Daniele – Parte 5: Le quattro bestie e il piccolo corno

Daniel disse: «Io guardavo, nella mia visione notturna, ed ecco scatenarsi sul Grande Mare i quattro venti del cielo. Quattro grandi bestie salirono dal mare, una diversa dall'altra (Daniele 7:2-3).

Dopo essere riusciti a decodificare la visione dell’ottavo capitolo di Daniele (vedi l’articolo “Il montone e il capro“), facciamo un passo indietro e analizziamo il capitolo precedente, la famosa visione delle quattro bestie.

Questo brano è senza dubbio più criptico del successivo, anche perché in esso non viene nominata espressamente alcuna nazione. Avendo però già letto e compreso il capitolo 8, dovremmo essere in una certa misura agevolati. Tuttavia, come vedremo, per quanto le due visioni appaiano simili, esiste la possibilità che esse si riferiscano almeno in parte a eventi diversi.

Il contenuto della visione

Il saggio Daniel vede nel suo sogno quattro creature terrificanti comparire l’una dopo l’altra: un leone con ali d’aquila, a cui però vengono strappate le ali e viene dato “un cuore d’uomo” (7:4); un orso famelico che “si alzava da un lato” (7:5) e si appresta a divorare molta carne; un leopardo con quattro ali e quattro teste che riceve il dominio. Infine, con particolare enfasi, il testo descrive l’arrivo di una quarta bestia:

Dopo ciò, io guardavo nelle visioni notturne, ed ecco una quarta bestia spaventosa, terribile e straordinariamente forte. Essa aveva grandi denti di ferro, divorava, stritolava e calpestava il resto con i piedi. Era diversa da tutte le bestie precedenti e aveva dieci corna. Stavo osservando le corna, quand'ecco in mezzo ad esse spuntò un altro piccolo corno, davanti al quale tre delle prime corna furono divelte; ed ecco in quel corno c'erano degli occhi simili a occhi di uomo e una bocca che proferiva grandi cose (7:7-8). 

A questo punto, Daniel assiste a una manifestazione della gloria divina (7:9-10). Avviene allora il giudizio contro la quarta bestia, che viene uccisa e bruciata. Sulle nubi del cielo compare “uno simile a un essere umano” (7:13), che riceve da Dio un dominio perpetuo “affinché tutti i popoli, nazioni e lingue lo servano” (7:14).

Anche questa volta, il testo ci fornisce già una parziale spiegazione attraverso la voce di una misteriosa figura angelica che aiuta Daniel a interpretare la visione. Scopriamo così che le quattro bestie, proprio come le varie parti della statua del sogno di Nevukadnetsar, rappresentano quattro regni che si affermeranno sulla terra. In merito alla quarta bestia e alla sua sconfitta, l’angelo spiega:

La quarta bestia sarà un quarto regno sulla terra, che sarà diverso da tutti i regni e divorerà tutta la terra, la calpesterà e la stritolerà. Le dieci corna sono dieci re che sorgeranno da questo regno. Dopo di loro ne sorgerà un altro, che sarà diverso dai precedenti e abbatterà tre re. Egli proferirà parole contro l'Altissimo, perseguiterà i santi dell'Altissimo e penserà di cambiare i tempi e la Legge. I santi saranno dati nelle sue mani per un tempo, dei tempi e la metà di un tempo. [...] Poi il regno, il dominio e la grandezza dei regni sotto tutti i cieli saranno dati al popolo dei santi dell'Altissimo (7:23-27).

L’interpretazione storica

Molti studiosi ritengono che questa visione, analogamente a quella del montone e del capro, si riferisca al periodo compreso tra l’esilio degli Ebrei a Babilonia (VI secolo a.e.v.) e la rivolta dei Maccabei (II secolo a.e.v.).

Tale interpretazione è oggi condivisa da quasi tutto il mondo accademico, ma in ambito ebraico era stata elaborata già nel XIV secolo da Rabbi Hayyim Galipapa, ed è stata adottata dagli autori del commentario Daat Mikrà e da Rav Yaakov Medan.

Ecco dunque a chi corrispondono le quattro bestie secondo questa lettura:

  • Il leone: il regno di Babilonia, già raffigurato dalla testa d’oro della statua (2:38). Le ali strappate e il cuore d’uomo si riferiscono all’umiliazione di Nevukadnetsar descritta nel quarto capitolo di Daniele, laddove si legge anche che al re fu dato “un cuore di bestia” al posto del suo “cuore d’uomo” (4:16).
  • L’orso: il regno dei Medi. Si fa notare a questo proposito che, secondo Daniele 5:30-31, con la morte dell’ultimo re babilonese, a prendere il potere fu un certo “Dario il Medo”.
  • Il leopardo: l’impero persiano fondato da Ciro. Alcuni associano le sue quattro teste ai quattro re di Persia a cui si allude in Daniele 11:2.
  • La quarta bestia: la Grecia, e in particolare l’impero macedone di Alessandro Magno, con le sue formidabili conquiste.

