondo cristiano ed esercitò notevole influenza tra i pensatori del suo tempo.

Questi e molti altri esempi ci mostrano una delle più interessanti applicazioni del principio espresso dai Maestri secondo cui “le opere dei padri sono un segno per i loro figli”, ovvero, in altre parole, le storie della Torah costituiscono un paradigma ricorrente nell’intera storia del popolo ebraico.


MIKKETZ

“Noi siamo davvero colpevoli nei confronti di nostro fratello, perché vedemmo l’angoscia dell’anima sua quando egli ci supplicava, ma non gli demmo ascolto! Ecco perché ci è venuta addosso questa sventura!” (Genesi 42:21).

Queste parole cariche di rimorso, pronunciate dai figli di Yaakov (Giacobbe) alla corte del viceré d’Egitto, fanno emergere un dettaglio che in precedenza il testo biblico aveva del tutto omesso: Yosèf (Giuseppe), dopo essere stato gettato in una fossa, aveva urlato e supplicato i suoi fratelli di liberarlo. E dal canto loro, i fratelli erano rimasti indifferenti al suo lamento, preoccupandosi soltanto di trarre vantaggio dalla terribile situazione.

Al capitolo 37, quando questa vicenda era stata narrata, il testo non ci aveva detto nulla a proposito della reazione di Yosef, come se egli fosse rimasto muto davanti alla violenza subita. Solo ora, a distanza di molti anni dall’accaduto, questo elemento viene fuori inaspettatamente. Come possiamo spiegarlo?

Secondo Rav Alex Israel, il ricordo (tardivo) delle urla strazianti di Yosef rappresenta il risveglio della coscienza dei fratelli.

È proprio adesso, davanti alle asprezze che hanno colpito la loro famiglia, che i figli di Yaakov riescono a riflettere sulle loro azioni del passato, e possono quindi “ascoltare” per la prima volta il grido di Yosef. La Torah riporta qui, in ritardo, le commoventi suppliche del loro fratello, poiché è solo ora che il messaggio viene recepito. E così un dettaglio importante, prima del tutto ignorato, riaffiora a sorpresa spalancando le porte del ravvedimento.


VAYIGASH

Nel brano di questa settimana, la Torah descrive la drammatica situazione in cui versava l’Egitto a causa dell’aggravarsi della carestia. Yosef (Giuseppe), nel ruolo di ministro del Faraone, è chiamato ad amministare l’economia del paese in un periodo tanto critico.

La popolazione d’Egitto, esasperata, si presenta a Yosef con una richiesta: “Perché dovremmo morire sotto i tuoi occhi, noi e le nostre terre? Compra noi e le nostre terre in cambio di pane, e noi con le nostre terre saremo schiavi del Faraone; e dacci da seminare affinché possiamo vivere e non morire, e il suolo non diventi un deserto” (Genesi 47:19).

Gli Egizi, pur di sopravvivere, chiedono quindi a Yosef di ridurli tutti in schiavitù e di acquistare le loro terre. Egli sembra acconsentire alla loro richiesta, ma a ben vedere si limita in realtà a comprare solo i terreni, senza rendere realmente schiava la popolazione. I contadini restano infatti in possesso di gran parte del loro raccolto, cedendone solo una modesta porzione al sovrano.

Il Commentario Meshech Chokhmah trae una lezione morale da questa scelta: “Yosef odiava l’istituzione della schiavitù, il dominio su una persona, che va sempre a svantaggio degli schiavi. Questo è il motivo per cui egli disse che avrebbe acquistato la terra d’Egitto ma non il popolo come schiavo. La terra sarebbe stata di proprietà del Faraone ed essi sarebbero stati di sua proprietà in quanto avrebbero lavorato per il Faraone come lavoratori [ma non come veri schiavi]”.


VAYECHÌ

E Yaakov chiamò i suoi figli e disse: Radunatevi e vi riferirò ciò che vi accadrà alla fine dei giorni (Genesi 49:1).

Commentando questo verso, i Saggi d’Israele (Bereshit Rabbah 98, 2) dichiarano che il patriarca Yaakov, sul letto di morte, desiderava rivelare ai suoi figli quando sarebbe giunta “la fine dei giorni”, cioè la redenzione finale del popolo ebraico, che coincide con la venuta del Messia.

In quel momento, però, spiega Rashi, la Presenza divina si ritirò da Yaakov, ed egli non poté rivelare la data della fine, ma si limitò a benedire i suoi figli.

