I sacerdoti e il potere politico

cohanim

Nel seguente brano, tratto dall’opera Israele e l’umanità, Elia Benamozegh descrive la natura del sacerdozio nell’antico Israele, affrontando la questione della relazione tra il potere politico e il potere religioso dal punto di vista biblico ed ebraico.

L’opinione secondo cui il governo ebraico nell’antico Israele fosse una teocrazia è ancora ampiamente diffusa. Tale opinione implica che, come nelle teocrazie dell’Egitto e dell’India, il potere supremo, le principali cariche pubbliche e persino la maggior parte del territorio e della ricchezza fossero nelle mani dei sacerdoti. Ma Joseph Salvador ha già dimostrato che nulla potrebbe essere più contrario ai testi delle Scritture e alla storia del popolo ebraico. In Israele, l’unica missione del sacerdote era quella di occuparsi dei sacrifici e di custodire il testo della Torah allo scopo di preservarlo nella sua integrità. Per quanto riguarda i beni materiali, il sacerdote non aveva alcuna proprietà; egli viveva solo delle decime e delle offerte sacrificali. In ogni altro aspetto, tuttavia, i sacerdoti erano soggetti, come diremmo oggi, alla legge comune, e condividevano i medesimi obblighi dei loro connazionali. Erano quindi giudicati dagli stessi tribunali e pagavano anche le stesse tasse.

Chi era dunque il sacerdote in Israele? Per rispondere a questa domanda dobbiamo risalire alle origini di questa istituzione. Non c’è alcun dubbio sul fatto che, fino ad un certo periodo che seguì l’esodo dall’Egitto, le funzioni sacerdotali erano affidate ai primogeniti di ciascuna famiglia. Secondo alcuni Saggi, la situazione rimase tale fino alla costruzione del Tabernacolo; questa è l’opinione della Mishnah. Altri rabbini credono invece che Aronne e i suoi figli assunsero il sacerdozio già al tempo della Rivelazione sul Sinai.
Il cambiamento nel concetto del sacerdozio ha subito lo stesso percorso che porta le semplici famiglie a trasformarsi in federazioni di tribù. Fino a quando Israele era solo un insieme di famiglie, il ruolo di sacerdote spettava al primogenito. Persino tra i figli di Giacobbe, la dignità sacerdotale sarebbe stata attribuita a Ruben (il primogenito), se il suo peccato non lo avesse reso indegno di assumere un tale ruolo. Così un’altra tribù, quella di Levi, subentrò al posto di Ruben, e divenne, all’interno della grande famiglia degli Israeliti, ciò che ogni primogenito era per la propria casa prima che il popolo ebraico diventasse una nazione, cioè la parte di Israele consacrata in modo particolare a Dio e dedita al servizio divino. In altre parole, il primogenito (e in seguito il sacerdote), era il rappresentante di un intero gruppo di persone davanti al Signore. Allo stesso modo, il primogenito del bestiame era offerto come sacrificio a Dio, come anche le primizie dei campi, e come le decime prelevate dai prodotti della terra.
Questa corrispondenza armoniosa fra tutte le fasi dell’evoluzione storica di Israele ha anche un riscontro nella relazione tra il popolo ebraico e l’intero genere umano. In un famoso passo di Geremia, infatti, il popolo eletto è definito come la parte consacrata (terumah) dell’umanità:  “Israele è consacrato al Signore, è la primizia del suo raccolto” (Geremia 2:3).

