Scintille di Torah: Levitico

Scintille di Torah” è la raccolta di brevi commenti alla parashàh (porzione settimanale di Torah/Pentateuco secondo il ciclo di lettura annuale ebraico) che pubblichiamo ogni settimana sulla nostra pagina Facebook.
Di seguito troverete tutti i commenti al Libro del Levitico pubblicati nel 2018.

VAYIKRA

“Qualsiasi oblazione farinacea che presenterete ad HaShem sarà senza lievito; poiché di nessun lievito, né di alcun miele, dovete ardere un sacrificio per HaShem” (Levitico 2:11).

Quando si parla dei riti sacrificali prescritti dalla Torah, spesso si pensa immediatamente a concetti quali l’espiazione della colpa e il perdono dei peccati. Contrariamente a questa idea tanto diffusa, il Levitico si apre con le disposizioni relative a due tipi di sacrifici che non hanno nulla a che fare con il peccato: il Korbàn Olàh (“offerta elevata”) e il Korbàn Minchàh (“offerta farinacea”). In entrambi i casi, si tratta di sacrifici volontari, liberamente offerti da chiunque desiderasse eseguire questi riti presso il Tabernacolo.
Il Korban Olah, che consisteva nell’offerta di un capo di bestiame o di un volatile, era un’espressione di pura riverenza. L’archetipo di questa tipologia di offerta è l’Akedat Yitzchak, il sacrificio di Isacco (per il quale la Genesi utilizza proprio il termine “olah”), che rappresenta il totale riconoscimento del fatto che la vita umana e l’esistenza di ogni creatura appartengono in definitiva soltanto a Dio. L’animale ucciso nel Santuario svolge perciò una funzione vicaria, subentrando in sostituzione di colui che offre il sacrificio.
Il Korban Minchah, che non prevede spargimento di sangue, comunica un messaggio complementare: non solo la vita, ma anche tutto ciò che l’uomo possiede, il suo nutrimento e le sue fonti di sostentamento, appartengono a Dio. L’oblazione farinacea è quindi un tributo volto a manifestare tale concezione religiosa. Si comprende così il motivo per cui la Torah proibisce di aggiungere lievito e miele a questo tipo di sacrificio: un’espressione di umiltà e di devozione non può essere accompagnata da un elemento come il lievito, che rappresenta copiosità e orgoglio, o dal miele, uno dei simboli della ricchezza della Terra d’Israele.


TZAV

“Questa è la legge del sacrificio di pace, che si porterà ad HaShem” (Levitico 7:11).

La settimana scorsa, parlando del Korban Olah, abbiamo visto come la concezione biblica dei sacrifici non sia sempre connessa all’espiazione di una colpa o all’assoluzione dal peccato. Il Korban Olah, in quanto espressione di timore reverenziale e di pura devozione, è tuttavia pur sempre un rito svolto in un’atmosfera di somma austerità: l’individuo che si presenta al Santuario annulla il proprio ego dinanzi a Dio, offrendo simbolicamente la sua stessa vita come sacrificio.
Esiste però un’altra categoria di offerta, anch’essa del tutto svincolata dai concetti di peccato e di trasgressione. Si tratta dei sacrifici chiamati Shelamìm, presentati spontaneamente (o anche obbligatoriamente, in particolari circostanze) per rendere grazie alla Divinità o per celebrare un lieto evento.
Il nome Shelamìm, come riporta Rashi, deriva da Shalom (pace, completezza), poiché chi offre tale sacrificio “diffonde la pace nel mondo” (Torat Kohanim, Nedavah 15:1-2).
Piuttosto che al timore o alla devozione, gli Shelamim sono associati alla gioia e a uno spirito festoso, come si legge in alcuni brani:

“Offrirai sacrifici di pace, e là mangerai e gioirai davanti ad HaShem, il tuo Dio” (Deut. 27:7).
“Il popolo offrì davanti ad HaShem sacrifici di pace; e là Shaul e tutti gli uomini d’Israele si rallegrarono grandemente” (1 Samuele 11:15).