È importante riconoscere che questa affermazione dei Maestri non rispecchia realmente il senso letterale del testo biblico: l’espressione “fine dei giorni” (acharit HaYamim) ha nella Bibbia il semplice senso di “giorni avvenire” o “tempi futuri”, benché nella letteratura ebraica successiva sia stata spesso caricata di significati apocalittici.

Dal punto di vista del racconto della Genesi, Yaakov voleva solo preannunciare ai suoi figli alcuni eventi futuri, cosa che effettivamente fece, piuttosto che svelare loro la data della redenzione definitiva.

Eppure, i Maestri ci trasmettono in questo modo un insegnamento di indiscusso valore: nessuno può conoscere ciò che Dio non intende rivelare, e non è opportuno prestare fede a speculazioni sull’inizio dell’era messianica.

Del resto, come gli stessi Maestri affermano, l’avvento della redenzione non è legata tanto a un tempo prestabilito, quanto piuttosto alla condotta degli uomini, che devono impegnarsi attivamente per migliorare sé stessi e il mondo piuttosto che attendere che un destino inesorabile faccia il suo corso.

5 commenti

  1. Gent. amici, consentitemi di fare una riflessione, in relazione alla “universalità” del significato biblico, scrivete : ” …… la terribile situazione in cui si trova attualmente il popolo d’Israele dopo i recenti attacchi terroristici…….”, mi pare però che manchi una parte del discorso : la terribile situazione in cui si trova attualmente anche il popolo palestinese!Non pensate che l’orrore dei 1500 cittadini israeliani assassinati da Hamassia lo stesso (se non maggiore) dei 20000 palestinesi assassinati dall’esercito israeliano? Certo, alcuni di questi erano tagliagole di Hamas, ma gli altri? Grazie dell’attenzione. Ario G. Benedetti

    1. Buonasera, grazie del tuo commento.
      La frase che hai riportato è tratta da un nostro post che risale allo scorso ottobre, all’indomani del massacro compiuto da Hamas. La controffensiva israeliana era appena cominciata al tempo in cui abbiamo scritto il post.

  2. Arioben, scrivi:

    “Non pensate che l’orrore dei 1500 cittadini israeliani assassinati da Hamassia lo stesso (se non maggiore) dei 20000 palestinesi assassinati dall’esercito israeliano? Certo, alcuni di questi erano tagliagole di Hamas, ma gli altri?”

    Su questo non ci sono dubbi: 1500 cittadini israeliani sono stati assassinati da Hamas.
    Fino a qui ci siamo. Ma dici pure che 20000 palestinesi sono stati a loro volta assassinati.
    Ma da chi?
    Certamente NON dall’esercito israeliano che li ha uccisi nel corso di operazioni di guerra ma NON assassinati. Uccidere e assassinare non sempre hanno il medesimo significato.

    I VERI assassini sono i terroristi di Hamas che si fanno scudo, con pianificata premeditazione, della loro stessa gente dato che le loro postazioni armate sono situate in zone densamente popolate.

    È indiscutibile che responsabilità e colpe siano addebitabili anche agli israeliani, ma il campo di battaglia all’interno dei centri abitati è una scelta di Hamas, come pure è una sua scelta questa guerra: che fine avrebbe?
    Di buttare a mare tutta la popolazione d’Israele e di restituire il territorio ai palestinesi?

    Sono dell’idea che lo scopo reale dell’attacco di Hamas contro Israele, essendo già in partenza del tutto ininfluente sul piano militare, sia unicamente di amplificare per fini politici, tanto tra gli occidentali quanto in tutto il mondo arabo, la stereotipata immagine oppressiva verso i palestinesi da parte della nazione israeliana e, allo stesso tempo, di esaltare all’estremo l’altra tipica immagine dei palestinesi quali vittime di Israele.

    Se questo, come io penso, è il loro obiettivo, è evidente che lo hanno centrato in pieno considerando l’espressione per me molto discutibile da te usata:

    “20000 palestinesi ASSASSINATI dall’esercito israeliano”.

    Salvo errore di memoria da parte mia, furono 20000 anche i civili francesi morti nel giugno 1944, vittime dei bombardamenti alleati sulle strutture militari tedesche in Francia nell’operazione per liberare l’Europa dal tallone nazista.
    Strutture che erano installate dove abitavano cittadini francesi, questi uccisi dalle bombe alleate, ciò è vero, ma di fatto assassinati dai nazisti.

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