Il piccolo corno è identificato dunque con Antioco Epifane, sovrano del regno seleucide (sorto dalla divisione dell’impero di Alessandro), il quale si proclamò una divinità e cercò di “cambiare i tempi e la Legge” (7:25) obbligando gli Ebrei ad abbandonare la Torah. Le dieci corna sarebbero allora i re che si susseguirono dalla fondazione della dinastia seleucide fino ad Antioco. In realtà, questi re furono non meno di undici, ma si ritiene che il 10 sia riportato come cifra simbolica.

Le tre corna distrutte dal piccolo corno sono intese come un’allusione alla conquista del potere da parte di Antioco: egli iniziò a regnare infatti dopo l’uccisione di suo fratello Seleuco da parte di Eliodoro e dopo aver fatto uccidere lo stesso Eliodoro, per poi sopprimere infine anche suo fratello minore Seleuco IV.

Il personaggio “simile a un essere umano” che riceve il dominio da Dio è identificato con il popolo giudaico (“il popolo dei santi dell’Altissimo“, secondo la spiegazione del testo), o con il suo “rappresentante spirituale”, un concetto che ritroviamo altrove nel Libro di Daniele (12:1). La sconfitta della quarta bestia corrisponderebbe perciò alla vittoria dei Maccabei contro i Seleucidi, con l’instaurazione di un regno ebraico indipendente.

Tale regno, come è noto, non ebbe davvero un potere universale, né tantomeno durò in perpetuo. Questa difficoltà è risolta dagli esegeti in vari modi:

  • In ambito accademico, da una prospettiva laica, si afferma che il brano fu scritto durante la guerra contro Antioco per incoraggiare la nazione ebraica o per celebrare i successi dei Maccabei. L’auspicio di un “regno eterno” rifletterebbe allora questo clima di fervore religioso e politico.
  • Interpretando in modo alternativo le espressioni del testo, Rabbi Hayyim Galipapa spiega che la visione attribuisce a questo regno una durata lunga, non eterna, e afferma che il regno dei Maccabei corrisponde a tale definizione, dal momento che durò “per un intero Giubileo”.
  • In accordo con le parole di Geremia secondo cui l’adempimento delle profezie è vincolato alla condotta degli uomini (Geremia 18:9-10), Rav Yaakov Medan sostiene che la miracolosa vittoria dei Maccabei rappresentò l’inizio di una potenziale Redenzione definitiva, ma la successiva corruzione del governo ebraico causò la fine di questo sogno.
Le quattro bestie raffigurate nella Merian’s Illustrated Bible (1627).

I punti deboli dell’interpretazione

In base a quanto abbiamo detto finora, la visione delle quattro bestie sembra allinearsi perfettamente a quella del montone e del capro, culminando anch’essa con la vittoria dei Maccabei.

Le convergenze tra i due capitoli sono impossibili da ignorare: anche qui troviamo un piccolo corno blasfemo che si oppone a Dio e al suo popolo. Anche questo corno prevale inizialmente, per essere poi sconfitto. Persino l’espressione “un, tempo, dei tempi e la metà di un tempo”, che con ogni probabilità significa “tre anni e mezzo”, è compatibile con il periodo di “duemilatrecento sere e mattine” che abbiamo trovato al capitolo 8.

E tuttavia qualcosa non torna: per far sì che la Grecia corrisponda alla quarta bestia, da cui spunta il piccolo corno (Antioco), è necessario identificare il leopardo con la Persia e l’orso con la Media. Eppure, nel Libro di Daniele, i Medi e i Persiani appaiono sempre congiunti: come abbiamo visto, nella visione successiva sono entrambi rappresentati dal montone con due corna, delle quali “una (la Persia) era più alta dell’altra (la Media)” (8:3).

La postura asimmetrica dell’orso, che “si alzava da un lato” (7:5) sembra rimandare proprio alla natura duplice e “sbilanciata” dell’impero medo-persiano.

I due popoli sono menzionati insieme anche in Daniele 5:28, dove si legge che a sconfiggere Babilonia furono “i Medi e i Persiani”; e al capitolo 6 si parla più volte della “legge dei Medi e dei Persiani” (6:8; 12; 15). È possibile allora che questi due regni congiunti siano indicati come due bestie diverse? (La Media, in fondo, al contrario di tutti gli altri regni menzionati, non ha mai dominato su Israele).