Quando un Israelita si presentava al Santuario per offrire un sacrificio di pace, il grasso dell’animale veniva bruciato sull’altare, mentre la sua carne veniva consumata in parte dai sacerdoti e in parte dall’offerente e dalla sua famiglia. Gli Shelamim erano quindi un’occasione di condivisione e comunione da cui nascevano sentimenti di gioia e riconoscenza.


SHEMINÌ

“L’ottavo giorno, Moshè chiamò Aharon, i suoi figli e gli anziani d’Israele” (Levitico 9:1).

Il nome di questa parashah, Sheminì, significa “ottavo”, e fa riferimento all’ottavo giorno di inaugurazione del Tabernacolo nel deserto, cioè il giorno in cui la presenza divina si manifestò davanti a tutto il popolo nel Santuario appena consacrato.
Studiando la Torah fino a questo punto, abbiamo avuto modo di riflettere in molte occasioni sul significato del numero sette, la cifra della completezza e della perfezione. Nel Levitico, però, a ricevere maggiore importanza sembra essere il numero otto, che compare infatti sempre più spesso, benché comunque in relazione al sette:

  • Aharon e i suoi figli rimangono per una settimana nella tenda di convegno, finché la gloria divina non si manifesta l’ottavo giorno (8:35 – 9:1).
  • Secondo la parashah successiva, una donna che partorisce un figlio maschio resta in uno stato di impurità per sette giorni. L’ottavo giorno il bambino viene poi circonciso (12:1-3).
  • Il processo di purificazione dalla tzaarat (19:9-10) prevede una fase preliminare di sette giorni a cui fa seguito il raggiungimento della purità completa nell’ottavo giorno.
  • Lo stesso schema temporale vale anche per altri tipi di purificazione (15:13-14; 28-29).

Qual è dunque il significato simbolico del numero otto?
Rav Samson Raphael Hirsch, commentando il verso di Levitico 9:1, spiega che il conteggio di sette giorni rappresenta un ciclo completo che si conclude, mentre l’ottavo giorno costituisce un nuovo inizio, proprio come il concetto di ottava nella musica. Quindi l’ottavo giorno non è un apice o un pinnacolo, ma l’inaugurazione di un ciclo del tutto nuovo, che si sviluppa su un livello più alto.
L’esempio della circoncisione illustra molto bene questa idea: nel suo ottavo giorno di vita, il bambino entra in una nuova condizione religiosa e accede al mondo del Patto e delle mitzvot della Torah. Allo stesso modo, la manifestazione della gloria di Dio nel Tabernacolo non è il completamento della consacrazione avvenuta nel corso di un’intera settimana, ma l’inizio di una nuova realtà: quella della vita di un popolo chiamato a far dimorare la presenza del Sovrano dell’universo nel proprio accampamento.


TAZRIA – METZORA

“Se una donna è rimasta incinta e partorisce un maschio, sarà impura per sette giorni, come nei giorni delle sue mestruazioni. […] Poi ella resterà ancora trentatré giorni a purificarsi del sangue: non toccherà alcuna cosa sacra e non entrerà nel Santuario, finché non siano compiuti i giorni della sua purificazione. Se invece partorisce una bambina, sarà impura per due settimane, come al tempo delle sue mestruazioni; e resterà sessantasei giorni a purificarsi dal sangue” (Levitico 12:2-5).

Tra le tante domande che sorgono nella mente di chi legge questa parashah, una in particolare può far nascere molte perplessità e gravi fraintendimenti: per quale motivo il periodo di impurità di una madre che partorisce una figlia femmina ha una durata doppia rispetto a quello di chi dà alla luce un maschio? Questa disparità deriva forse da una discriminazione contro il sesso femminile?
Non è possibile rispondere a questa domanda se non si comprende prima la vera natura dei concetti di “puro” (tahòr) e “impuro” (tamè) nella Bibbia.
Come spiega Nachmanide, tutte le diverse forme di impurità di cui parla il Levitico hanno un denominatore comune: esse riguardano infatti la morte (il contatto con un cadavere o con una carcassa rende impuri), la privazione della forza vitale (emissione seminale, mestruazioni), o una condizione che ci avvicina alla morte (come nel caso della malattia cutanea chiamata “tzaraat”). Il parto, in questo contesto, non fa eccezione: mentre il bambino viene alla luce assolutamente puro, la sua nascita causa però la fine di quel sistema vivificante che ha permesso alla madre di generarlo. A questo proposito, Rav Yoel Bin-Nun spiega: “Il rivestimento dell’utero, la placenta, l’intero sistema che ha nutrito il feto, ora termina la sua funzione e muore”. Da questo fenomeno quasi paradossale deriva l’impurità che la donna contrae al momento del parto.
Nel caso in cui il neonato sia una femmina, tale impurità è dunque doppia, poiché doppia è la forza vitale di cui la madre viene privata: anche la figlia, infatti, ha in sé lo stesso potenziale che le permetterà, in futuro, di generare una vita a sua volta.


