
Il canto poetico del “servo sofferente”, composto dal profeta Isaia, è un passo biblico di grande bellezza e ricco di significato, divenuto purtroppo un campo di battaglia teologico, utilizzato dal Cristianesimo come cavallo di battaglia per affermare la propria dottrina sul sacrificio di Cristo.
Nell’ambizioso tentativo di restituire questo brano al suo spirito originario, offriamo un commento verso per verso dell’intero capitolo, cercando di accantonare il più possibile le polemiche fra le religioni, a cui abbiamo dedicato un articolo separato (vedi “Isaia 53 – Risposta alle obiezioni cristiane”) allo scopo di chiarire gli aspetti controversi qui tralasciati.
Il contesto
Prima di prendere in esame il passo in questione, è indispensabile considerare il contesto in cui esso è inserito all’interno del libro di Isaia.
Il capitolo 53 contiene l’ultimo di quattro componimenti poetici noti come “Canti del Servo“, incentrati sulla figura dell’eved Hashem, il “servo del Signore”, descritto come un personaggio scelto da Dio per “portare la giustizia alle nazioni” (Isaia 42:1), ma anche come colui che è “cieco” e “sordo” (Isaia 42:19) in quanto incapace di svolgere la missione affidatagli da Dio.
Chi è questo servo? Isaia stesso ci fornisce la risposta in numerose occasioni:
“Ma tu, Israele, mio servo, Giacobbe che ho scelto, progenie di Abramo, mio amico” (Isaia 41:8).
“Ora ascolta, o Giacobbe mio servo, o Israele, che io ho scelto!” (Isaia 44:1).
“Ricorda queste cose, o Giacobbe, o Israele, perché tu sei mio servo” (Isaia 44:21).
“Per amore di Giacobbe mio servo e d’Israele mio eletto, io ti ho chiamato per nome” (Isaia 45:4).
“Tu sei il mio servo, Israele, in cui sarò glorificato” (Isaia 49:3).
È chiaro dunque che il “servo del Signore” sia da identificare con il popolo d’Israele, personificato nel linguaggio poetico come se fosse un unico individuo. Ciò non è affatto insolito se si considera che in molti brani Israele è descritto come un figlio o un fanciullo (vedi Esodo 4:22; Geremia 31:20; Osea 11:1), o come una donna (Isaia 54:1; Osea 2:14; Geremia 3:6); inoltre, anche nel libro di Geremia il popolo ebraico è chiamato “mio servo” (30:10; 46:27). Queste personificazioni allegoriche sono quindi piuttosto comuni nella Bibbia.
Isaia 53 verso per verso
È noto che la divisione in capitoli e versetti che troviamo nelle Bibbie moderne non esisteva nei testi originali, ma è stata introdotta in epoca molto tarda in base a criteri non sempre attendibili.
Il brano relativo al “servo sofferente” non inizia in quello che oggi è il capitolo 53, ma nel capitolo precedente, al verso 13. Il nostro commento inizierà perciò da questo verso.
52:13 Ecco, il mio servo prospererà e sarà innalzato, elevato e grandemente esaltato.
Subito dopo aver preannunciato la Redenzione d’Israele e di Gerusalemme in seguito a un periodo di grande sofferenza (52:1-12), il profeta introduce nuovamente la figura del servo, che, come abbiamo appena visto, è il popolo ebraico descritto poeticamente come un singolo individuo, o meglio, più precisamente, la personificazione del residuo d’Israele rimasto fedele a Dio. Questo servo, che nell’ultima occasione era stato rappresentato come un uomo sottomesso e perseguitato (50:6), ora invece viene elevato alla gloria. Qualcosa è cambiato nella condizione del servo.
52:14-15 Come molti erano stupiti di te, tanto il suo aspetto era sfigurato più di quello di alcun uomo, e il suo volto era diverso da quello dei figli dell’uomo, così egli abbatterà molte nazioni. I re chiuderanno la bocca davanti a lui, perché vedranno ciò che non era mai stato loro narrato e comprenderanno ciò che non avevano udito.
I re delle nazioni osservano la nuova prosperità del servo e rimangono sconvolti e stupiti dinanzi a colui che consideravano tanto spregevole da non essere neppure umano. Il profeta descrive così la meraviglia dei popoli che assistono alla restaurazione d’Israele.
Si adempie in questo verso ciò che Isaia aveva già predetto: “Ecco, tutti quelli che si sono infuriati contro di te saranno svergognati e confusi” (41:11).
53:1 «Chi ha creduto a ciò che abbiamo udito, e a chi è stato rivelato il braccio del Signore?»
Da questo punto, a parlare in prima persona sono i re delle nazioni. Ciò si comprende dal fatto che, secondo quanto il profeta ha appena affermato, sono proprio i re a mostrare incredulità davanti alla sorprendente elevazione del servo. Inoltre, coloro che parlano dichiarano di aver assistito alla rivelazione del “braccio del Signore”, e poco prima, Isaia aveva detto: “Il Signore ha messo a nudo il suo santo braccio agli occhi di tutte le nazioni” (52:10).
