“Scintille di Torah” è la raccolta di brevi commenti alla parashàh (porzione settimanale di Torah/Pentateuco secondo il ciclo di lettura annuale ebraico) che pubblichiamo ogni settimana sulla nostra pagina Facebook.
Di seguito troverete tutti i commenti al Libro dell’Esodo pubblicati nel 2018.
SHEMOT
“Quando Moshè era cresciuto, avvenne che egli uscì a trovare i suoi fratelli e notò i loro duri lavori; e vide un Egiziano che percuoteva un uomo ebreo, uno dei suoi fratelli. Egli guardò di qua e di là e, visto che non c’era nessuno, uccise l’Egiziano e lo nascose poi nella sabbia” (Esodo 2:11-12).
Moshè, figura centrale del Pentateuco, è un personaggio complesso dalla doppia origine, che inizia la sua carriera andando alla ricerca di una precisa identità. È ebreo per nascita, ma egiziano d’adozione, essendo stato “tratto dalle acque” proprio dalla figlia del sovrano che aveva emesso il decreto di far annegare nel fiume tutti i neonati maschi israeliti.
Essere cresciuto alla corte del Faraone non impedisce però a Moshè di identificarsi con i suoi veri fratelli, gli Ebrei, nel momento in cui nota la violenza operata da un Egiziano ai danni di uno schiavo israelita inerme. Non è la solidarietà nazionale a spingere Moshè a schierarsi dalla parte della vittima: il futuro liberatore d’Israele sceglie infatti la via della giustizia e rigetta l’oppressione a prescindere dall’appartenenza etnica. Egli infatti non esita, il giorno seguente, a rimproverare un Ebreo che litiga con un suo fratello (2:13) e più tardi, a soccorrere le figlie del sacerdote di Midian dalle angherie di alcuni pastori (2:17).
Moshè è presentato dunque come un uomo imparziale che persegue unicamente la giustizia, elevandosi al di sopra delle divisioni etniche e politiche per poter scegliere il bene con piena obiettività. Colui che condurrà gli Israeliti fuori dall’Egitto e che consegnerà loro la Torah non è dunque un patriota, ma un uomo giusto, strappato dalle proprie radici.
VAERÀ
“Moshè e Aharon andarono dunque dal Faraone e fecero come HaShem aveva ordinato. Aharon gettò il suo bastone davanti al Faraone e davanti ai suoi servitori, ed esso diventò un serpente” (Esodo 7:10).
Il mondo del cinema, con le sue raffigurazioni entrate ormai nell’immaginario collettivo, ci ha abituati a pensare ai racconti dell’Esodo come a storie di prodigi e immagini portentose che sconvolgono la natura. Quali significati spirituali e morali si celano però dietro a quelli che a molti sembrano semplicemente “effetti speciali” volti a stupire ed emozionare?
La Torah ci narra che, dinanzi al cospetto del Faraone, il bastone di Aharon si mutò in un Tannìn, termine ebraico che indica sia grandi animali marini che rettili come il coccodrillo e il serpente. Questo vocabolo identifica anche le creature leggendarie che, secondo la mitologia del Vicino Oriente, lottarono contro le divinità del cielo prima della creazione dell’uomo. A questi miti politeisti fa riferimento il profeta Ezechiele in maniera poetica, paragonando allegoricamente il Faraone a uno dei temibili dragoni leggendari per il suo orgoglio e la sua pretesa di farsi adorare come una divinità:
“Così dice il Signore, HaShem: Ecco, io sono contro di te, Faraone, re d’Egitto, grande Tannin, che giaci in mezzo ai tuoi fiumi, che hai detto: «Il mio fiume è mio e l’ho fatto io stesso» (Ezechiele 29:3).
Il Libro dell’Esodo lega quindi insieme due immagini: il bastone, simbolo universale di controllo e autorità, e il Tannin, emblema del Faraone e del potere mitico che si oppone al monoteismo. Questo potere è dunque nella mani di Dio, sotto il controllo del Creatore, proprio come il bastone è nelle mani di Aharon. Il Faraone, che in precedenza aveva dichiarato “Non conosco HaShem e non lascerò andare Israele” (5:2), scoprirà gradualmente di essere soltanto uno strumento nelle mani di una Divinità che gli è del tutto ignota.
BO
“Poiché se ti rifiuti di lasciare andare il mio popolo, ecco domani farò venire delle locuste nel tuo territorio. Esse copriranno l’occhio della terra, così che nessuno potrà vedere la terra” (Esodo 10:4-5).
Tra i flagelli che, secondo il Libro dell’Esodo, furono scagliati contro l’Egitto, quello delle locuste (o cavallette) è certamente uno dei più noti, fino al punto che tutt’oggi la fantasia popolare associa spesso questi animali alla piaga biblica.