Se, alla luce di ciò, identifichiamo l’orso con l’impero medo-persiano, il leopardo corrisponderà allora all’impero di Alessandro: ciò appare coerente, dal momento che questa creatura ha quattro teste, come i quattro regni ellenistici di cui si parla anche al capitolo 8; si tratta inoltre di un animale molto veloce, per di più in questo caso alato, caratteristiche difficilmente riferibili alla Persia, ma che si addicono all’espansione fulminea dell’impero greco, e che rievocano la descrizione del capro (Alessandro) che si muove “senza toccare il suolo” (8:5).

Problematica è anche l’identificazione della quarta bestia con la Grecia, poiché nella descrizione di questa creatura temibile mancano due elementi caratteristici del capro: la velocità e la divisione in quattro del suo impero (elementi che si ritrovano invece entrambi nel leopardo!)

Che dire allora della quarta bestia? Ed è forse possibile ipotizzare che il piccolo corno, che al capitolo 8 era indubbiamente Antioco, sia in questo caso un personaggio diverso, malgrado tutte le analogie?

L’opinione del commentario più antico

Se vogliamo proseguire su questa strada alternativa e ricercare un’interpretazione diversa della visione, possiamo appellarci alla testimonianza del più antico commentario mai scritto al Libro di Daniele: il primo libro dei Maccabei.

In che senso il libro dei Maccabei sarebbe un commentario a Daniele? Non si tratta piuttosto di un’opera storica? Certamente, eppure abbiamo motivo di ritenere che il suo autore non solo conoscesse il Libro di Daniele, ma fosse anche mosso dall’intento di presentare i fatti narrati nella propria opera come un adempimento delle visioni in esso rivelate.

Possiamo intuirlo innanzitutto considerando il discorso che il sacerdote Matitiyahu pronuncia prima di morire secondo il racconto di 1 Maccabei 2:49-67. In tale discorso, per incoraggiare i suoi figli, l’anziano sacerdote rievoca le imprese dei personaggi più noti della storia biblica: il patriarca Avraham, il profeta Eliyahu, il re David e altri. Ebbene, tra queste figure illustri, Matitiyahu include anche Daniel e i suoi tre amici:

“Anania, Azaria e Misaele per la loro fede furono salvati dalla fiamma. Daniele nella sua innocenza fu sottratto alle fauci dei leoni” (2:59-60, traduzione CEI).

Il fatto che questo testo, nel selezionare una serie di esempi virtuosi (tutti provenienti dalla Bibbia), ne tragga ben due dal Libro di Daniele, dimostra innanzitutto che, agli occhi dell’anonimo autore, Daniele era già nel canone delle Scritture, e in secondo luogo che egli intendeva invitare i lettori a porre particolare attenzione proprio a tale libro.

In 1 Maccabei 1:54, si può riconoscere inoltre un riferimento diretto alle visioni di Daniele. Il narratore riporta qui che “nell’anno centoquarantacinque, il quindici di Kislev, il re [Antioco] pose sull’altare l’abominio della desolazione“. Quest’ultima espressione è tratta da Daniele 9:27, dove si parla delle “abominazioni di desolazione” poste nel Tempio dall’invasore straniero. Benché il testo originale del libro dei Maccabei sia andato perduto, possiamo cogliere ciò grazie al fatto che la versione greca (LXX) impiega nei due versi la stessa espressione.

Il libro dei Maccabei ci permette di seguire facilmente la successione dei regni di cui si parla in Daniele. Inizia infatti parlando della sconfitta dei Persiani per mano di Alessandro Magno (1:1), delle grandi conquiste di quest’ultimo (1:2-4), della divisione del suo impero (1:5-9) e dell’emergere di una “radice perversa: Antioco Epifane” (1:10).