Il testo ci riporta dunque le parole di stupore espresse dalla voce dei re della terra. Per quanto possa sembrare insolito, non è l’unica volta che ciò accade nella Bibbia. Nel Salmo 2, infatti, i capi dei popoli prendono la parola senza che il testo lo dica esplicitamente:
“I re della terra si ritrovano e i principi si consigliano insieme contro il Signore e contro il suo Unto: «Rompiamo i loro legami e sbarazziamoci delle loro funi»” (Salmi 2:2-3).
Un caso simile, in cui il soggetto che parla in prima persona cambia improvvisamente, si trova anche in Isaia 14:16.
Il riferimento al “braccio del Signore” allude a una potente liberazione da parte di Dio e richiama l’Esodo dall’Egitto (vedi Esodo 6:6; Deuteronomio 26:8). La Redenzione di cui parla Isaia è la stessa annunciata anche da Michea:
“Come ai giorni in cui uscisti dal paese d’Egitto, io farò loro vedere cose meravigliose. Le nazioni vedranno e si vergogneranno di tutta la loro potenza; si metteranno la mano sulla bocca, le loro orecchie rimarranno sorde” (Michea 7:15-16).
53:2 Egli è cresciuto davanti a lui come un ramoscello, come una radice da un arido suolo. Non aveva figura né bellezza da attirare i nostri sguardi, né apparenza da farcelo desiderare.
L’immagine della pianta cresciuta in una terra arida indica la condizione del popolo ebraico in esilio, come in Ezechiele 19:13: “Ora è piantata nel deserto in un suolo arido ed assetato”.
53:3 Disprezzato e rigettato dagli uomini, uomo di dolori, conoscitore della sofferenza, simile a uno davanti al quale ci si copre la faccia, era disprezzato, e noi non ne facemmo stima alcuna.
I re delle nazioni continuano ad esprimere il disprezzo con cui guardavano al popolo d’Israele nel corso del suo esilio. Le parole utilizzate sono simili a quelle che troviamo nel Salmo 44, in cui gli Israeliti dicono a Dio: “Tu ci hai resi lo zimbello delle nazioni; nei nostri confronti i popoli scuotono il capo” (Salmi 44:14; vedi anche Isaia 49:7).
53:4 Eppure egli portava le nostre malattie e si era caricato dei nostri dolori.
Lo scopo dell’esilio e della sofferenza d’Israele è quello di portare alla Redenzione del mondo intero. Israele è infatti “luce delle nazioni” e il suo compito è di “portare la salvezza fino alle estremità della terra” (Isaia 49:6). Per compiere questa missione, il popolo ebraico deve pagare un prezzo molto caro, subendo ogni sorta di atrocità. Alla fine, però, le nazioni comprenderanno che il cammino doloroso d’Israele ha portato beneficio a tutta l’umanità (Isaia 60:3).
L’idea non è del tutto nuova: già Yosef (Giuseppe), figlio di Giacobbe, aveva dichiarato ai suoi fratelli che le proprie disgrazie erano state impiegate da Dio come strumento per far sopravvivere un’intera nazione (Genesi 50:20).
Nell’esprimere la loro penitenza, i re delle nazioni ammettono che essi avrebbero meritato di subire le sofferenze che sono state inflitte al servo.
53:4-5 Noi lo ritenevamo colpito, percosso da Dio e umiliato, ma egli è stato ferito dalle nostre trasgressioni, schiacciato dalle nostre iniquità.
Prima che il servo fosse redento, le nazioni lo avevano perseguitato e afflitto senza il minimo senso di colpa; esse infatti credevano che i dolori inflitti a Israele fossero stati decretati da Dio. Lo stesso concetto è espresso in modo più chiaro da Geremia:
“Il mio popolo fu come un gregge di pecore smarrite. Tutti quelli che le trovavano, le divoravano, e i loro nemici dicevano: Non siamo colpevoli, poiché essi hanno peccato contro il Signore” (Geremia 50:6-7).
Ora, invece, i re della terra ammettono la loro responsabilità dichiarando che Israele ha sofferto a causa delle loro iniquità: sono state le violenze compiute dai popoli ad aver causato la rovina degli Ebrei.
In alcune versioni della Bibbia, questo verso è stato tradotto in maniera erronea: “Egli è stato trafitto per i nostri delitti, schiacciato per le nostre iniquità” (edizione CEI), come se il servo fosse stato punito per i peccati di altri, un concetto contrario all’etica della Torah (vedi Deut. 24:16; Ezechiele 18:20). In realtà, davanti alle parole “trasgressioni” e “iniquità”, il testo ebraico ha la lettera mem come prefisso, che significa “da”. Il senso è dunque che le ingiustizie delle nazioni hanno causato le sofferenze del servo.
53:5 (b) Il castigo della nostra pace è su di lui, e con le sue lividure noi siamo stati guariti.
“Il castigo della nostra pace” (Musar Sh’lomenu) è il caro prezzo che Israele deve pagare per redimere l’intera umanità.
