Pinchas: eroe o fanatico religioso?

E HaShem parlò a Moshè dicendo: «Pinchas figlio di Elazar, figlio del sacerdote Aaron, ha fatto placare la mia ira nei confronti dei figli d’Israele, poiché egli è stato zelante con il mio zelo in mezzo a loro, così non ho annientato i figli d’Israele con il mio zelo. Perciò digli: “Ecco, io stabilisco con lui un patto di pace, che sarà per lui e per la sua discendenza dopo di lui, il patto di un sacerdozio perpetuo, perché ha avuto zelo per il suo Dio e ha fatto l’espiazione per i figli d’Israele” (Numeri 25:10-14).

La figura di Pinchàs, nipote di Aaron, si distingue e si eleva all’interno di una vicenda cupa e desolante, passando di colpo da una condizione di quasi-anonimato a una di grande onore agli occhi di Dio e del popolo. Ma chi è in realtà questo personaggio, e quale impresa ha compiuto per ricevere una simile ricompensa?

Il capitolo 25 del libro di Bemidbar (Numeri) ci narra di un momento di crisi tanto grave da rievocare il terribile episodio del vitello d’oro: gli Israeliti, accampati presso Shittim, cedono alle lusinghe delle donne moabite, le quali, mettendo in atto un inganno pianificato dallo stregone Bil’am (vedi Numeri 31:16), spingono gli Ebrei verso l’immoralità e li convincono a offrire sacrifici ai loro idoli.

L’apice del degrado religioso e sessuale viene raggiunto nel momento in cui Zimri, capo della tribù di Shimon, conduce apertamente nell’accampamento ebraico una principessa nemica e si unisce a lei nella propria tenda. Tutto ciò avviene dinanzi agli occhi di Moshè e dei giudici del popolo, i quali, però, non reagiscono in alcun modo, ma si limitano a piangere all’ingresso del Tabernacolo. È a questo punto che interviene l’eroe della storia:

E vide ciò Pinchas figlio di Elazar, figlio del sacerdote Aaron, e si alzò in mezzo all’assemblea e prese in mano una lancia, seguì l’uomo d’Israele nella sua alcova e li trafisse ambedue, sia l’uomo d’Israele che la donna, nel basso ventre. E la calamità tra i figli d’Israele fu arrestata (25:7-8).

La vicenda, nel suo sviluppo finale, assume un carattere alquanto scabroso: pur avendo compiuto un atto sanguinario e avendo scavalcato ogni autorità e gerarchia all’interno del popolo, l’impavido Pinchas riceve l’approvazione divina e ottiene addirittura “il patto di un sacerdozio perpetuo”. Com’è possibile che una simile azione sia non solo giustificata, ma anche esaltata?

In realtà, se consideriamo attentamente tutti gli elementi forniti dal testo, l’iniziativa di Pinchas ci apparirà tutt’altro che arbitraria. I capi del popolo che si erano corrotti per volgersi all’idolatria e all’alleanza con i nemici, infatti, erano già stati condannati a morte in precedenza (25:4-5). Il motivo per cui la sentenza non era ancora stata eseguita è da individuare nella passività dimostrata da Moshè e dai giudici, i quali sembravano aver perso ogni controllo sulla difficile situazione.

In questo momento di caos, mentre Israele appare sulla soglia dell’annientamento, Pinchas decide di salvare le sorti del popolo facendo giustizia con le sue mani, dando così un segnale forte in grado di far risvegliare le coscienze e ripristinare l’ordine.

Anche se analizzato sotto questa luce, il racconto mantiene comunque una certa problematicità: la figura di un individuo che si sostituisce ai giudici, punisce i colpevoli con i propri mezzi e viene poi elogiato da Dio, rischia di favorire la diffusione di un’idea distorta della giustizia nelle menti di chi non tiene conto del contesto specifico della vicenda di Pinchas.

Inoltre, l’immagine di un uomo che compie azioni violente spinto da un “fervore sacro” (e quindi, in qualche modo, dalla fede), ci ricorda drammaticamente il moderno fondamentalismo religioso con le sue brutalità perpetrate in nome della religione.

Tali considerazioni non colpiscono solo i lettori dei nostri tempi: gli antichi Maestri, infatti, avevano già percepito il carattere problematico del racconto, come si evince da un’affermazione riportata nel Talmud Yerushalmi (Sanhedrin 9:7), secondo cui Pinchas agì contro il volere dei saggi e rischiò quindi di essere bandito.