Al capitolo 8, il testo ci presenta poi il grande impero che soppiantò i Greci: quello di Roma. Proprio nella ricca descrizione dei Romani che troviamo in questo brano è lecito intravedere alcune analogie con l’immagine della quarta bestia di Daniele:

Roma (1 Maccabei 8)La quarta bestia (Daniele 7)
“[I Romani] erano forti e potenti. […] Avevano assoggettato i re vicini e quelli lontani e quanti sentivano il loro nome ne avevano timore (v. 1; 12). “Ed ecco una quarta bestia, spaventosa, terribile, e straordinariamente forte” (v. 7).
“Essi avevano vinto i re che erano venuti contro di loro dall’estremità della terra: li avevano sconfitti e avevano inflitto loro gravi colpi” (v. 4).“[La bestia] divorerà tutta la terra, la stritolerà e la calpesterà” (v. 23).
“…e il resto dei re pagava loro il tributo ogni anno” (v. 4).  “…e il resto se lo metteva sotto i piedi e lo calpestava” (v. 7).
[La diversità dei Romani rispetto agli altri popoli]: “Malgrado questi successi, nessuno di loro si è imposto il diadema e non vestono la porpora per fregiarsene” (v. 14). “…era diversa da tutte le altre bestie precedenti” (v. 7).


Quella che leggiamo nel libro dei Maccabei sembrerebbe tuttavia una descrizione positiva del potere di Roma, animata da uno spirito di ammirazione, soprattutto considerando che, proprio in questo capitolo, l’eroe Giuda Maccabeo stringe un’alleanza con i Romani. A ben vedere, però, il testo nasconde un messaggio più inquietante di quanto si possa credere.

Chi conosce la storia biblica sa che, quando un capo d’Israele protagonista di una vittoria miracolosa mostra simpatia verso una potenza pagana emergente, la redenzione ottenuta può trasformarsi nel presagio della rovina: è quanto accadde al re Chizkiahu (Ezechia), che dopo la prodigiosa disfatta degli Assiri accolse i Babilonesi mostrando loro le proprie ricchezze, prefigurando con quest’atto apparentemente innocuo i terribili sviluppi futuri (vedi Isaia 39).

Non è un caso allora che, subito dopo l’alleanza con Roma, Giuda Maccabeo trovi tragicamente la sconfitta e la morte in battaglia (1 Macc. 9:17-18).

È dunque possibile immaginare che, sulla base dei precedenti biblici, l’autore del libro dei Maccabei avesse già intuito il potenziale distruttivo dell’incontro tra Giudei e Romani. Un’intuizione poi confermata dalla Storia.

Il piccolo corno secondo Rashi

Il grande commentatore medievale Rabbi Shlomo Yitzchaki (Rashi), in accordo con la tradizione rabbinica (ma anche, verosimilmente, con il libro dei Maccabei), identifica il quarto regno di Daniele con l’impero romano.

A differenza però di molti di coloro che seguono questa interpretazione, Rashi non ha visto nel piccolo corno una potenza presente o futura, magari in qualche modo erede dell’antica Roma, bensì un personaggio del passato: l’imperatore Vespasiano.

Parlando delle dieci corna della bestia, egli commenta infatti: “Questi sono dieci re che salirono al potere prima di Vespasiano, che distrusse il Tempio” (anche in questo caso, il 10 è cifra simbolica poiché, seguendo l’ordine dello storico Svetonio, gli imperatori che precedettero Vespasiano furono nove).

A proposito delle parole arroganti e blasfeme del piccolo corno, Rashi cita il passo del Talmud (Ghittin 56b) in cui si racconta che Tito, figlio di Vespasiano (da lui inviato in Giudea), entrò nel Tempio profanandolo e pretendendo di aver “ucciso Dio”.

Se Rashi avesse scavato più a fondo nella storia romana, avrebbe trovato altro materiale prezioso per la sua suggestiva interpretazione. Il fatto che Vespasiano sia stato il primo imperatore di origini modeste, non appartenente all’aristocrazia, giustificherebbe ad esempio la rappresentazione di questa figura come “piccolo corno diverso dai precedenti” (7:24).

La distruzione di tre corna dinanzi al piccolo corno farebbe pensare ai quattro imperatori che si avvicendarono in rapida successione nel corso della guerra civile del 69 e.v., cioè Galba, Otone, Vitellio e Vespasiano, con quest’ultimo a porre fine alla lotta per il potere.

Che dire poi del periodo di tre anni e mezzo in cui “i santi saranno dati nelle sue mani”? Tale fu in effetti la durata della guerra giudaica che portò alla distruzione del Tempio, come riporta Giuseppe Flavio.

Nonostante fossero passati già mille anni dai tempi di Vespasiano e Tito, il popolo ebraico si percepiva ancora come vittima dello stesso esilio, e Rashi poteva quindi riconoscere la quarta bestia come la minaccia attuale dalla quale attendere di essere riscattati.

Due modelli della Redenzione?

A prescindere dall’interpretazione di Rashi, le nostre riflessioni ci hanno condotto a formulare l’ipotesi che il sogno delle quattro bestie contempli un futuro più lontano rispetto alla visione del montone e del capro, che invece non guarda oltre l’epoca dei regni ellenistici.

