Inauguriamo oggi il nostro nuovo podcast “Percorsi della Torah“. In ogni episodio parleremo di un tema specifico tratto dalla Torah e seguiremo la sua evoluzione all’interno della Bibbia ebraica, andando alla scoperta del testo biblico nelle sue molte sfaccettature.
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Il Dio che redime… gli Egiziani!

Considerando che la festività di Pesach è alle porte, e che milioni di Ebrei stanno per sedersi come ogni anno alla tavola del Seder per celebrare la liberazione dalla schiavitù in Egitto, il titolo di questo articolo potrebbe apparire più che mai una stramba provocazione.
Parlando così spesso della redenzione di Israele, a Pesach come in tante altre occasioni, si corre il rischio di dimenticare che la Torah e i Profeti racchiudono una visione ben più ampia. Tra le pagine della Bibbia ebraica − quasi costantemente incentrate sulla storia del popolo d’Israele − esiste infatti una concezione universale della redenzione che, sebbene talvolta sia poco percepibile, in alcuni casi risplende in modo straordinario.
Vogliamo allora promuovere una riscoperta di tale concezione universale proponendo un commento al capitolo 19 del libro di Isaia, uno dei brani che smentiscono in maniera particolarmente eclatante le convinzioni di chi immagina il Dio della Bibbia ebraica come una “divinità nazionale degli Ebrei”, e l’Ebraismo come un sistema religioso che esclude il genere umano nella sua collettività per favorire un’unica nazione eletta.
Continua a leggereSukkot: che cosa si commemora realmente?
Sukkòt, come altre festività bibliche, ha un significato agricolo legato al mondo della natura e uno di carattere storico, in quanto commemorazione di un evento vissuto dal popolo ebraico. Il primo significato è chiaramente espresso nella Torah, laddove si afferma che Sukkot è la “festa del raccolto” (Esodo 23:16; 34:22; Deut. 16:13), e che gli Israeliti sono chiamati a celebrare tale solennità ringraziando il Creatore per i prodotti della terra (Deut. 16:15).
Il significato storico è anch’esso illustrato nella Torah, precisamente nel Levitico, che a questo proposito dichiara:
Celebrerete questa festa in onore di HaShem per sette giorni, ogni anno. È una legge perenne, di generazione in generazione. La celebrerete il settimo mese. Abiterete in capanne (sukkot) per sette giorni, tutti quelli che saranno nativi d’Israele abiteranno in capanne, affinché le vostre generazioni sappiano che io feci abitare in capanne i figli d’Israele, quando li feci uscire dalla terra d’Egitto (Levitico 23:42-43).
Sulla base di questi versi, si ritiene generalmente che la festa di Sukkot non commemori un singolo avvenimento o un fatto specifico, bensì l’intero periodo di quarant’anni che gli Israeliti trascorsero nel deserto, abitando in capanne. Ciò rende quindi Sukkot diversa dalle altre due “festività di pellegrinaggio”, che sono invece incentrate su un unico evento: a Pesach si ricorda infatti la notte dell’uscita dall’Egitto, mentre Shavuot, secondo la tradizione, commemora la Rivelazione dei Dieci Comandamenti sul Sinai.
Questa differenza, tuttavia, potrebbe scomparire se prendessimo in considerazione un altro significato che sembra celarsi nelle parole del Levitico. Continua a leggere
L’altro Esodo: Se il Faraone avesse detto “sì”
Le acque tornarono e coprirono i carri e i cavalieri di tutto l’esercito del Faraone che erano entrati nel mare per inseguire gli Israeliti, e non ne scampò neppure uno di loro. […] E in quel giorno HaShem salvò Israele dalla mano degli Egiziani, e Israele vide gli Egiziani morti sulla riva del mare (Esodo 14-28-30).
Il passaggio del Mar Rosso rappresenta il momento decisivo della liberazione del popolo ebraico dall’Egitto, il miracolo della vittoria definitiva degli oppressi sui loro oppressori. Eppure, in questo pur grande trionfo, non è difficile percepire un sapore amaro, come se l’immagine presentata dal racconto biblico non sia del tutto positiva. Mentre infatti gli Israeliti, guidati da Moshè, raggiungono la riva sani e salvi e innalzano un canto di lode, gli Egiziani periscono tra le onde e affiorano in superficie ormai privi di vita. Benché si tratti di una distruzione necessaria per la salvezza d’Israele, e di un giudizio volto contro un tiranno sanguinario e il suo esercito spietato, non si può comunque negare che la Redenzione appaia segnata da un elemento tragico e macabro. Un popolo viene liberato e si avvia a diventare una vera nazione, mentre un altro subisce una grande catastrofe che gli impedirà di riscattarsi dagli errori compiuti. Continua a leggere
L’Esodo di Hagar
Dio udì la voce del ragazzo e l’angelo di Dio chiamò Hagar dal cielo e le disse: «Che hai, Hagar? Non temere, perché Dio ha udito la voce del ragazzo là dov’è. Alzati, prendi il ragazzo e tienilo per mano, perché io farò di lui una grande nazione (Genesi 21:17).
