La massa eterogenea che era tra il popolo fu presa da bramosia. Anche gli Israeliti ripresero a lamentarsi e a dire: «Chi ci potrà dare carne da mangiare? Ci ricordiamo dei pesci che mangiavamo in Egitto gratuitamente, dei cocomeri, dei meloni, dei porri, delle cipolle e dell’aglio. Ora la nostra vita inaridisce; non c’è più nulla, i nostri occhi non vedono altro che questa manna» (Numeri 11:4-6).
Il brano che leggiamo questa settimana segna l’inizio di una grave crisi che affligge il popolo ebraico nel deserto, e che in seguito culminerà con la tragica condanna a ritardare di quarant’anni l’ambito ingresso nella Terra santa. L’origine di questa crisi si individua nelle continue proteste degli Israeliti, nel distacco sempre maggiore tra il popolo e il suo condottiero (la cui autorità viene più volte contestata), e nella radicale messa in dubbio del valore stesso dell’esodo dall’Egitto, della libertà raggiunta e della Rivelazione di Dio.
La massa eterogenea, da identificare con la grande folla di stranieri che aveva seguito gli Ebrei all’inizio del loro cammino (Esodo 12:38), diffonde nell’accampamento di Israele il desiderio del cibo e stimola la gente a mormorare contro Moshè. Per quanto faticosa potesse essere stata la lunga permanenza nel deserto, appare davvero sorprendente che un popolo di schiavi redenti, testimone di avvenimenti incredibili e reduce da un’elevazione spirituale senza precedenti, possa addirittura arrivare provare nostalgia per il periodo trascorso in Egitto, rimpiangendo l’abbondanza dei pesci e dei frutti della terra fertile del Nilo. Gli antichi Maestri, come è spiegato nel Midrash, suggeriscono che a causare le lamentele del popolo fossero in realtà le limitazioni che la Torah stabilisce nell’ambito sessuale. Il testo dice infatti che le persone piagnucolavano “nelle loro famiglie” (Numeri 11:10), in ebraico lemishpechotav, che si può intendere letteralmente come “per le loro famiglie”, ovvero, secondo la particolare esegesi del Midrash, “a causa della loro vita familiare”. Si tratta di un’interpretazione di natura quasi psicanalitica, che vede in un dettaglio del testo un’allusione ai desideri inconsci del popolo. Ciò che è particolarmente interessante è il nesso proposto dai Maestri tra le lamentele degli Israeliti e le nuove responsabilità morali e religiose imposte dalla Torah, di cui non tutti sono disposti a farsi carico.
La reazione di Moshè a queste proteste è anch’essa alquanto sorprendente:
E Moshè disse al Signore: «Perché hai trattato così male il tuo servo? Perché non ho trovato grazia ai tuoi occhi, tanto che mi hai posto il peso di tutto questo popolo su di me? Sono forse stato io a concepire tutto questo popolo? O sono forse stato io a darlo alla luce, perché tu mi dica: “Portalo nel tuo grembo, come la balia porta il bambino lattante, fino al paese che tu hai promesso con giuramento ai suoi padri”? Dove potrei trovare carne da dare a tutto questo popolo? Poiché continua a piagnucolare davanti a me, dicendo: “Dacci carne da mangiare!”. Io non posso condurre da solo tutto questo popolo; è un peso troppo grave per me. Se è questo il modo con cui mi vuoi trattare, ti prego, uccidimi, se ho trovato grazia ai tuoi occhi (Numeri 11:11-13).
Qualcosa è cambiato nell’animo del grande profeta. Colui che aveva sfidato il Faraone, che aveva già superato molte prove senza scoraggiarsi, e che, soprattutto, nella drammatica vicenda del vitello d’oro, aveva difeso strenuamente la sua gente, fino ad offrire addirittura la propria vita come ammenda, ora appare invece depresso ed esasperato. Di fronte ai nuovi problemi, Moshè mostra la sua vulnerabilità e la sua semplice natura umana, che del resto aveva già mostrato molto tempo prima, davanti al roveto ardente, quando si era ritenuto inadeguato a svolgere la missione affidatagli da Dio: “Mio Signore, io non sono un buon parlatore; non lo sono mai stato prima e neppure da quando tu hai cominciato a parlare al tuo servo […] Perdonami, Signore mio, manda chi vorrai mandare! (Esodo 4:10-13).
Dopo di lui, altri profeti si lasceranno sopraffare dall’angoscia in situazioni difficili. Anche Elia, Giona e Geremia, infatti, chiederanno a Dio di essere privati della vita pur di non sopportare umiliazioni e sofferenze. Tutto ciò ci fa comprendere che le grandi personalità della Bibbia ebraica non sono eroi infallibili o uomini perfetti, bensì personaggi che conservano la loro debolezza, commettono errori e non aspirano ad avvicinarsi neppure minimamente alla natura di Dio. Lo stesso vale anche, all’inverso, per i vari antagonisti ed esempi negativi che compaiono nelle vicende bibliche, poiché nessuno di essi è presentato come un’incarnazione del male assoluto. Questa assenza di “bianco e nero” nella Torah risulta in contrasto con quanto emerge dall’epica di altre culture estranee all’Ebraismo e dalle religioni in generale, in cui l’esaltazione della divinità si traduce spesso, in concreto, nell’esaltazione di figure puramente umane, il cui aspetto carnale è ben nascosto da un’aura di luce metafisica.