Come abbiamo più volte ricordato, i capitoli 2 e 7 (le visioni della statua e delle quattro bestie) appartengono alla parte aramaica di Daniele; il capitolo 8 (il montone e il capro) è scritto invece in ebraico, così come i capitoli 9-12, da noi non analizzati, ma che predicono anch’essi degli eventi che hanno il loro culmine nella rivolta dei Maccabei.

Si noti a questo proposito che lo schema escatologico dei quattro regni si trova unicamente nei brani in aramaico, mentre quelli in ebraico menzionano soltanto la Persia (unita alla Media) e la Grecia (8:20-21; 11:2).

È possibile allora che il testo aramaico e quello ebraico di Daniele propongano due modelli differenti e paralleli della Redenzione, con due diversi ma allo stesso tempo simili persecutori blasfemi?

È un’ipotesi che deriva da motivazioni ragionevoli, come l’oggettiva difficoltà di considerare la Media e la Persia due regni distinti, e che appare supportata dall’antica testimonianza del libro dei Maccabei. Eppure, siamo consapevoli che nulla di tutto ciò potrà davvero risolvere il mistero di una visione che fece tremare il cuore di Daniel.

3 commenti

  1. Sono diverse le esegesi che identificano il quarto regno con l’impero romano, il che mi appare strano dato che, nel testo biblico, sono numerosi e chiarissimi i riferimenti che, nella storia d’Israele, calzano a pennello NON con Roma ma col periodo ellenico e con l’oppressione di Antioco IV. Tanto più che una delle allegorie, quella del montone e del capro, il cui significato è svelato dall’autore stesso, inquadra il contesto storico nelle conquiste di Alessandro Magno (il re di Grecia). È proprio in tale contesto che la religione ebraica subì un trauma gravissimo poiché rischiò di essere cancellata con la violenza. L’autore del libro di Daniele non poteva certamente ignorare una simile ferita, provocata dagli elleni e non dai romani, tanto che tratta quest’argomento ripetutamente e con abbondanza di particolari. Tutti quei terribili eventi sono narrati per filo e per segno, e nessuno di essi c’entra minimamente con Roma.

    Ma secondo il Talmud e secondo Rashi, l’allegoria del piccolo corno che pronunciò parole arroganti contro il dio d’Israele si riferisce a Tito, il quale avrebbe preteso di essere “l’uccisore di Dio”. Trovo inverosimile che un imperatore di una potenza che venerava tutte le divinità del mondo, al punto da dedicare ad esse il Pantheon, ovvero il tempio di tutti gli dèi, si sia vantato di aver ucciso quello che per lui era uno dei tanti numi da onorare, cosa che invece fece Antioco.
    Fu quest’ultimo, non Tito, che sfrattò HaShem dal suo tempio e lo rimpiazzò con Zeus, abolendo così i sacrifici quotidiani che il sommo sacerdote (il capo della milizia) officiava due volte al giorno sera e mattina e proibendo al popolo ebreo l’osservanza del sabato e della Torah:

    “S’innalzò fino al capo della milizia e gli tolse il sacrificio quotidiano e fu profanata la santa dimora. In luogo del sacrificio quotidiano fu posto il peccato e fu gettata a terra la verità; ciò esso fece e vi riuscì.” (Dn 8:11-12, CEI.)

    I romani, caratterizzati dal loro spirito pratico, non facevano la guerra alla religione e alla cultura dei popoli che assoggettavano, e se distrussero Gerusalemme fu perché pacificavano le province ribelli con pugno di ferro, di certo non per meri motivi ideologici. Ma Rashi addebita a loro tutte le malefatte commesse da Antioco, e lo fa con straordinaria miopia selettiva; per esempio (cito dall’articolo):

    “Che dire poi del periodo di tre anni e mezzo in cui “i santi saranno dati nelle sue mani”? Tale fu in effetti la durata della guerra giudaica che portò alla distruzione del Tempio, come riporta Giuseppe Flavio.”

    Durante quei tre anni e mezzo di guerra, i “santi” non erano per niente nelle mani dei romani, i quali durante quegli anni combatterono fuori le mura di Gerusalemme per cui i sacrifici rituali ebraici non smisero mai di essere regolarmente officiati. Il testo biblico mostra invece una situazione assai diversa, compatibile con la conquista (non la distruzione) da parte dei seleucidi di Gerusalemme e del suo tempio e con il loro tentativo di ellenizzare i giudei:

    “Egli proferirà parole contro l’Altissimo, perseguiterà i santi dell’Altissimo e penserà di cambiare i tempi e la Legge; i santi gli saranno dati in mano per un tempo, più tempi e la metà di un tempo.” (DN 7:25, CEI)

    “«Fino a quando durerà questa visione: il sacrificio quotidiano abolito, la desolazione dell’iniquità, il santuario e la milizia calpestati?». Gli rispose: «Fino a duemilatrecento sere e mattine: poi il santuario sarà rivendicato».” (Dn 8:13-14, CEI).