Hagar, la serva egiziana della casa di Abramo, è un personaggio che può apparire alquanto marginale all’interno del quadro delle vicende dei patriarchi della Genesi, ma che in realtà, con la sua storia, ci conduce a un’importante riflessione sui valori morali della Torah. Continua a leggere

Shemot: La diplomazia di Mosè
Tratto dal libro Between the Lines of the Bible, di Rabbi Yitzchak Etshalom.
Nella sezione iniziale del Libro dell’Esodo ci viene presentata la figura centrale del Pentateuco: Mosè. Il suo ruolo principale di capo e di profeta è senza rivali, indiscusso e incontrastato all’interno della tradizione ebraica. Ciò che però non ci viene detto – almeno non esplicitamente – è il motivo per cui Mosè fu scelto per guidare gli Israeliti fuori dall’Egitto, verso il Sinai e (idealmente) fino alla Terra promessa.
[…]
L’obiettivo della missione di Mosè sembra essere quello di condurre i figli d’Israele nel paese dei loro antenati (Esodo 3:8) dopo una sosta presso il Monte Sinai per adorare Dio. Perché mai quest’impresa doveva essere compiuta attraverso la diplomazia, e tramite gli ardui negoziati con il Faraone, che durarono molto tempo e costarono tanta sofferenza? Dio, con la sua onnipotenza, non poteva forse far uscire gli Israeliti dall’Egitto all’istante? Per la nostra immaginazione è certamente facile pensare a una redenzione e a un esodo rapidi ed immediati, ma ciò non rientrava nel piano di Dio. Perché allora Dio scelse di ricorrere alla diplomazia e di comandare al suo eletto di negoziare con il Faraone?
Come abbiamo detto, lo scopo dell’Esodo non era soltanto quello di liberare una nazione di schiavi, né di far stabilire gli Ebrei nella loro terra, bensì quello di condurli al Monte Sinai:
“…e questo sarà per te il segno che io ti ho mandato: Quando avrai fatto uscire il popolo dall’Egitto, voi servirete Dio su questo monte” (Esodo 3:12).
Affinché ciò potesse accadere, gli Israeliti dovevano essere pienamente consapevoli di due realtà: Chi è Dio e chi è il Suo popolo. Essi dovevano comprendere che Hashem, il Dio di Israele, è la sola potenza a cui è dovuta completa fedeltà e che Egli domina i cieli e la terra. Gli Israeliti dovevano anche essere consci del loro glorioso passato del loro ancora più glorioso futuro. Essi erano infatti i discendenti di Abramo, Isacco e Giacobbe, destinati a diventare il prezioso popolo di Dio, il Suo tesoro tra le nazioni e un regno di sacerdoti (Esodo 19:5-6).
Fin dai primi versi del Libro dell’Esodo possiamo dedurre che gli Israeliti, in quella determinata epoca, non condividevano queste credenze. Ciò appare chiaramente nel momento in cui Mosè cerca di convincere il popolo a cooperare, ma quest’ultimo in risposta lo esorta a lasciar perdere e ad accettare lo status quo (vedi Esodo 5:19-21). Gli Israeliti, in quanto popolo, non erano pronti a una simile metamorfosi nazionale.
[…]
Gli Israeliti erano prigionieri dell’influenza del Faraone e della sua corte. Per ottenere la consapevolezza della loro missione e del loro orgoglio, oltre che della sovranità del loro Dio, essi avevano bisogno che il Faraone stesso riconoscesse il potere e la giustizia di Dio e ammettesse le colpe degli Egiziani. Questo è il tema ricorrente nelle relazioni diplomatiche tra Mosè e il Faraone. Gli Israeliti non potevano essere pronti a partire (verso il Sinai e la Terra promessa) fino a che la loro più grande icona culturale (il Faraone) non si fosse presentato a loro in piena notte implorando loro di lasciare l’Egitto, accettando la giustizia di Dio e il Suo decreto.
Le relazioni diplomatiche dovevano perciò essere condotte necessariamente da qualcuno che avesse una propria dignità, che fosse a suo agio nella corte del Faraone, e che comprendesse l’unità essenziale della nazione.
Essendo stato adottato dalla figlia del Faraone, Mosè conosceva i protocolli e il cerimoniale della corte. Egli percepiva la sua dignità, poiché non era mai stato soggetto alla schiavitù e non era culturalmente sottomesso al Faraone. […] Provenendo dall’esterno, egli comprendeva l’unità di base degli Israeliti. Si noti in che modo la Torah descrive l’interesse di Mosè per le sofferenze del popolo:
“Mosè crebbe ed uscì fra i suoi fratelli” (Esodo 2:11).
Agli occhi di Mosè, tutti gli Ebrei, non importa se Leviti o Daniti, erano suoi fratelli senza distinzione.
Mosè era dunque il candidato perfetto per unire il popolo, per rappresentarlo con dignità dinanzi alla corte e per affrontare il Faraone sul suo stesso campo, finché questi non avesse dichiarato: “Il Signore è giusto, e io e il mio popolo siamo malvagi” (9:27).
Shemot: e le donne sconfissero l’Egitto
