Il libro delle Lamentazioni (Meghillàt Eichàh), tradizionalmente attribuito al profeta Geremia, è il testo centrale della liturgia di Tishà beAv, il giorno in cui si ricorda la distruzione del Primo e del Secondo Tempio di Gerusalemme.
Scritto duemilacinquecento anni fa, proprio al tempo della conquista babilonese della città santa, il libro si presenta come una raccolta di componimenti poetici a tratti davvero strazianti, con richiami agli orrori dell’esilio, delle stragi e dell’oppressione.
Ma la Meghillat Eichah non è una cronaca né una semplice testimonianza diretta di fatti storici: è un testo religioso che vuole fornire una risposta teologica alla grave catastrofe della rovina di Gerusalemme, ed è in questo intento che risiede la sua importanza. In altre parole, si tratta di una riflessione sulla sofferenza dal punto di vista della fede.
Come spiega Rav Alex Israel in una sua lezione su Eichah, i primi tre capitoli del libro ci presentano in successione tre prospettive differenti, come tre ottiche diverse sullo stesso tragico evento, ciascuna con un proprio messaggio sul rapporto tra Dio e l’uomo alla luce della sventura.
Capitolo 1: il peccato e la sua pena
Le strade di Sion sono in lutto, perché nessuno più viene alle feste solenni, tutte le sue porte sono deserte, i suoi sacerdoti sospirano, [...] i suoi nemici prosperano, perché HaShem l'ha afflitta per la moltitudine delle sue trasgressioni (Lamentazioni 1:4-5).
Fin dai primi versi, la voce afflitta dell’autore indica un legame diretto tra le sofferenze che la nazione subisce e il peccato di cui essa si è macchiata: Gerusalemme merita il castigo che le viene inflitto dall’ira divina, poiché ha infranto i comandamenti.
La città stessa, personificata secondo il linguaggio poetico del testo, prende la parola e dichiara: “HaShem è giusto, perché mi sono ribellata alla sua parola. […] Le mie viscere fremono, il mio cuore è sconvolto dentro di me, perché sono stata grandemente ribelle” (1:18-20).
Anche quando si rivolge a Dio, la città non chiede perdono e non invoca misericordia. Tutto ciò che può fare è ammettere la propria colpa (1:20) e chiedere al Creatore di usare la stessa severità per punire anche i suoi avversari malvagi (1:22).
Come scrive Alex Israel, in questo primo capitolo “il tono prevalente e l’atmosfera giustificano Dio. Il capitolo è animato dal tema della giustizia e del giudizio”. Siamo dunque davanti a un tipo di approccio religioso che oggi molti riterrebbero insensibile, basato sull’indicare la vittima quale responsabile delle sciagure in cui si ritrova.
Capitolo 2: Dio come un nemico
Il Signore è divenuto come un nemico: ha divorato Israele, ha divorato tutti i suoi palazzi, ha distrutto le sue fortezze, ha moltiplicato nella figlia di Giuda cordoglio e lamento (2:5).
Mentre nel primo capitolo la distruzione di Gerusalemme è descritta come un’opera compiuta materialmente dagli eserciti avversari (seppure quale conseguenza del decreto del Giudice universale), questa volta la poesia biblica ci presenta Dio stesso come un guerriero spietato che tende il suo arco contro Israele (v. 4) e compie grandi devastazioni in prima persona.
Abbiamo qui una visione più aspra ed emotivamente coinvolta da cui emerge un forte sgomento e una maggiore empatia nei confronti delle vittime:
Guarda, HaShem, e considera. Chi hai trattato in questo modo? Dovevano le donne mangiare il frutto del loro grembo i bambini che accarezzavano? Dovevano il sacerdote e il profeta essere massacrati nel santuario del Signore? Ragazzi e anziani giacciono a terra per le strade; le mie vergini e i miei giovani sono caduti di spada, tu li hai uccisi nel giorno della tua ira, li hai massacrati senza pietà (1:20-21).
