Ebrei contro Greci: il prequel di Hanukkah

Qual è la prima cosa che vi viene in mente se pensate al rapporto tra l’Ebraismo e la cultura greca? Probabilmente, chiunque abbia una minima conoscenza della storia ebraica risponderà parlando della festa di Hanukkah, che celebra la vittoria dei Maccabei sull’esercito greco-siriano di Antioco Epifane.

Senza alcun dubbio, entrambe queste civiltà hanno cambiato il mondo: da un lato l’Ebraismo con la sua fede e la sua legge morale, e dall’altro la Grecia con la filosofia, l’arte e l’esaltazione della bellezza.

Il fatto che l’idea più immediata sulla relazione tra le due culture riguardi un conflitto – appunto, la guerra tra i Maccabei e Antioco – sembra però indicare che il pensiero ebraico e quello greco siano inconciliabili, come due forze contrapposte che non possono coesistere.

Ciò pare emergere anche dalle parole della preghiera Al HaNissim che si recita durante Hanukkah: …Quando il malvagio regno della Grecia (Yavan) sorse contro il tuo popolo Israele per fargli dimenticare la Torah e i tuoi decreti…”.

Secondo questa prospettiva, la Grecia rappresenta il male, l’antagonista della Torah. Ciò appare in modo ancora più emblematico in un’antica interpretazione allegorica del Midrash (Bereshit Rabbah 2:4), che commentando un’espressione contenuta in Genesi 1:2 (“Oscurità sopra la faccia dell’abisso”), afferma: “Oscurità: si riferisce alla dominazione della Grecia, che oscurò gli occhi dei figli d’Israele con i suoi decreti”.

L’ascesa del mondo greco, che portò nell’umanità la luce dello studio della natura, dell’arte classica e della democrazia, è vista nell’ottica dei Saggi d’Israele come “l’Oscurità“, le tenebre primordiali che esistevano all’inizio della Creazione.

Ma davvero il rapporto tra queste due culture si può ridurre soltanto a una violenta contrapposizione? A una lotta della luce contro il buio? La questione diviene molto interessante se esaminiamo la storia del primo incontro tra l’Ebraismo e la civiltà greca, una racconto che è forse in grado di offrirci una prospettiva inedita su un conflitto tanto radicale.

Alessandro entra a Gerusalemme

Circa centocinquant’anni prima che Antioco Epifane iniziasse la sua persecuzione antiebraica, il popolo d’Israele si ritrovò per la prima volta davanti alla minaccia della potenza ellenistica. Ciò avvenne dopo che Alessandro il Macedone, detto “Magno”, a capo di una coalizione che riuniva quasi tutte le popolazioni di lingua greca, diede il via a una campagna militare senza precedenti che lo portò a diventare in breve tempo il padrone di un impero vastissimo.

Pur avendo compiuto grandi devastazioni nel Vicino Oriente, una volta giunto a Gerusalemme, Alessandro volle però risparmiare la capitale degli Ebrei. Cosa lo spinse a prendere una simile decisione? Il Talmud (Yoma 69a) ci riporta una versione dei fatti davvero suggestiva.

Secondo i Maestri, i Kutím, ovvero i Samaritani, riferirono ad Alessandro che gli Ebrei stavano pianificando una presunta ribellione contro di lui. Il grande condottiero marciò quindi contro Gerusalemme per distruggere il Tempio.

A questo punto, il racconto talmudico fa entrare in scena il sommo sacerdote Shimon HaTzaddik:

“[Qualcuno] venne e informò Shimon HaTzaddik [dell’imminente arrivo di Alessandro]. Cosa fece costui? Indossò gli abiti sacerdotali e si avvolse in essi. E i nobili di Israele erano con lui, con torce di fuoco nelle loro mani”.

I rappresentanti di Israele vanno quindi incontro all’esercito greco. Appena il sole sorge, i due schieramenti si ritrovano l’uno di fronte all’altro. Quando Alessandro riesce a scorgere il volto di Shimon HaTzaddik, improvvisamente si prostra davanti a lui, generando grande stupore tra le sue truppe:

“[Gli uomini di Alessandro] gli dissero: «Un grande re come te si prostra davanti a questo Giudeo?» Ed egli disse loro: «L’immagine del volto di quest’uomo mi appare vittorioso sul campo di battaglia»”.