    Antioco, poiché era padrone di Gerusalemme, vietò l’osservanza del sabato e della Torah (penserà di cambiare i tempi e la Legge). Rashi non considera neppure che la durata di tale oppressione è misurata col numero di sacrifici di sera e mattina mancati, ossia 2300, pari a 1150 giorni, ovvero ai menzionati tre anni e mezzo che vanno collegati all’assoggettamento dei giudei ai seleucidi, e non alla loro guerra contro i romani.
    Oltre a ciò, il libro di Daniele parla di diversi avvenimenti facilmente riconducibili ad Alessandro e ai suoi generali che si spartirono il suo impero appena formato:

    “Sorgerà quindi un re potente e valoroso, il quale dominerà sopra un grande impero e farà ciò che vuole; ma APPENA SI SARÀ AFFERMATO, il suo regno VERRÀ SMEMBRATO E DIVISO ai quattro venti del cielo, ma NON FRA I SUOI DISCENDENTI né con la stessa forza che egli possedeva; il suo regno sarà infatti smembrato e dato ad altri anziché ai suoi discendenti.” — (Dn 11:3-4, CEI.)

    La carriera militare di Alessandro durò solo dodici anni ed ebbe improvvisamente termine mentre sua moglie era incinta del suo primo figlio. Non ebbe quindi eredi, e ciò determinò la divisione delle sue conquiste fra i diadochi. I versi qui sopra riportati raccontano tutto questo, e ciò non ha alcuna attinenza con le vicende dell’impero romano.
    Il testo fa inoltre riferimento, con dovizia di particolari, a un avvenimento senz’altro riconducibile all’epoca ellenistica. Tale avvenimento è il matrimonio dinastico fra il seleucide re Antioco II e Berenice, figlia di Tolomeo II regnante in Egitto. Tali sponsali avevano lo scopo di riunificare l’impero di Alessandro sotto un’unica corona, la quale avrebbe dovuto essere cinta dal rampollo nato da questa unione di sangue seleucide e tolemaico:

    “Il fatto d’aver visto il ferro mescolato all’argilla significa che le due parti si uniranno per via di matrimoni, ma non potranno diventare una cosa sola, come il ferro non si amalgama con l’argilla.” (Dn 2:43, CEI.)

    Il passo qui sopra si riferisce chiaramente al guaio commesso da Antioco II: costui, volendo sposare Berenice, figlia del suo rivale Tolomeo, per suggellare la pace fra le due casate e ricostituire l’impero di Alessandro, ripudiò sua moglie Laodice, la quale peraltro gli aveva dato un figlio. Antioco, poiché morì troppo presto, lasciò due eredi al trono. Due eredi appartenenti a dinastie rivali e quindi refrattarie a unirsi fra loro come lo sono il ferro con l’argilla. La lotta fra le due opposte fazioni fu inevitabile e Berenice, regina vedova ma straniera e per di più di stirpe nemica ebbe la peggio e fu assassinata con suo figlio:

    “Dopo qualche anno faranno alleanza e la figlia del re del mezzogiorno verrà al re del settentrione per fare la pace, ma non potrà mantenere la forza del suo braccio e non resisterà né lei né la sua discendenza e sarà condannata a morte insieme con i suoi seguaci, il figlio e il marito.” (Dn 11:6, NR.)

    Caro redattore, concludi il tuo interessantissimo articolo dicendo che:

    “Se Rashi avesse scavato più a fondo nella storia romana, avrebbe trovato altro materiale prezioso per la sua suggestiva interpretazione. Il fatto che Vespasiano sia stato il primo imperatore di origini modeste, non appartenente all’aristocrazia, giustificherebbe ad esempio la rappresentazione di questa figura come “piccolo corno”.