In questi drammatici versi, il testo non evidenzia più le colpe del popolo, né giustifica le sofferenze come il prodotto inevitabile del peccato. Al contrario, l’autore arriva quasi ad accusare Dio, mostrandogli gli orrori inauditi che colpiscono anche gli innocenti. L’ammonimento moralistico del primo capitolo si è trasformato nella protesta di un sopravvissuto sconvolto.
Capitolo 3: il ritorno della fede
Nel terzo capitolo, a prendere la parola è una nuova personificazione del popolo ebraico: un individuo che si identifica come “l’uomo che ha conosciuto l’afflizione” (3:1), e racconta di essere stato colpito da Dio, perseguitato e deriso. Malgrado ciò, egli dichiara di non aver perduto la speranza:
Poiché il Signore non rigetta per sempre, ma, se affligge, avrà compassione, secondo la moltitudine delle sue misericordie. Poiché non è volentieri che umilia ed affligge i figli degli uomini (3:31-33).
A ben vedere, la voce che ora si esprime accetta il punto di vista del primo capitolo, ammettendo che le sventure subite derivano dagli errori e dai crimini compiuti (3:39-40), ma al contempo condivide anche la disperazione per la sorte terribile degli oppressi (3:48-49). Oltre a rappresentare una sintesi delle due prospettive precedenti, questo nuovo protagonista introduce nel libro una novità essenziale poiché confida nel riscatto e invoca per la prima volta la clemenza divina:
Ho invocato il tuo nome, o HaShem, dal fondo della fossa. Tu hai udito la mia voce, non nascondere il tuo orecchio al mio sospiro, al mio grido di aiuto. Quando ti ho invocato ti sei avvicinato, mi hai detto: «Non temere!». Signore, tu hai difeso la causa della mia anima, tu hai redento la mia vita (3:55-58).
Superando dunque sia il cinismo del primo capitolo, sia la desolazione e la sfrontatezza del secondo, in una sorta di “elaborazione del lutto”, il testo ricompone l’equilibrio della coscienza ebraica facendo rinascere la speranza delle redenzione dalle ceneri di un disastro che sembrava irreversibile.
La ferita rimarginata
Secondo Rav Alex Israel, le diverse prospettive che abbiamo appena individuato nei primi tre capitoli della Meghillat Eichah rispecchiano “tre risposte conflittuali al disastro e alla sofferenza”, che non derivano soltanto da una differenza di mentalità, ma dal mutamento del contesto storico.
Una simile evoluzione è illustrata a questo proposito in un brano del Talmud (Yoma 69b):
“Mosè disse [nella sua preghiera]: «Dio grande, potente e grandioso». Venne poi Geremia e disse: «Le nazioni stanno devastando il suo Tempio: dov’è la sua grandiosità?» Perciò egli non lo chiamò ‘grandioso’. Venne poi Daniele e disse: «Le nazioni hanno reso schiavi i suoi figli, dov’è la sua potenza?» Perciò egli non lo chiamò ‘potente’. Vennero gli uomini della Grande Assemblea [dopo la ricostruzione del Tempio] e dissero: «Al contrario! Proprio qui sta la sua più grande potenza: Egli sopprime la sua ira e mostra la sua pazienza verso i malvagi. E qui sta la sua grandiosità: se non fosse per la grandiosità del Santo Benedetto, come potrebbe una sola nazione (Israele) sopravvivere tra tante nazioni [che la odiano]?”
Con queste parole, i Saggi d’Israele ci mostrano come la concezione di Dio e del suo rapporto con l’uomo possa legittimamente mutare dinanzi a una tragedia come la distruzione del Tempio, vissuta in maniera diretta da due figure illustri come Geremia e Daniele. Soltanto in un secondo momento, con il rimarginarsi di ferite tanto profonde, è possibile superare il trauma, la rabbia, lo sconcerto e la confusione, per ritrovare una serenità che non cancella però il ricordo del dolore.