La voce divina dichiara letteralmente che le locuste copriranno “l’occhio della terra” (eyn haaretz). Secondo l’antico Targum Onkelos, tale espressione metaforica si riferisce al sole. Ciò si accorda con il continuo del versetto, secondo cui, a causa della piaga, “nessuno potrà vedere la terra”. È interessante notare che l’occhio, nella religione egiziana, era il simbolo delle divinità solari di Horus e Ra. Oltre a divorare i prodotti dei campi e a creare disagio con la loro invasione, le locuste comunicano dunque anche un messaggio teologico: contrastando il potere del sole, l’astro divinizzato per eccellenza, questa piaga dimostra la superiorità del Dio unico di Moshè e Aharon rispetto al pantheon egiziano.
Bisogna inoltre prestare attenzione alla fine a cui le locuste vanno incontro dopo aver compiuto il loro flagello: “E HaShem fece alzare un vento contrario, un vento di ponente molto forte, che portò via le locuste e le precipitò nel Mar Rosso” (10:19).
Se si considera il fatto che la Bibbia menzioni in più occasioni le locuste come metafora di eserciti numerosi (vedi Giudici 6:5; Geremia 51:27; Nahum 3:17), si comprende come l’immagine di questi insetti che annegano nel Mar Rosso sia una chiara prefigurazione del destino che attende le truppe del Faraone nel loro inseguimento fatale degli Israeliti.
BESHALLACH
“Quando il Faraone lasciò andare il popolo, Dio non lo condusse per la via della terra dei Filistei, benché fosse la più breve, poiché Dio disse: «Perché il popolo non si penta, quando vedrà la guerra, e non ritorni in Egitto». Ma Dio guidò il popolo per la via del deserto, verso il Mar Rosso” (Esodo 13:17-18).
La scelta di Dio di non condurre subito verso la terra promessa gli Israeliti appena usciti dall’Egitto, ma di guidarli nel deserto (seguendo un percorso molto più lungo), è presentata nella Torah come se derivasse da motivazioni di carattere pragmatico: il popolo, non ancora pronto ad affrontare militarmente i Filistei e le nazioni di Canaan, avrebbe potuto cedere al timore e fare ritorno in Egitto.
Riflettendo però sulla storia della permanenza degli Israeliti nel deserto nella sua globalità, comprendiamo però che la scelta di questo itinerario non sia motivata unicamente dal semplice bisogno di raggirare il pericolo bellico, ma da ragioni ben più profonde.
Il deserto è un luogo di perenne incertezza, dove i mezzi di sussistenza scarseggiano e non esiste una fonte di vita paragonabile al Nilo, che rendeva il suolo dell’Egitto simile al giardino dell’Eden per la sua fertilità (Genesi 13:10). Nel deserto, vivendo nella desolazione e nella mancanza di risorse, il popolo d’Israele impara dunque a riconoscere nel Creatore la sola vera fonte della sua sopravvivenza e sussistenza, e a comprendere che Dio non è solo Colui che interviene con i suoi giudizi per punire nazioni empie come l’Egitto, ma anche Colui che è presente nella vita quotidiana dei suoi servi per mantenerli in vita.
La lezione del deserto sarà poi ricordata da Geremia, che parlando agli abitanti di Gerusalemme dichiarerà: “Così dice HaShem: Io mi ricordo di te, della tenera attenzione della tua giovinezza, dell’amore al tempo del tuo fidanzamento, quando mi seguisti nel deserto, in una terra non seminata” (Geremia 2:2).
YITRÒ
“E Dio pronunciò tutte queste parole, dicendo: «Io sono HaShem, il tuo Dio, che ti ha fatto uscire dalla terra d’Egitto, dalla casa degli schiavi” (Esodo 20:1-2).
Il fatto che i Dieci Comandamenti (o meglio, le “Dieci Parole”) costituiscano una proclamazione rivoluzionaria nella storia della religione e della cultura è senza dubbio evidente. L’idea di un’unica Divinità che rifiuta di essere rappresentata attraverso immagini, e di essere identificata con una delle forze e dei fenomeni della natura, segna una novità sconvolgente nel contesto del mondo antico interamente intriso di politeismo. Altrettanto nuova e sbalorditiva appare l’istituzione di un giorno di riposo settimanale obbligatorio per l’intera nazione, un precetto animato da un sorprendente spirito egualitario.
