Le figlie di Tzelofechad si presentarono davanti a Moshè, davanti al sacerdote Eleazar, davanti ai principi e a tutta l’assemblea all’ingresso della tenda di convegno e dissero: «Nostro padre morì nel deserto, ma non fu nel gruppo di coloro che si radunarono contro Hashem nel gruppo di Korach, ma morì a motivo del suo peccato senza avere figli [maschi]. Perché dovrebbe il nome di nostro padre scomparire dal mezzo della sua famiglia per non aver avuto figli? Dacci un’eredità tra i fratelli di nostro padre» (Numeri 27:1-4).
In un mondo arcaico dove le leggi elevano l’uomo al di sopra della donna, nel contesto di un’antica società patriarcale, l’audace richiesta delle figlie di Tzelofechad presentata in questo brano può apparire come l’espressione di un desiderio di uguaglianza fra i sessi, con tremila anni di anticipo rispetto alla nascita del femminismo moderno. Un desiderio che, dopo essere stato manifestato al cospetto dei capi del popolo, trova anche l’approvazione della voce imparziale di Dio, come si legge nel continuo del racconto: “E Hashem parlò a Moshè dicendo: «Le figlie di Tzelofechad dicono bene. Sì, tu darai loro in eredità una proprietà tra i fratelli del loro padre e farai passare ad esse l’eredità del padre” (Numeri 27:8). E così cinque donne intraprendenti ottengono il diritto ad ereditare i possedimenti del padre defunto, un diritto dal quale, se avessero taciuto, sarebbero state invece escluse a causa dell’arcaico sistema patriarcale.
Ma c’è davvero uno spirito femminista ad animare questa vicenda? È forse lecito tentare di proiettare valori e concetti del mondo di oggi sulle pagine di un testo che ha visto la luce in tempi più che remoti?
Se si legge attentamente l’intero racconto, risulta piuttosto facile comprendere che l’intento delle figlie di Tzelofechad non era quello di conquistare l’uguaglianza dei diritti per donne e uomini. La richiesta viene infatti presentata solo in conseguenza del fatto che Tzelofechad era morto senza aver generato figli maschi (Numeri 27:3). Se dunque fossero esistiti dei legittimi eredi di sesso maschile, le cinque donne non avrebbero avanzato alcuna rivendicazione. Il loro obiettivo non era neppure di natura economica: non cercavano di ottenere un guadagno per sé stesse, ma di mantenere in vita il nome del loro genitore (Numeri 27:4).
Il nome, nella Bibbia e nella cultura di molti popoli, rappresenta spesso ciò che rimane dell’uomo sulla terra dopo la sua morte, cioè la sua memoria, la continuità della sua esistenza nella società. Secondo questa antica concezione, un padre che muore lasciando la propria terra ai figli riesce nell’intento di far sopravvivere il suo nome attraverso la discendenza. Chi invece abbandona questo mondo senza aver generato eredi non riceve il privilegio di tramandare la propria memoria alla generazione successiva.
I primi ad essere esclusi da un onore tanto ambito erano ovviamente gli sterili e i castrati, in quanto impossibilitati a riprodursi. Proprio per dare conforto agli eunuchi che osservano fedelmente la Legge divina, Dio promette attraverso il Profeta Isaia: “Darò loro nella mia casa e dentro le mie mura un posto e un nome, che varranno meglio di quello dei figli e delle figlie; darò loro un nome eterno che non sarà mai cancellato” (Isaia 56:5).
L’istituzione del Levirato e le leggi relative al riscatto delle terre vendute dai proprietari originari sono due vie prescritte dalla Torah per venire incontro all’esigenza umana di perpetuare il proprio nome attraverso le generazioni. Vicende e tematiche legate a queste usanze ricorrono in molti luoghi della Bibbia, in particolare nel libro di Ruth: “Allora Boaz disse agli anziani e a tutto il popolo: «Voi siete oggi testimoni che io ho acquistato dalle mani di Naomi tutto ciò che apparteneva a Elimelech, a Kilion e a Machlon. Inoltre ho preso per moglie Ruth, la Moabita, moglie di Machlon, per far rivivere il nome del defunto nella sua eredità, perché il nome del defunto non si estingua tra i suoi fratelli»” (Ruth 4:9-10).