Possiamo ora comprendere che il sacerdozio ebraico ricopriva una funzione di grande importanza nel proteggere Israele dai pericoli della teocrazia: il sacerdote, piuttosto che essere il rappresentante di Dio fra tutto il popolo, è invece il rappresentante del popolo al cospetto di Dio. I Leviti assunsero questo ruolo rappresentativo al posto dei primogeniti nell’esecuzione dei riti religiosi. Nessuno avrebbe mai potuto pensare che il primogenito fosse il rappresentante di Dio nella famiglia, piuttosto che il membro della casa consacrato all’adorazione di Dio. Colui che aveva il compito di offrire i sacrifici era anche egli stesso un sacrificio: i due ruoli risultano inseparabili. Alcuni critici hanno addirittura suggerito che la consacrazione dei primogeniti fosse subentrata al posto di ciò che prima era un vero sacrificio umano. […]

Per la sua origine e le sue caratteristiche, il sacerdozio israelitico si avvicina maggiormente agli ideali moderni che ai concetti che prevalevano nell’antichità. Un’analisi delle sue funzioni ci mostra quanto esso sia più simile ai valori occidentali che a quelli del mondo orientale. Queste funzioni consistevano nel servizio dei lavori necessari ai riti del Tempio e all’adorazione pubblica. Non esisteva alcun potere sacerdotale o autorità al di fuori di questi doveri particolari; e non dobbiamo perdere di vista il fatto che persino queste stesse funzioni sacerdotali erano eseguite in virtù di una sorta di delegazione dell’autorità da parte dei primogeniti di ciascuna famiglia. […]

Dove risiedeva dunque l’autorità somma in Israele? Apparteneva forse a un uomo o a una stirpe detentori del potere supremo? L’idea stessa di una Rivelazione che abbraccia ogni aspetto della vita, sia pubblico che privato, esclude tale possibilità. Una Rivelazione dal carattere così totale non potrebbe parlare attraverso un’entità singola di qualsiasi genere, sia un re che un sacerdote. La ragione di ciò è già stata dimostrata: né il re né il sacerdote possiedono un’autorità illimitata, poiché entrambi devono agire in una sfera ben definita, e le loro funzioni sono circoscritte da limiti invalicabili.
L’autorità suprema non risiede neppure in una classe privilegiata, un’oligarchia o un’aristocrazia, né tanto meno nella totalità degli Israeliti, o almeno non nel senso di un potere assoluto affidato alla popolazione nella sua interezza, poiché ciò porterebbe alla legittimazione di tutto ciò che il popolo decide. Tuttavia, in qualità di legittimo interprete della Rivelazione, il popolo esercita la propria sovranità nell’ambito in cui ciascun individuo è qualificato ad agire, secondo la regola stabilita.
Se dunque nell’Ebraismo l’autorità somma non spetta ai sacerdoti, ai re, a un’elite, e neppure all’intera comunità, allora a chi appartiene? Unicamente a Dio; il che significa, ricorrendo a un concetto moderno, alla ragione somma e al bene assoluto. Dio è il solo legislatore, e il popolo è il suo unico interprete sulla terra. Non è importante se alcuni scelgono di chiamare questo sistema con il nome di teocrazia. Se il termine viene usato, come spesso avviene, nel senso di “governo dei sacerdoti”, non potrebbe esserci nulla di più remoto dal pensiero ebraico. Ma se comprendiamo la parola teocrazia nel suo significato etimologico, cioè “governo di Dio”, allora appare chiaro, come ha osservato Giuseppe Flavio, che il governo di Israele fosse una vera teocrazia, probabilmente (come noi riteniamo) l’unica che sia mai esistita.
Per avere un’autentica teocrazia, secondo la concezione israelitica, è necessario il riconoscimento di qualcosa che sta al di sopra della semplice volontà umana. Il dispotismo, in tutte le sue forme, deve essere rigettato. Bisogna invece affermare la credenza nell’autorità sovrana dei principi assoluti di giustizia e moralità, indipendenti da qualsiasi tipo di interesse personale, sia da parte dell’individuo che da parte della comunità. […]

Dio è il Re, e il popolo è il Suo profeta: questa è la vera teocrazia ebraica. L’autorità somma appartiene a Dio e non al sacerdote, ed è esercitata dal popolo attraverso i suoi rappresentanti ufficiali nei diversi gradi, assieme ai sacerdoti e al re.

Elia Benamozegh, Israele e l’umanità, tradotto dalla versione inglese.

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