ACHAREI MOT – KEDOSHIM

“HaShem disse ancora a Moshè: «Parla a tutta la comunità dei figli d’Israele, e di’ loro: Siate santi, perché io, HaShem vostro Dio, sono santo. Rispetti ciascuno sua madre e suo padre, e osservate i miei Sabati. Io sono HaShem vostro Dio” (Levitico 19:1-3).

La parashah di Kedoshìm si apre con un solenne richiamo alla santificazione collettiva, a cui fa seguito una lunga lista di leggi di natura sia etica che rituale.
Nel Midrash Vayikra Rabbah, Rabbi Levi afferma che in questa parashah sono inclusi i Dieci Comandamenti. In effetti, non è difficile notare che molti precetti ed esortazioni morali presenti in questo brano rappresentino una nuova formulazione delle “dieci espressioni” già proclamate sul Sinai. “Rispetti ciascuno sua madre e suo padre” e “osservate i miei Sabati” sono alcuni degli esempi più chiari citati dal Midrash a tal proposito.
È interessante però notare che ciò che il Levitico propone non è una semplice ripetizione dei Dieci Comandamenti, ma un vero e proprio commento che elabora e amplia il Decalogo dell’Esodo.

Il lapidario imperativo “Non uccidere” si trasforma qui in un’ammonizione contro chi non si preoccupa di salvaguardare la vita dei propri simili: “Non te ne starai inerte davanti al sangue del tuo prossimo, Io sono HaShem” (19:16).
Il comandamento “Non rubare” viene esteso qui per includere anche l’inganno e la menzogna (v. 11), e per imporre l’assoluta onestà negli affari (vv. 35-36).
Mentre nell’Esodo si legge “Non farai falsa testimonianza”, il Levitico dichiara: “Non andrai a diffondere calunnie fra il tuo popolo” (v. 16), estendendo così il comandamento anche al di fuori del contesto puramente giuridico.
Se la frase “Io sono HaShem, il tuo Dio, che ti ha fatto uscire dalla terra d’Egitto”, con cui si apre il testo dei Dieci Comandamenti, potrebbe sembrare soltanto un’affermazione di natura storica e teologica, il Levitico ci porta in una dimensione più profonda e pone l’idea del Dio liberatore come fondamento di un principio etico: “Quando uno straniero risiede con voi nel vostro paese, non lo maltratterete. Lo straniero che risiede fra voi, lo tratterete come colui che è nato fra voi; tu l’amerai come te stesso, poiché anche voi foste stranieri nella terra d’Egitto. Io sono HaShem, il vostro Dio” (vv. 33-34).
Siamo dunque davanti a una sorta di auto-commentario attraverso cui la Torah spiega e approfondisce le sue stesse leggi per offrirci una comprensione più completa dei precetti.


EMOR

“Quando mieterete il raccolto della vostra terra, non mieterai fino ai margini il tuo campo e non raccoglierai le spighe lasciate indietro del tuo raccolto: le lascerai per il povero e per lo straniero. Io sono HaShem, il vostro Dio” (Levitico 23:22).