    Io sono dell’idea che se Rashi avesse potuto scavare a fondo in qualunque storia di qualsiasi epoca e paese, vi avrebbe trovato comunque prezioso materiale per la sua interpretazione. Ciò avviene facilmente se si svicola dai dati reali, nella fattispecie i riferimenti storici minuziosamente riportati nel libro di Daniele.
    Trovo interessante questa tua osservazione:

    “E tuttavia qualcosa non torna: per far sì che la Grecia corrisponda alla quarta bestia, da cui spunta il piccolo corno (Antioco), è necessario identificare il leopardo con la Persia e l’orso con la Media. Eppure, nel Libro di Daniele, i Medi e i Persiani appaiono sempre congiunti: come abbiamo visto, nella visione successiva sono entrambi rappresentati dal montone con due corna, delle quali “una (la Persia) era più alta dell’altra (la Media)” (8:3). […]
    “I due popoli sono menzionati insieme anche in Daniele 5:28, dove si legge che a sconfiggere Babilonia furono “i Medi e i Persiani”; e al capitolo 6 si parla più volte della “legge dei Medi e dei Persiani” (6:8; 12; 15). È possibile allora che questi due regni congiunti siano indicati come due bestie diverse? (La Media, in fondo, al contrario di tutti gli altri regni menzionati, non ha mai dominato su Israele).” […]
    “Che dire allora della quarta bestia? Ed è forse possibile ipotizzare che il piccolo corno, che al capitolo 8 era indubbiamente Antioco, sia in questo caso un personaggio diverso, malgrado tutte le analogie?”

    Sul piano storico i regni in questione dovrebbero essere soltanto tre: 1. Babilonia; 2. Medo-Persia; 3. Greco-Macedone. Ma l’autore biblico ha diviso erroneamente i Medi e i Persiani; di conseguenza i regni di cui parla sono diventati quattro. Sospetto ci sia stato un successivo rimaneggiamento apportato da un diverso scrittore più edotto che abbia riunito i Medi e i Persiani. Comunque, direi che l’ultimo regno, che sia classificato quarto oppure terzo, resta quello macedone per via degli accadimenti susseguenti ad esso narrati nel libro, accadimenti riconducibili al periodo ellenico piuttosto che a quello latino.

    1. Caro Marco,
      Io sono d’accordo che il persecutore empio del capitolo 8 (e del capitolo 11) sia Antioco. In quel caso tutto torna e il testo, malgrado le allegorie, è veramente chiaro. Ma in questo articolo ho voluto far notare che al capitolo 7, che è scritto in un’altra lingua rispetto ai capitoli 8 -12, ci sia una prospettiva diversa. Del resto già al tempo dei Maccabei la potenza romana stava già superando quella greca, dunque doveva essere intuibile già allora che il regno seleucide non era “la fine della storia” (e infatti l’autore di Maccabei lo capisce).
      Il testo qui non “divide erroneamente” i Medi dai Persiani, anzi ci mostra l’orso sbilanciato seguito dall’agile leopardo le cui teste richiamo i quattro regni ellenistici. Presupporre che il testo sia stato modificato successivamente è una soluzione un po’ troppo conveniente. Non abbiamo manoscritti che possano farci affermare una cosa simile, e il libro di Daniele era uno dei più presenti tra i rotoli di Qumran (segno della sua popolarità all’epoca).

      L’impero romano, come quello seleucide, è stato in realtà un grande oppositore dell’Ebraismo. Ricordiamo il fiscus iudaicus di Vespasiano, con cui l’imperatore convertí beffardamente la tassa prevista dalla Torah a favore del Santuario (il famoso mezzo shekel) in una tassa a favore del tempio di Giove Capitolino. Tutti gli Ebrei dovevano pagarla, a meno che non si dichiarassero apostati, dunque era una misura rivolta contro una religione specifica. Prima di Vespasiano, la rivolta scoppiò in Giudea proprio a causa dell’oppressione romana e talvolta della loro intolleranza verso il culto giudaico. Caligola ad esempio voleva porre una statua nel Tempio, cosa che poi non fece. I Flavi poi dimostrarono un orgoglio smisurato per essere riusciti ad assoggettare una tutto sommato insignificante provincia: l’arco di Tito, la moneta “Iudea capta est”, il Colosseo finanziato con le ricchezze trafugate da Gerusalemme, il fiscus iudaicus esteso in un secondo momento anche a chi “viveva come Giudeo”, e sembra addirittura che Domiziano, fratello di Tito, avesse convocato i discendenti di David e li avesse interrogati per assicurarsi che non costituissero una minaccia. Che dire poi di Adriano, che proibì la circoncisione e lo Shabbat, cambiò il nome di Gerusalemme in Aelia Capitolina e quello della Giudea in Palestina, per eliminare ogni traccia ebraica.
      Certo, questi imperatori agirono così per motivi molto più pragmatici che ideologici, ma lo stesso si può dire di Antioco, che voleva in fondo l’uniformità culturale dell’impero per motivi di coesione e stabilità, e anzi non perseguitò mai gli Ebrei al di fuori della Giudea, al contrario dei Romani.