Qual era il ruolo della donna in tutto ciò? Nei casi più comuni, dopo il matrimonio, la donna lasciava la casa di suo padre ed entrava a far parte della famiglia del marito. Quando ella dava alla luce dei figli, questi prendevano il “nome” del loro padre e ne ereditavano i possedimenti. Mentre l’onore del marito consisteva nel tramandare la propria terra e la propria memoria ai posteri, l’onore della moglie stava invece nel generare una discendenza che perpetuasse il nome della famiglia dell’uomo, della quale la donna era divenuta parte integrante.
La storia delle figlie di Tzelofechad ci pone tuttavia davanti a un caso particolare. A causa della mancanza di eredi maschi, il nome dell’uomo defunto sembra destinato inevitabilmente a dissolversi nelle sabbie della storia, poiché i suoi possedimenti sarebbero passati per legge nelle mani dei suoi fratelli e delle loro famiglie. Le cinque donne comprendono che ciò non è giusto, e si impegnano per tutelare la memoria del loro padre: “Perché dovrebbe il nome di nostro padre scomparire dal mezzo della sua famiglia per non aver avuto figli?”. Secondo quanto suggeriscono le figlie di Tzelofechad, garantire la continuità del “nome” è più importante del rispetto delle tradizionali leggi sull’eredità. La loro situazione rivela il conflitto che esiste tra l’assetto della società patriarcale e il principio della pari dignità dei due sessi in quanto creati da Dio. Di conseguenza, la Torah accoglie la loro richiesta e concede alle cinque sorelle (e a tutte le donne che si ritroveranno in casi analoghi) di poter diventare eredi, proprio come gli uomini.
L’opera di esegesi rabbinica denominata Sifrei dedica una riflessione profonda alla questione che abbiamo analizzato:
Quando le figlie di Tzelofechad udirono che la terra stava per essere divisa tra i maschi e non tra le femmine, si riunirono insieme per consultarsi e dissero: «La misericordia degli uomini non è come la misericordia di Dio. La misericordia degli uomini si volge più verso i maschi che verso le femmine. Ma Colui che ha creato il mondo non agisce allo stesso modo. La sua misericordia è ugualmente per i maschi e per le femmine. la sua misericordia è per tutti, come è scritto [nei Salmi]: Dio è buono con tutti e la Sua misericordia è per tutte le Sue creature»“.
Naftali Tzvi Yehuda Berlin, noto come Netziv, commenta il brano del Sifrei con queste parole:
“La logica [delle figlie di Tzelofechad] potrebbe apparire fallace poiché esse sapevano già che le donne non ereditano in presenza di un discendente maschio. Ciò non rappresenta una mancanza di misericordia, poiché le figlie sposeranno degli uomini e condivideranno la loro eredità. Ma la vera spiegazione è la seguente: un uomo prova un grande dolore nel vedere che la propria eredità è consegnata agli estranei e che il suo nome viene eliminato dall’eredità. Quando esiste un figlio maschio, le figlie non provano dispiacere nel vedere che questi ricevono l’intera eredità. Ma se non ci sono figli maschi, e gli estranei ottengono l’intera porzione, allora ne scaturisce un grande dolore”.
Da tutte queste riflessioni sembra scaturire un principio di grande rilevanza: le consuetudini sociali, in primo luogo quelle legate al sistema patriarcale, valgono finché non diventano causa di ingiustizia. Se le usanze e le norme della società oscurano i valori della Torah, allora esse non possono essere applicate in maniera fissa, come invece imporrebbe una rigida applicazione della legge. Per questo, fin dai tempi dei Maestri del Talmud, l’Ebraismo ha rinunciato a seguire alla lettera le disposizioni sull’eredità che erano comuni in epoca biblica, e ha sviluppato procedure legali che consentono di distribuire l’eredità in modo equo tra maschi e femmine, sempre rimanendo all’interno dei parametri della normativa religiosa.