Sukkot: che cosa si commemora realmente?

Sukkòt, come altre festività bibliche, ha un significato agricolo legato al mondo della natura e uno di carattere storico, in quanto commemorazione di un evento vissuto dal popolo ebraico. Il primo significato è chiaramente espresso nella Torah, laddove si afferma che Sukkot è la “festa del raccolto” (Esodo 23:16; 34:22; Deut. 16:13), e che gli Israeliti sono chiamati a celebrare tale solennità ringraziando il Creatore per i prodotti della terra (Deut. 16:15).

Il significato storico è anch’esso illustrato nella Torah, precisamente nel Levitico, che a questo proposito dichiara:

Celebrerete questa festa in onore di HaShem per sette giorni, ogni anno. È una legge perenne, di generazione in generazione. La celebrerete il settimo mese. Abiterete in capanne (sukkot) per sette giorni, tutti quelli che saranno nativi d’Israele abiteranno in capanne, affinché le vostre generazioni sappiano che io feci abitare in capanne i figli d’Israele, quando li feci uscire dalla terra d’Egitto (Levitico 23:42-43).

Sulla base di questi versi, si ritiene generalmente che la festa di Sukkot non commemori un singolo avvenimento o un fatto specifico, bensì l’intero periodo di quarant’anni che gli Israeliti trascorsero nel deserto, abitando in capanne. Ciò rende quindi Sukkot diversa dalle altre due “festività di pellegrinaggio”, che sono invece incentrate su un unico evento: a Pesach si ricorda infatti la notte dell’uscita dall’Egitto, mentre Shavuot, secondo la tradizione, commemora la Rivelazione dei Dieci Comandamenti sul Sinai.

Questa differenza, tuttavia, potrebbe scomparire se prendessimo in considerazione un altro significato che sembra celarsi nelle parole del Levitico.

La parola sukkot, da cui deriva il nome della festa, è tradotta di solito con “capanne”, e si riferisce spesso a rifugi temporanei come quelli usati comunemente dagli eserciti (2 Samuele 11:11), dal bestiame (Genesi 33:17), o da chi cerca riparo dal sole (Giona 4:5).

In quale occasione è scritto che gli Israeliti risiedettero in questo genere di strutture precarie? Ebbene, sorprendentemente, il termine sukkot non è mai utilizzato nella Bibbia per indicare le abitazioni del popolo ebraico durante il periodo trascorso nel deserto: queste sono invece designate con i termini mishkan (“dimora”, che indica spesso il Tabernacolo), e ohel (“tenda”). Il profeta pagano Bil’am, volgendo lo sguardo all’accampamento di Israele, dichiara: “Come sono belle le tue tende (ohalekha), o Giacobbe, le tue dimore (mishkenotekha), o Israele” (Numeri 24:5). Delle famose “capanne” (sukkot) non sembra dunque esserci alcuna traccia.

“…affinché le vostre generazioni sappiano che io feci abitare in capanne i figli d’Israele, quando li feci uscire dalla terra d’Egitto”, dice il Levitico. Se intendiamo alla lettera queste parole, un nuovo significato apparirà con inaspettata chiarezza. In quale occasione gli Israeliti abitarono in capanne? La risposta del testo è: quando Dio li fece uscire dall’Egitto.

Nel raccontare la partenza degli Ebrei durante la notte fatale della decima piaga, il Libro dell’Esodo (12:37) riporta: “Gli Israeliti partirono da Ramses diretti verso Sukkot, in numero di seicentomila uomini capaci di camminare, senza contare i bambini”.

Il termine Sukkot compare qui come nome di una località egiziana, la prima in cui il popolo d’Israele si accampò dopo la fine della schiavitù. Fu in questo luogo che gli Israeliti trascorsero la loro prima notte di libertà, per spostarsi in seguito a Etam, al confine con il deserto (Esodo 13:20).
Il verso del Levitico, secondo Rabbi David Fohrman, potrebbe allora essere tradotto anche in questo modo: “affinché le vostre generazioni sappiano che io feci abitare a Sukkot i figli d’Israele, quando li feci uscire dalla terra d’Egitto”. Con questo nuovo significato, la frase assume dunque un senso perfettamente coerente con quanto la Torah narra a proposito dell’uscita dall’Egitto.