Questo precetto compare nel Levitico all’interno della sezione dedicata alle festività, precisamente tra le norme relative ai riti di Shavuot (23:15-21) e quelli della “festa delle trombe” (23:23-25), oggi nota come Rosh HaShanah.
Per quale motivo un precetto legato alla giustizia sociale e alla compassione per i poveri è inserito fra versetti che parlano unicamente di rituali, sacrifici, celebrazioni e assemblee solenni? Si può certamente rispondere affermando che, essendo Shavuot la festa della mietitura, la Torah concluda il brano relativo a questa festività riportando un comandamento che riguarda proprio tale processo agricolo.
Una motivazione più radicale risiede tuttavia nello stretto legame che la Torah stabilisce fra le leggi religiose e quelle di natura etica, o in altre parole, ricorrendo alla terminologia rabbinica, fra le mitzvot “tra l’uomo e Dio” (bein Adam laMakom) e quelle “tra l’uomo e un suo simile” (bein Adam lechaverò).
Un precetto come quello di lasciare parte del raccolto ai poveri e ai forestieri trova il suo posto accanto ai rituali e ai sacrifici poiché devozione religiosa e sensibilità etica camminano fianco a fianco. Questo concetto diviene ancora più evidente quando, in questa stessa parashah, le leggi relative alle lesioni fisiche e all’omicidio seguono immediatamente la condanna della bestemmia (24:15-22).

Questa lezione della Torah non è sempre stata compresa e interiorizzata. Oggi, infatti, si afferma spesso che essere “religiosi” significhi soprattutto dedicarsi alla preghiera, mangiare solo cibi permessi, osservare lo Shabbat e indossare i Tefillin. Il supporto offerto agli indigenti e alle minoranze è invece comunemente associato a una moralità “laica” e a un impegno sociale che prescinde dalla fede. Contro tale concezione si leva l’eco delle parole che nella Genesi Dio pronuncia a proposito di Abramo: “Poiché io l’ho scelto, affinché egli ordini ai suoi figli e alla sua stirpe dopo di lui di osservare la via di HaShem e di agire con giustizia e diritto” (18:19).

BEHAR – BECHUKKOTAI

“Quando entrerete nel paese che io vi do, la terra dovrà avere il suo Sabato consacrato ad HaShem. Per sei anni seminerai il tuo campo e poterai la tua vigna e ne raccoglierai i frutti, ma il settimo anno sarà come Sabato, un riposo assoluto per la terra, un Sabato in onore di HaShem; non seminerai il tuo campo e non poterai la tua vigna. […] Ciò che la terra produrrà durante il suo riposo servirà di nutrimento a te, al tuo servo, alla tua serva, al tuo bracciante e allo straniero che è presso di te. Anche al tuo bestiame e agli animali che sono nel tuo paese servirà di nutrimento quanto essa produrrà” (Levitico 25:1-8).

L’istituzione della Shemittah (Anno Sabbatico) non ci ricorda forse il socialismo? Condividere la ricchezza, condonare i debiti, godere equamente della proprietà… forse sì. Sembra che la Torah proponga un sistema che includa al suo interno elementi del capitalismo e del socialismo.
Per sei anni lavoriamo seguendo i principi del mercato libero, con la competizione e l’ambizione che stimolano ogni moderna economia. Comprare, vendere, costruire una società, assumere lavoratori: è in questo modo che le persone si arricchiscono. Tuttavia, conosciamo fin troppo bene i lati negativi del capitalismo: l’estrema povertà, l’enorme divario tra le classi ricche e quelle povere, da cui derivano piaghe come la crisi del sistema educativo, il crimine e i problemi sociali che affliggono le classi svantaggiate.
Come possiamo assicurarci che la società non si divida tra i due estremi rappresentati dai senzatetto e dai grandi imprenditori? Come possiamo concepire un sistema che offra opportunità ai poveri in modo che essi possano uscire dal baratro, affinché un “sottoproletariato” non si sviluppi per diventare una caratteristica permanente della società?
Forse un capitalismo temperato dal socialismo in un rapporto di 6 a 1 non è una cattiva idea. Forse è proprio un simile bilanciamento di elementi ciò che potrà assicurarci di vivere in una società sana in cui ogni singolo cittadino sia in grado di prosperare.

Tratto da un commento di Rav Alex Israel, da noi tradotto in italiano.

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