Le parole di Alessandro non sono qui del tutto chiare. Grazie allo storico Giuseppe Flavio, che riporta una vicenda molto simile, possiamo comprenderne più facilmente il significato: in una certa occasione, prima di uscire in battaglia, il re aveva fatto un sogno in cui un uomo misterioso gli era apparso per preannunciargli l’imminente vittoria. E ora, a sorpresa, Alessandro scopre che quell’uomo è in realtà il sommo sacerdote del Tempio che egli è venuto a distruggere!

“E [Alessandro] disse loro: «Perché siete venuti?» [Gli Ebrei] risposero: «È forse possibile che tu distrugga il Tempio in cui noi preghiamo affinché il tuo regno non sia distrutto, e ciò a causa dei Gentili che ti hanno ingannato?» Egli disse loro: «Chi sono questi [che mi hanno ingannato]?» Essi risposero: «Sono i Kutim che stanno qui al tuo fianco». Egli disse: «Io li consegno nelle vostre mani». […] E quel giorno fu reso una festività [in memoria dello scampato pericolo e della disfatta dei Kutim]”.

Uno degli aspetti più interessanti di questo testo risiede nel fatto che gli Ebrei, secondo le loro stesse parole, pregavano nel Tempio per il successo militare di Alessandro Magno, una forma di “sostegno mistico” che si riflette nel sogno avuto dal re, in cui Shimon HaTzaddik gli prediceva la vittoria.

Evidentemente, la leadership religiosa di Israele vedeva di buon occhio l’ascesa del nuovo impero greco, considerandola quanto meno preferibile al precedente dominio persiano. Il brano ci presenta quindi un’immagine differente del rapporto tra l’Ebraismo e la Grecia, parlando di una grave minaccia che si trasforma in un incontro pacifico.

Leggendo il racconto, risulta difficile non pensare alla festa di Hanukkah. Vari elementi della narrazione rievocano infatti la storia dei Maccabei:

  • Le due nazioni che si fronteggiano, Israele e la Grecia, sono le stesse che si scontreranno nella vicenda di Hanukkah.
  • Alessandro Magno intendeva distruggere il Tempio, lo stesso che Antioco Epifane profanò e devastò.
  • I protagonisti ebrei di entrambe le storie (Shimon HaTzaddik e la famiglia dei Maccabei) sono sacerdoti.
  • Il testo ci informa che i nobili di Israele andarono incontro ad Alessandro con “torce di fuoco“. Il dettaglio, in apparenza superfluo, ricorda i lumi di Hanukkah, chiamata “festa delle luci”.
  • Altrove (Tosefta, Sotah 13:7), è scritto che “fino quando Shimon HaTzaddik fu in vita, il lume occidentale [del Tempio] rimase sempre acceso”: un’altra immagine che richiama il “miracolo dei lumi” di Hanukkah.
  • Alla fine del racconto, leggiamo che “Quel giorno fu reso una festività“. Proprio ciò che avvenne anche nel caso dei Maccabei.

La differenza, naturalmente, sta appunto nel fatto che la vicenda di Hanukkah è basata su un aspro conflitto fra il mondo della Torah e quello dell’ellenismo, mentre qui, al contrario, la tensione si scioglie e i due mondi interagiscono secondo i principi del rispetto reciproco e della coesistenza.

Un modello biblico

Ciò che abbiamo appena detto ci riporta alla mente un altro racconto, questa volta nella Bibbia.

La Genesi ci parla di Yosèf (Giuseppe), e di come egli riuscì ad affermarsi in una terra straniera, l’Egitto, passando dalla condizione di schiavo a quella di ministro del Faraone, e arrivando persino a salvare il paese da una carestia.