Ma perché la misteriosa località in cui gli Ebrei si accamparono si chiamava proprio “Capanne”? Nonostante il testo biblico non lo spieghi esplicitamente, un indizio importante ci giunge grazie a un altro luogo menzionato nella Torah (questa volta nella Genesi), chiamato anch’esso Sukkot. In riferimento al ritorno in patria di Yaakov (Giacobbe), si legge infatti: “Yaakov partì verso Sukkot, costruì una casa per sé e fece delle capanne per il suo bestiame; per questo quel luogo fu chiamato Sukkot” (Genesi 33:17).

Il patriarca Yaakov, dopo essere sfuggito dalla sua “schiavitù personale” (cioè dall’oppressione del suocero Lavàn), parte per tornare nella sua terra, e durante il viaggio si ferma in un certo luogo e lì costruisce delle capanne (sukkot) per il suo bestiame. Allo stesso modo i suoi discendenti, in fuga dalla loro schiavitù collettiva, trovano riparo in delle capanne, in un territorio che, come è facile dedurre, fu poi chiamato Sukkot proprio per questo motivo.

Alla luce di tutto ciò, possiamo quindi comprendere che il significato storico originario della festa di Sukkot sia legato in realtà a un evento preciso, accaduto anch’esso durante l’uscita dall’Egitto. Pesach e Sukkot sembrano perciò commemorare due aspetti diversi e complementari di un unico grande avvenimento: la redenzione di Israele dalla schiavitù. Mentre uno degli elementi centrali di Pesach è la matzah, il “pane dell’afflizione” che non aveva avuto il tempo di lievitare a causa della fuga dall’Egitto (Esodo 12:39), a Sukkot ci si focalizza invece sulla sukkah, la capanna, residenza provvisoria dove si vive in condizioni instabili. Il pane azzimo e la capanna sono due simboli di precarietà e insicurezza, due immagini umili ed effimere dei bisogni più elementari di ogni essere umano: il nutrimento per sopravvivere e un tetto dove trovare riparo.

Proprio durante la “festa del raccolto”, nei giorni in cui si gioisce per i prodotti della terra e per l’abbondanza accumulata, la Torah comanda agli Israeliti di non concentrarsi sulla ricchezza e sui beni materiali, ma di uscire dalle proprie case per stabilirsi temporaneamente in capanne, in memoria di quell’antica precarietà vissuta dai loro antenati, ricordando che la loro sopravvivenza, in Egitto come nel deserto, come nella terra promessa, non deriva dal possesso o dall’agiatezza materiale, ma da Dio che ha tratto in salvo un popolo di schiavi per farne un “regno di sacerdoti e una nazione santa”.

6 commenti

  1. Grazie per il semplice , chiaro e bell’articolo. L’uomo vive in uno stato di perebbe precarietà ed instabilità in questo mondo, ma solo quando mette tutto se stesso nelle mani di Dio, diventa libero e non più prigioniero del mondo, La legge di DIo è stabile nei cieli, diceva Davide, ed anche l’uomo vivrà nella stabilità e nella certezza restando fedele ed attaccandosi a DIo

    1. Interessante domanda. Secondo Rabbi David Fohrman ciò non è casuale: la Torah pone le due commemorazioni della stessa notte nei punti diametralmente opposti del calendario, in modo da creare una simmetria. Sukkot cade proprio nel periodo in cui il popolo è più suscettibile all’illusione che la sicurezza del proprio futuro risieda nei beni materiali, perciò è anche la festa del raccolto.

      1. Però tutte le altre ricorrenze religiose, Pesach, Shavuot, Purim, Tisha beAv ecc. ricorrono nella data corrispondente all’evento che si celebra: non è singolare che una, e una sola, venga spostata? Soprattutto se si considera che tutte le ricorrenze, oltre al mero ricordare e festeggiare, hanno anche la funzione di insegnare e ammonire, perché mai celebrare un evento in una data diversa allo scopo di insegnare qualcosa che potrebbe essere insegnato in qualunque data, oppure celebrato in una data maggiormente evocativa, ma non con il nome di un evento lontano?

  2. Se Sukkot ricorresse nella data dell’evento storico commemorato, la festa avrebbe coinciso con Pesach, e dunque non avremmo due feste separate ma una sola. Ma l’uscita dall’Egitto non è un evento da commemorare una volta l’anno: è la fonte dell’identità di Israele, da rievocare costantemente. Perciò si può ipotizzare che la Torah abbia posto Sukkot nel punto esattamente opposto del calendario per “distribuire” in modo equo e simmetrico il ricordo di quell’evento. È significativo che l’uscita dall’Egitto sia commemorata proprio nei due punti diametralmente opposti dell’anno ebraico.

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