Torah Scritta vs Torah Orale – Il caso dei Tefillin

Tra gli usi religiosi più noti e rappresentativi dell’Ebraismo c’è sicuramente il precetto dei Tefillìn, gli astucci di cuoio in cui sono contenute delle pergamene che riportano alcuni versi della Torah. Ogni mattina, tranne che nei giorni di Shabbat e delle maggiori festività, gli Ebrei osservanti li indossano legandoli sulla testa e sul braccio, seguendo una precisa procedura rituale.

Ma qual è l’origine di questi strumenti sacri? La tradizione rabbinica sostiene che l’obbligo di indossare i Tefillin sia espresso nel testo della Torah:

E queste parole che oggi ti comando rimarranno nel tuo cuore. Le insegnerai ai tuoi figli, ne parlerai quando sei seduto in casa tua, quando cammini per strada, quando sei coricato e quando ti alzi. Le legherai come un segno alla tua mano, saranno come un frontale fra i tuoi occhi, e le scriverai sugli stipiti della tua casa e sulle tue porte (Deuteronomio 6:6-9).

In questo e in altri tre brani (Esodo 13:9; 13:16; Deut. 11:8), la Torah esorta ogni Israelita a legare le parole divine sulla propria mano e a porle come totafòt (termine misterioso, spesso tradotto con “frontali”) o zikharòn (“ricordo”) fra gli occhi.

Da un confronto con altre espressioni scritturali, come vedremo, possiamo però comprendere che i versi appena citati non prescrivono realmente di indossare degli oggetti sulla mano e sulla fronte. È possibile dunque affermare che, in merito ai Tefillin, la tradizione non rifletta coerentemente il significato del testo biblico?

Un’antica metafora biblica

Nel libro dei Proverbi (3:1-3), in riferimento alla sapienza che i genitori insegnano ai figli per condurli sulla via della giustizia, l’autore dichiara: “Figlio mio, non dimenticare il mio insegnamento e il tuo cuore custodisca i miei precetti […] legali intorno al tuo collo, scrivili sulla tavola del tuo cuore”.

Nel Cantico dei Cantici (8:6), analogamente, la donna protagonista del poema dice al suo amato: “Mettimi come un sigillo sul tuo cuore, come un sigillo sul tuo braccio; poiché l’amore è forte come la morte”.

Le espressioni qui impiegate, molto simili a quelle che troviamo nei brani della Torah da cui i rabbini fanno derivare il precetto dei Tefillin, vanno ragionevolmente intese in senso poetico e metaforico. Porre degli insegnamenti (nel caso dei Proverbi) o l’amore per una persona (nel Cantico) come un sigillo sul cuore e sul braccio significa figurativamente stabilire un legame profondo e imprimere nella propria mente un ricordo costante. Allo stesso modo, la Torah comanda di riflettere sui precetti e sugli eventi dell’Esodo per tramandarne la memoria, affinché ogni Ebreo possa legarsi in perpetuo alle parole divine. L’osservanza dei comandamenti diviene così come un prezioso ornamento da indossare in modo che sia sempre visibile a tutti.

Su questa interpretazione metaforica, che appare in contrasto con il pensiero rabbinico tradizionale, si sono soffermati due grandi studiosi e commentatori medievali della Torah, Rashbam e Ibn Ezra, proponendo ciascuno un proprio approccio esegetico.

Ibn Ezra: Torah Scritta e Torah Orale non possono contraddirsi

Rabbi Abraham Ibn Ezra (1089 – 1167), conosciuto come uno degli studiosi più attenti al senso letterale (p’shat) della Torah, commentando il verso di Esodo 13:9, scrive:

“E sarà per te come un segno sulla mano e un ricordo tra i tuoi occhi – vi sono due possibili spiegazioni. La prima è alla maniera del verso “legali intorno al tuo collo, scrivili sulla tavola del tuo cuore” (Proverbi 3:3). In questo caso,  la parola “segno” è come un simbolo. […] Ciò significa che dovrai preservare [le parole della Torah] nel tuo cuore e tramandarle ai tuoi figli. […]
E la seconda spiegazione è secondo il suo significato [letterale], cioè di fare dei Tefillin per la mano e per la testa. E dal momento che i nostri Saggi hanno adottato questa via, la prima spiegazione non è valida, poiché non ha un testimone attendibile [a suo sostegno] come la seconda”.

In altre parole, Ibn Ezra rigetta l’interpretazione metaforica pur citando il verso dei Proverbi che la avvalora. Secondo il suo approccio, che si fonda sul rifiutare qualsiasi contraddizione fra il testo biblico e la legge rabbinica, non è possibile attribuire a questi versi qualsiasi significato se non quello espresso dai Saggi del Talmud.