Possiamo allora chiederci se la Torah, o la Bibbia in generale, dica qualcosa in più sull’atto di Pinchas e se esista un insegnamento più ampio che da esso si possa trarre.

Nel brano citato all’inizio, rivolgendosi a Moshè, Dio dichiara che Pinchas “è stato zelante con il mio zelo(v. 11). Il termine tradotto con “zelo” corrisponde all’ebraico kinah, che significa principalmente “ardore” o “gelosia”. La parola compare anche nel testo dei Dieci Comandamenti, in cui Dio si autodefinisce El Kanah (“Dio geloso”), per indicare il rapporto di passione e reciproca appartenenza su cui si fonda la relazione del Creatore con Israele.

Dall’espressione “zelante con il mio zelo”, o “geloso della mia gelosia”, possiamo comprendere che Pinchas agisca quasi da “intermediario umano” per scatenare la gelosia divina sui colpevoli, come a voler dare sfogo al sentimento dirompente di Dio, che si placa proprio grazie a questa intermediazione.

Pinchas, tuttavia, non è l’unico “zelante solitario” della Bibbia. Un altro importante personaggio, vissuto circa seicento anni dopo, è associato al concetto di kinah. Si tratta del profeta Eliyahu (Elia), che nel Midrash è paragonato proprio a Pinchas (Pirkè deRabbi Eliezer, 47). Tra le due figure bibliche, i Maestri hanno visto una tale somiglianza che alcune fonti rabbiniche arrivano persino a dichiarare che Pinchas ed Elyahu fossero la stessa persona.

Secondo il Maharal di Praga, tale affermazione, sorprendente sul piano letterale, allude metaforicamente all’affinità spirituale tra i due personaggi.

Eliyahu è un profeta pieno di ardore che, pur vivendo (come Pinchas) in mezzo a un popolo ormai volto in gran parte all’idolatria, rifiuta di accettare compromessi religiosi.

Dopo la celebre quanto incredibile sfida contro i profeti di Baal sul Monte Karmel (1 Re 18:20-40), egli uccise con la spada i suoi avversari (v. 40), suscitando le ire dell’autorità politica del suo tempo, e in particolare della regina Izevel.

Costretto a fuggire nel deserto, Eliyahu si ritrova a compiere un viaggio di quaranta giorni e quaranta notti, senza mangiare né bere, per giungere poi al Monte Chorèv, cioè il Sinai (1 Re 19:8). Qui egli si rifugia in una caverna e assiste a una misteriosa rivelazione divina:

Ed ecco, la parola di HaShem gli fu rivolta e gli disse: «Che fai qui, Eliyahu?». Egli rispose: “Sono stato mosso da una grande gelosia (kinah) per HaShem, Dio delle schiere, perché i figli d’Israele hanno abbandonato il tuo Patto, hanno demolito i tuoi altari e hanno ucciso con la spada i tuoi profeti. Sono rimasto io solo ed essi cercano di togliermi la vita”.
Dio gli disse: “Esci e fermati sul monte, davanti ad HaShem”. Ed ecco, passava HaShem. Un vento forte e impetuoso squarciava i monti e spezzava le rocce davanti ad HaShem, ma HaShem non era nel vento. Dopo il vento un terremoto, ma HaShem non era nel terremoto. Dopo il terremoto un fuoco, ma HaShem non era nel fuoco. Dopo il fuoco una voce, come un dolce sussurro. Come udì questo, Eliyahu si coprì la faccia con il mantello, uscì e si fermò all’ingresso della caverna (1 Re 19:9-13).

Cosa può dirci questo brano a proposito del concetto di kinah? Per comprendere a fondo il senso della rivelazione, è necessario cogliere i vari parallelismi che legano questa vicenda a un’altra rivelazione avvenuta molti secoli prima: quella ricevuta da Moshè dopo il peccato del vitello d’oro, quando egli ottenne le seconde tavole dei Dieci Comandamenti. Le affinità tra le due storie sono piuttosto evidenti:

  • Il luogo, cioè il Monte Sinai/Chorev, è lo stesso in entrambi i racconti.
  • Anche Moshè, come Eliyahu in seguito (1 Re 19:8), rimane quaranta giorni e quaranta notti “senza mangiare pane e senza bere acqua” (Esodo 34:28).
  • A entrambi i profeti viene comandato, con espressioni analoghe, di “fermarsi sul monte, davanti ad HaShem” (Esodo 34:2; 1 Re 19:11).
  • Nel momento della manifestazione divina, i profeti vengono protetti all’interno di uno spazio roccioso: nel caso di Moshè si tratta di una fenditura nella roccia (33:22), mentre in quello di Eliyahu di una caverna (19:9).
  • In entrambe le storie, il testo narra l’apparizione della gloria divina affermando che “HaShem passò” (Esodo 34:6; 1 Re 19:11).