Cosa ha a che fare tutto ciò con la storia di Shimon HaTzaddik e Alessandro? Ebbene, così come il racconto talmudico ci parla del primo incontro tra due nazioni che poi sarebbero entrate in conflitto, con la successiva istituzione di una festa ebraica, allo stesso modo il racconto di Yosef ci presenta il primo incontro tra Israele e l’Egitto, due popoli vissuti dapprima in pace e poi divenuti nemici in seguito a una persecuzione. E anche in questo caso, la storia anticipa l’istituzione di una festa ebraica: la festa di Pesach.

Il legame tra la vicenda di Yosef e quella dell’Esodo è molto profondo: la prima appare come una prefigurazione della seconda, e al contempo come il suo opposto, poiché nel primo caso i rapporti tra il Faraone e i figli d’Israele sono ottimi, e “i carri e i cavalieri dell’Egitto” non inseguono gli Ebrei, come avverrà nell’Esodo, ma li accompagnano in modo pacifico (Genesi 50:9). Di questo abbiamo però già parlato in un altro articolo, a cui rimandiamo: “L’altro Esodo, se il Faraone avesse detto sì“.

È possibile che, nel creare una proto-versione ottimistica di Hanukkah, i Maestri del Talmud si siano basati proprio sul modello biblico di Yosef e sul suo preludio ideale di Pesach. Del resto, nella tradizione ebraica, Yosef e il sommo sacerdote Shimon sono conosciuti con lo stesso soprannome: HaTzaddík (“Il Giusto”).

Nelle due narrazioni, il re straniero riconosce nella figura di un Ebreo la fonte del suo successo (Yosef interpreta i sogni del Faraone; Shimon compare in sogno ad Alessandro), e in entrambi i casi questa svolta risolutiva riguarda un sogno o una visione. Potrebbe non essere un caso allora che la storia di Yosef, secondo il ciclo annuale della Torah, venga letta proprio durante lo Shabbat di Hanukkah (Parashat Mikketz).

Da un lato, tutto questo ci insegna che anche una nazione aperta e tollerante, come lo erano all’inizio l’Egitto e la Grecia nei confronti degli Israeliti, può degenerare sotto la guida di un tiranno e trasformarsi in una potenza ostile.

Da un’altra prospettiva, lo stesso messaggio risulta valido anche all’inverso: dietro un contrasto violento, un astio religioso e uno scontro ideologico, si può ancora intravedere l’ombra di un’armonia perduta che racchiude in sé la possibilità di una riconciliazione.

Approfondimento: l’eco di un’altra festa

Tornando a riflettere sul racconto di Shimon HaTzaddik e Alessandro Magno, possiamo notare che Hanukkah non è la sola festa a essere rievocata in questo brano. Altri elementi del testo sembrano infatti fare riferimento a un’altra festività ebraica.

L’idea che gli antagonisti, in questo caso i Kutim, vedano fallire miseramente i loro piani, finendo per subire la stessa sorte che essi volevano infliggere agli Ebrei, ci ricorda la storia del libro di Ester, in cui il perfido Haman e i suoi seguaci cadono vittime del loro stesso progetto di sterminio.

Ricordiamo a questo proposito che, quando gli Ebrei dicono ad Alessandro che alcuni Gentili lo hanno ingannato per condurlo a distruggere il Tempio, il re chiede: “Chi sono questi (che mi hanno ingannato)?”. Tale dialogo richiama quanto che è narrato al capitolo 7 di Ester, e in particolare le parole del re Achashverosh, il quale chiede alla regina: “Chi è colui che ha pensato di fare una cosa simile?” (7:5).

E da questi due dialoghi scaturisce un risultato simile: Haman viene “appeso“, cioè impiccato al palo che egli stesso aveva preparato per l’odiato Mordechai (7:10), mentre i Kutim vengono “appesi”, cioè legati, alle code dei loro cavalli e condotti sul Monte Gerizim, dove gli Ebrei devastano il loro santuario, “proprio come essi avevano cercato di fare con il Tempio di Dio” (Yoma 39a).

Curiosamente, oltre a essere un “prequel” di Hanukkah, questo racconto del Talmud appare dunque anche come un “sequel” di Purim, presentando un caso di “rovesciamento delle sorti” analogo a quello narrato nel libro di Ester.

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