Cosa possiamo dire però dei Comandamenti relativi ai rapporti tra l’uomo e il suo prossimo? Secondo Cassuto, anche le proibizioni dell’omicidio, dell’adulterio e del furto, che oggi ci appaiono pressoché ovvie, rappresentano una notevole innovazione che non va sottovalutata. Al contrario di come avveniva nelle tradizioni giuridiche degli altri popoli antichi, infatti, il Decalogo formula tali proibizioni in maniera assoluta, come principi solenni che compongono il fondamento del Patto tra Dio e Israele, senza esprimere alcuna eccezione e limitazione nell’osservanza di tali precetti nella vita pratica.
Per la prima volta nella storia, gli obblighi dell’uomo nei confronti dei propri simili non sono intesi come semplici norme civili volte a preservare l’ordine nella società, ma come imperativi essenziali dettati dall’alto, che si dispongono in parallelo con gli obblighi che l’uomo ha nei confronti del suo Creatore.
MISHPATIM
“Non maltratterete lo straniero e non l’opprimerete, perché anche voi foste stranieri nella terra d’Egitto” (Esodo 22:21).
Chi è lo “straniero” di cui si parla in questo verso?
In ambito ebraico, e soprattutto all’interno di discorsi halachici, una tendenza oggi molto diffusa è quella di identificare il gher (“straniero”) con il proselita, ossia colui che si è convertito all’Ebraismo. Alcuni traduttori scelgono addirittura di incorporare tale interpretazione nel testo biblico, traducendo il verso in questo modo: “Non maltratterete il convertito e non l’opprimerete”.
Sul piano letterale e contestuale, questa lettura è però alquanto anacronistica: se infatti all’epoca del Secondo Tempio (e in quelle successive) era certamente possibile parlare di “convertiti all’Ebraismo”, non si può dire lo stesso dell’epoca del Sinai e dell’antico regno di Israele, quando la Torah era una Legge e non una religione formalizzata.
Rashi, commentando il nostro versetto, spiega: “Ogni utilizzo del termine gher (גֵּר) indica una persona che non è nata in un certo paese, ma vi è giunta da un altro luogo per soggiornarvi”.
Il gher è dunque qualsiasi forestiero, colui che ha lasciato la sua terra d’origine, come Abramo quando disse agli Hittiti: “Io sono uno straniero (gher) e un residente (toshav) fra voi” (Genesi 23:4).
La proibizione di opprimere lo straniero è animata quindi da un principio di ospitalità che supera l’etnia e la provenienza, non da un semplice obbligo di rispettare chi ha da poco accettato la fede ebraica. Non a caso, il versetto è posto subito dopo la severa condanna scagliata contro coloro che si volgono all’adorazione di divinità pagane (Esodo 22:20): la Torah mette in guardia gli Israeliti contro le pratiche idolatriche, ma li esorta anche a non commettere l’errore di discriminare gli individui delle popolazioni tra le quali tali pratiche hanno avuto origine.
.TETZAVÈ
“E Aharon porterà i nomi dei figli d’Israele incisi nel pettorale del giudizio, sul suo cuore, quando entrerà nel Santuario, in ricordo perenne davanti ad HaShem.
Metterai sul pettorale del giudizio gli Urim e i Tummim; e staranno sul cuore di Aharon quando egli si presenterà davanti ad HaShem. Così Aharon porterà il giudizio dei figli d’Israele sul suo cuore davanti ad HaShem, in perpetuo” (Esodo 28:29-30).
Gli Urim e i Tummim, menzionati in questo brano per la prima volta, costituiscono uno dei più misteriosi tra gli elementi legati al mondo dell’antico sacerdozio israelitico descritto dalla Torah.
Il Libro dell’Esodo non spiega che forma avessero questi strumenti, né quale fosse la loro funzione. In Numeri 27:21 leggiamo tuttavia che il sommo sacerdote Eleazar “consultava” gli Urim al cospetto di Dio. Dal verso di 1 Samuele 28:6 apprendiamo poi che gli Urim, insieme ai “sogni” e ai “profeti”, erano uno dei tre mezzi utilizzati per ricevere risposte dall’Altissimo. Sembra quindi che questi enigmatici termini identifichino degli strumenti impiegati per conoscere la volontà divina.
Come è noto, l’arte di indovinare e predire il futuro era molto diffusa fra i popoli dell’antichità, ed era considerata una fonte di grande potere. A questo scopo, i sacerdoti delle diverse religioni ricorrevano alla magia, interpretavano i segni del cielo, seguivano il volo degli uccelli ed esaminavano le interiora degli animali.