      1. All’epoca delle dominazioni ellenica prima e latina poi, i giudei non facevano mistero di quanto considerassero immondi i loro dominatori per via dei loro culti politeistici:

        “Voi sapete che non è lecito per un Giudeo unirsi o incontrarsi con persone di altra razza” (Atti 10:28, CEI)

        “Allora condussero Gesù dalla casa di Caifa nel pretorio. Era l’alba ed essi non vollero entrare nel pretorio per non contaminarsi e poter mangiare la Pasqua.” (Giovanni 18:28, CEI).

        Nulla di strano che i pagani si sentissero punti sul vivo per essere disprezzati in modo così manifesto a causa dei loro culti religiosi. All’opposto, tale atteggiamento del mondo ebraico verso i pagani doveva essere approvato e lodato da HaShem, e ciò escluderebbe che “l’ultimo tempo dell’indignazione” possa riferirsi ai giudei. Si può dire che questi, a differenza dei loro assai volubili antenati del pre-esilio, siano divenuti rigorosamente monoteisti dal tempo della loro cattività in Mesopotamia.

        La causa dell’indignazione del dio d’Israele dovrebbe quindi essere cercata altrove, con ogni probabilità negli atti ostili di Antioco IV oppure dei romani nei riguardi dei giudei. Tra questi due soggetti io opterei per Antioco: in primo luogo perché le abominazioni elencate nel libro di Daniele sono tutte riconducibili a lui; c’è poi il fatto che il quadro storico relativo al tempo della fine è chiaramente indicato con l’allegoria del montone e del capro, il cui significato è esplicitato proprio nel testo. Quei due animali rappresentano la nascita (a spese della dinastia persiana achemenide) dell’impero di Alessandro e il suo successivo smembramento. La rivelazione dell’angelo, riguardante il tempo della fine, si conclude con l’illustrazione di un personaggio che non può essere altro che Antioco, non fosse perché a chiusura della sua predizione l’angelo precisa che “La visione di sere e mattine, che è stata spiegata, è vera.” Il riferimento è ai 2300 sacrifici serali e mattutini interrotti nel tempio di Gerusalemme per volontà del re seleucide:

        Alla fine del loro regno, quando l’empietà avrà raggiunto il colmo, sorgerà un re audace, sfacciato e intrigante INSORGERÀ CONTRO IL PRINCIPE DEI PRÌNCIPI, […] ma verrà spezzato senza intervento di mano d’uomo. LA VISIONE DI SERE E MATTINE, CHE È STATA SPIEGATA, È VERA. (Daniele 8:23; 26, CEI)

        Il tempo della fine, che è anche quello dell’ultima indignazione divina, dovrebbe quindi corrispondere alla cacciata dei seleucidi con la rivolta dei maccabei. Non dimentichiamo inoltre il sogno della statua fatta di quattro diversi metalli rappresentanti i quattro regni che avevano angariato Israele: la pietra non mossa da mani umane che rotola sulla statua è la volontà divina che frantuma quei regni. L’ultimo di essi è di ferro (l’impero creato da Alessandro) ma ha i piedi di ferro e argilla, a simboleggiare che fu diviso ma che tentò inutilmente di riunificarsi con un matrimonio dinastico (così dice il testo). A questo punto (è sempre il testo che lo rivela) sarebbe sorto il regno di Dio… Nella realtà sorse invece un regno giudaico indipendente (dopo circa quattro secoli di dominazione straniera).

        Per la maggior parte degli studiosi il libro di Daniele è stato scritto al tempo dei Maccabei; appare evidente che il suo scopo era di rassicurare i rivoltosi che dietro il loro successo c’era la mano del dio d’Israele. Ciò corroborava l’idea che le antiche profezie sul regno di Dio si stavano attuando giusto allora.
        Le cose sono poi andate diversamente, ma i fedeli, sia giudei sia cristiani, hanno continuato a dare credito alle profezie di Daniele, per cui hanno identificato con Roma il quarto regno, vale a dire quello che precede il regno di Dio. I testimoni di Geova vi hanno anzi ravvisato un quinto regno (l’attuale potenza anglo americana) corrispondente ai piedi di ferro e argilla (l’argilla sarebbe il sistema democratico): l’anzidetta pietra del sogno non mossa da mani umane rotolerà a breve, stando a ciò che predicano, su questo impero fatto di ferro e anche d’argilla e lo farà crollare e allora sorgerà il regno di Geova.

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