Rashbam: Torah Scritta e Torah Orale non coincidono

Rashbam (Rabbi Shmuel ben Meir, 1085 – 1158), contrariamente a Ibn Ezra, ammette serenamente la possibilità che esistano divergenze anche notevoli tra le parole della Bibbia e quelle dei Maestri. Pur riconoscendo come autorevoli e vincolanti le disposizioni rabbiniche in merito ai precetti, Rashbam ritiene che la Torah Scritta e la Torah Orale costituiscano due universi in qualche modo indipendenti, ciascuno con dei propri significati. Commentando il medesimo passo dell’Esodo, egli spiega infatti:

“Come un segno sulla mano – secondo il significato fondamentale, [la parola della Torah] deve essere un ricordo costante per te, come se fosse scritta sulla tua mano. Similmente [è scritto]: “Mettimi come un sigillo sul tuo cuore” (Cantico 8:6).
Tra i tuoi occhi – cioè come un gioiello o un nastro d’oro che di solito si mette sulla fronte come decorazione.

L’approccio di Rashbam, senza dubbio molto interessante per la sua obiettività, genera però una seria problematica religiosa. Riconoscendo che il senso più autentico delle Scritture non coincida con l’interpretazione canonica della Legge da parte dei Maestri, egli infatti crea un paradosso etico per cui l’Ebreo sarebbe chiamato a osservare i precetti così come concepiti dalla tradizione rabbinica, pur con la consapevolezza che a volte tale concezione non rispecchia fedelmente il testo della Torah.

Due universi che comunicano tra loro

Una soluzione al problema sorto dall’interpretazione di Rashbam può essere quella di scorgere il profondo rapporto che unisce il mondo della Torah Scritta a quello della Torah Orale.

Come spiega Rav Yehuda Rock, la Halakhah (legge rabbinica) non è né un riflesso fedele del testo biblico, né un organismo da esso autonomo: tra questi due universi esiste invece una relazione complessa. Talvolta, il compito della Halakhah è quello di formalizzare i principi stabiliti dalla Torah Scritta per renderli attuabili nella realtà quotidiana.

Nel caso dei Tefillin, si può affermare che questi speciali astucci sacri abbiano proprio la funzione di dare espressione concreta al principio espresso poeticamente dal testo della Torah: indossando i Tefillin, l’Ebreo non fa altro che comunicare a sé stesso e al mondo che i precetti divini sono impressi nella sua mente e custoditi nella sua memoria per essere messi in pratica. Attraverso gesti evocativi e simboli visibili, l’Ebreo adempie l’esortazione contenuta nella Torah in maniera emblematica, entrando fisicamente in simbiosi con i comandamenti.

L’interpretazione rabbinica delle parole “un segno sulla mano” e “un frontale tra i tuoi occhi” non è dunque ingenua né erronea: si tratta invece di un’interpretazione che permette al popolo ebraico di esprimere materialmente il proprio impegno verso l’osservanza dei precetti per dare una forma tangibile a ciò che rimane pur sempre un proposito interiore.

Approfondimento: i “Tefillin” del Sommo Sacerdote

Una teoria piuttosto diffusa in ambito accademico sostiene che la pratica di indossare i Tefillin derivi in realtà da una rilettura in chiave mistico-superstiziosa delle espressioni metaforiche della Torah. Come suggerisce il Dott. Yehudah Cohn in un suo articolo, in epoca ellenistica, i Maestri avrebbero rielaborato l’imperativo biblico a porre le parole divine “sulla mano e sulla fronte” creando degli strumenti simili a talismani, divenuti poi noti come Tefillin.

Dal Commentario di Umberto Cassuto al Libro dell’Esodo possiamo tuttavia dedurre che il precetto dei Tefillin non sia da ricondurre all’influenza della cultura ellenistica; il suo fondamento sembra trovarsi invece all’interno della Torah stessa.

Secondo Esodo 28:29, il Cohèn Gadòl (Sommo Sacerdote) doveva indossare una piastra ricamata detta “Pettorale del Giudizio” (Choshen Mishpat) su cui erano incastonate dodici pietre preziose, una per ogni tribù d’Israele. Il Sommo Sacerdote, afferma il testo, “porterà i nomi dei figli d’Israele incisi nel Pettorale del Giudizio, sul suo cuore, quando entrerà nel Santuario, in ricordo perenne davanti ad HaShem”.

Inoltre, il Cohen Gadol doveva indossare anche un ornamento d’oro puro da legare al turbante, su cui erano incise le parole Kodesh LaHaShem, cioè “Sacro per HaShem” (Esodo 28:36). Tale ornamento, chiamato Tziz, doveva restare “continuamente sulla sua fronte per rendere graditi [i figli d’Israele] davanti ad HaShem” (28:38).

Questi accessori sacri, posti sul cuore e sulla fronte, svolgono la funzione di “ricordo costante”. Essi sono al contempo simboli, oggetti concreti e richiami per la memoria: tutti elementi che ritroviamo non a caso nei Tefillin indossati da ciascun Israelita.

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