In riferimento a queste pratiche, la Torah proibisce la divinazione con la massima severità: “Non si trovi in mezzo a te […] chi pratichi la divinazione, né indovino, né chi interpreta presagi, né chi pratica la magia” (Deut. 18:10). Eppure, nonostante tale divieto, la fede d’Israele accoglie comunque in una certa misura il naturale desiderio umano di ricevere risposte dalla volontà che governa l’universo. Gli Urim e i Tummim sono dunque una forma limitata e demitizzata di divinazione, consentita solo al sommo sacerdote, e solo per motivi di rilevanza nazionale che coinvolgano l’intero popolo. Da quanto possiamo dedurre dalle fonti bibliche, sembra che il ricorso a tali strumenti sia andato gradualmente a diminuire, fino a scomparire del tutto già all’epoca della costruzione del Secondo Tempio.
KI TISSÀ
“E tutto il popolo staccò gli anelli d’oro che avevano ai loro orecchi e li portò ad Aharon, il quale li prese dalle loro mani e, dopo aver modellato [l’oro] con il cesello, ne fece un vitello di metallo fuso. Allora essi dissero: «O Israele, questo è il tuo dio che ti ha fatto uscire dal paese d’Egitto!»” (Esodo 32:3-4).
In cosa consiste il terribile peccato del vitello d’oro commesso dagli Israeliti ai piedi del Sinai?
Certamente si tratta di un peccato di idolatria. Oltre a disobbedire al comando divino da poco ascoltato, che proibiva esplicitamente l’adorazione di “dèi d’argento e dèi d’oro” (20:23), il popolo cade anche nel disonore che ogni culto idolatrico comporta: quello di degradare la dignità eccelsa dell’essere umano (creato a immagine di Dio) prostrandosi davanti a un’oggetto inanimato privo di qualsiasi valore trascendente. Ciò è quanto afferma il Salmo 106, rievocando l’antica disobbedienza degli Israeliti:
“Fecero un vitello in Horeb e adorarono un’immagine di metallo fuso, e mutarono la loro gloria con l’immagine di un bue che mangia l’erba. Dimenticarono Dio, loro salvatore, che aveva fatto cose grandi in Egitto” (Salmi 106:19-21).
Esiste tuttavia anche un altro elemento problematico spesso sottovalutato: secondo Esodo 32:6, il giorno dopo aver fabbricato il vitello, il popolo “si adagiò per mangiare e bere, poi si alzò per divertirsi”. Il verbo letzachek (“divertirsi”) indica generalmente la risata o un atteggiamento frivolo. Rashi e altri commentatori hanno posto enfasi su questo verso affermando che gli Israeliti si abbandonarono a licenziosità e persino alla violenza fisica.
Questo dettaglio ci fa comprendere che il peccato degli Israeliti non derivava soltanto dal bisogno religioso di rivolgere la propria devozione verso un’immagine tangibile della Divinità, ma anche dalla voglia di sovvertire i valori trasmessi da Moshè per trasformare il culto in un pretesto per indulgere in comportamenti mondani e immorali.
VAYAKEL-PEKUDEI
“Allora la nuvola coprì la tenda di convegno e la gloria di HaShem riempì il Tabernacolo. E Moshè non poté entrare nella tenda di convegno, perché la nuvola vi si era posata sopra e la gloria di HaShem riempiva il Tabernacolo” (Esodo 40:34-35).
Come alcuni dei nostri lettori certamente ricorderanno, in passato abbiamo notato i parallelismi che legano insieme la descrizione del Tabernacolo (Mishkàn) al racconto della Creazione della Genesi, e che fanno apparire il Santuario edificato dagli Israeliti nel deserto come una sorta di riflesso o di controparte umana dell’universo creato da Dio in principio (leggi questo articolo per approfondire).
Grazie a Nachmanide, sappiamo però che il Tabernacolo ha anche un altro significato, che emerge in modo particolare dai versi dell’Esodo che abbiamo appena citato.
La manifestazione della presenza divina nel Mishkan è presentata con espressioni che rievocano l’apparizione della gloria divina sul Monte Sinai: “E Moshè salì sul monte e la nuvola ricoprì il monte. E la gloria di HaShem rimase sul monte Sinai” (24:15-16).
Nel Tabernacolo, proprio come sulla cima del Monte Sinai, Moshè non può accedere (a causa della nube) a meno che non sia espressamente convocato da Dio (40:34; 24:16).
Le Tavole del Patto, consegnate sul Sinai, sono poi custodite all’interno dell’Arca, nel luogo più sacro del Tabernacolo: sembra quindi che il Mishkan sia una rappresentazione in miniatura del Sinai, o una “versione portatile” del monte, grazie alla quale la Rivelazione può proseguire durante gli anni di peregrinazioni degli Israeliti nel deserto. La manifestazione della presenza divina non cessa con l’esperienza del Sinai, ma continua attraverso il Mishkan per poi trovare, in futuro, una sede stabile con la costruzione del Tempio a Gerusalemme.
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