Il forte legame tra i due episodi ci suggerisce quindi che anche il significato della seconda rivelazione sia strettamente connesso a quello della prima.

Moshè, giunto sulla vetta del Sinai dopo aver pregato per il perdono del suo popolo traviato dall’idolatria, riceve da Dio una manifestazione della sua bontà e della sua pietà (33:19). Prima della vicenda del vitello d’oro, il Creatore si era presentato come “Dio geloso (El Kanah), che punisce l’iniquità…” (20:5); ora, in questa nuova rivelazione che segue il peccato, Egli si presenta invece come “HaShem, HaShem Dio, misericordioso e pietoso, lento all’ira, ricco in benignità e fedeltà…” (34:6): la misericordia supera la dura giustizia, e la kinah scompare.

Lo stesso messaggio sembra essere trasmesso anche nel caso di Eliyahu: Dio non si manifesta nel vento impetuoso, nel terremoto o nel fuoco – tre immagini esemplari di violenza –, bensì in un “dolce sussurro”. Ma come reagisce Eliyahu a questo annuncio della misericordia divina? Proseguiamo con la lettura del brano per scoprirlo:

Ed ecco una voce gli disse: “Che fai qui, Eliyahu?”. Egli rispose: “Sono stato mosso da una grande gelosia per HaShem, per il Dio delle schiere, perché i figli d’Israele hanno abbandonato il tuo Patto, hanno demolito i tuoi altari e hanno ucciso con la spada i tuoi profeti. Sono rimasto io solo ed essi cercano di togliermi la vita”. HaShem gli disse: “Va’, ripercorri la strada del ritorno fino al deserto di Damasco; […] ungerai quindi Elisha, figlio di Shafat di Abel-Meholah, come profeta al tuo posto (19:13-16).

Al termine della rivelazione, Dio pone al profeta la stessa domanda di prima: “Che fai qui?”, ed Eliyahu risponde con parole identiche: parla del suo zelo, della sua gelosia, di quell’ardore che ancora lo anima senza sosta, nonostante ciò a cui ha appena assistito. Il “dolce sussurro” non ha avuto effetto: Eliyahu non riesce a mettere da parte la kinah, preferisce vedere Dio nel vento, nel terremoto e nel fuoco. È proprio a questo punto che, non a caso, la voce divina gli comanda di nominare un successore, Elisha (Eliseo), che prenderà il suo posto.

Un vero profeta, come questa storia ci lascia comprendere, deve saper prendere le distanze dal furore dello zelo religioso, riuscire a riconoscere i casi in cui è necessario far prevalere la pazienza e la clemenza piuttosto che il rigore.

L’impresa di Pinchas, positiva nel suo contesto estremo, non diviene dunque un modello da imitare in ogni situazione. A questo proposito, Rabbi Jonathan Sacks afferma che “Lo zelota che prende la legge nelle sue mani intraprende un corso d’azione pieno di pericoli morali. Solo il più santo può farlo, e solo una volta nella vita, e solo nelle più terribili circostanze, quando la nazione è in pericolo, e quando non c’è altro da fare e nessun altro a farlo”.

Persino la ricompensa ricevuta da Pinchas sembra fornirci una conferma di questo insegnamento: dopo il suo atto cruento, l’eroe ottiene da Dio un “patto di pace”, come a dire che la guerra e la violenza scompariranno dal suo futuro. In effetti, in seguito, Pinchas ricomparirà come protagonista in un’altra occasione, cioè nella vicenda narrata nel libro di Giosuè (capitolo 22), in cui un conflitto tra le tribù ad est e ad ovest del Giordano viene evitato grazie al dialogo e alla concordia.

3 commenti

      1. Più che di lettura non approfondita, direi che quella conclusione è il frutto di una lettura finalizzata alla ricerca di “prove” della crudeltà e del sadismo di D.o. Chiaro che quello che uno cerca con tanta passione da dedicarvi addirittura 27 anni, in qualche modo lo trova. In qualche modo, appunto.

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