Lo Zohar afferma: “Perché Israele è sottomesso a tutte le nazioni? Affinché grazie ad esso tutto il mondo sia preservato” (Soncino Zohar, Shemot, 2, 16b).
53:6 Noi tutti come pecore eravamo erranti, ognuno di noi seguiva la propria via, e il Signore ha fatto abbattere su di lui l’iniquità di noi tutti.
I peccati delle nazioni si abbattono sul servo nel senso che egli deve sopportare le loro ingiustizie. Per duemila anni Israele è stato scelto come capro espiatorio del mondo, poiché gli Ebrei erano considerati una stirpe maledetta.
Molti traducono questo versetto in modo diverso:”il Signore ha fatto ricadere su di lui l’iniquità di noi tutti”; ma il verbo הִפְגִּיעַ (hif’gia), che appare anche in Isaia 59:16, significa abbattere, far scontrare, o anche supplicare o intercedere (Rashi infatti lo intende come: “Il Signore ha accettato la sua preghiera per la nostra iniquità”).
L’immagine della confusione che offusca i popoli, in contrapposizione ad Israele, ricorre anche in Isaia 60:2.
53:7 Maltrattato e umiliato, non aprì bocca. Come un agnello condotto al macello, come pecora muta davanti ai suoi tosatori non aprì bocca.
La metafora qui impiegata si trova anche nel Salmo 44 in riferimento alle sofferenze degli Israeliti: “Tu ci hai dati via come pecore da macello e ci hai dispersi fra le nazioni” (v.11, vedi anche v.22).
53:8 Fu portato via dall’oppressione e dal giudizio. E chi potrà immaginare la sua generazione? Poiché è stato strappato dalla terra dei viventi e colpito dalle trasgressioni del mio popolo.
La miseria della condizione di esilio in cui si trova il popolo ebraico è paragonata alla morte, come in Ezechiele 37, il capitolo in cui la nazione d’Israele appare nella forma di ossa secche abbandonate in una valle. Prima di essere riscattato, il servo sembrava ormai essere stato strappato dal mondo dei vivi.
53:9 Fu con il malvagio la sua tomba, e con il ricco nelle sue morti (bemotav, plurale)
Troviamo ancora la metafora della morte per rappresentare l’esilio e la distruzione subiti da Israele. Il testo ci dice che il servo è stato seppellito “con il malvagio”, in riferimento alle sepolture ignominiose e prive di onori che spettavano agli empi. L’espressione “con il ricco nelle sue morti” può alludere al fatto che a condannare a morte il servo sono stati i potenti della terra. La frase non può essere applicata alla vicenda di Gesù, come invece sostiene il Cristianesimo, poiché egli morì con i malvagi e poi fu posto nel sepolcro di un ricco, cioè l’esatto opposto di quanto afferma Isaia in questo verso.
53:9 (b) perché non aveva commesso alcuna violenza e non c’era stato alcun inganno nella sua bocca.
La stessa idea è espressa dal profeta Sofonia: “Il residuo d’Israele non commetterà iniquità e non proferirà menzogne, né si troverà nella loro bocca una lingua ingannatrice” (3:12).
Il testo non vuole dirci che il popolo d’Israele sia perfetto o che non abbia mai compiuto peccati. Piuttosto, il senso è che il servo viene accusato ingiustamente di crimini che non ha commesso, come afferma David parlando dei suoi nemici che lo perseguitano senza motivo (vedi Salmi 35:7; 69:4).
53:10 Ma il Signore desiderò percuoterlo e farlo soffrire. Se egli pone la sua vita come asham (offerta per la colpa), egli vedrà una progenie, prolungherà i suoi giorni, e la volontà del Signore prospererà nelle sue mani.
Da ora, come sarà più chiaro al verso successivo, a parlare in prima persona non sono più i re delle nazioni, e il testo segue nuovamente la prospettiva di Dio.
Il Targum Yonatan interpreta questo verso offrendo la seguente parafrasi: “Ma piacque al Signore di affinare e purificare i superstiti del Suo popolo per purificare le loro anime dal peccato; essi vedranno il regno messianico, avranno molti figli e figlie, prolungheranno le loro vite, e chi osserva la Legge del Signore prospererà”.
L’offerta per la colpa (asham), secondo il Levitico (capitoli 5-6), è un sacrificio da presentare nel Santuario con la confessione pubblica di una propria trasgressione volontaria.
53:11 Egli vedrà il frutto del travaglio della sua anima e ne sarà soddisfatto. Con la sua conoscenza, il giusto, il mio servo, renderà giusti molti, e si caricherà delle loro iniquità.
In precedenza, il testo ci aveva già reso noto il fatto che la Redenzione d’Israele porterà beneficio all’intera umanità. Ora, in questo verso, ci viene rivelato anche il modo in cui ciò avverrà: Israele porterà la giustizia alle nazioni con la sua conoscenza, cioè insegnando la Torah ai popoli del mondo, come affermano tutti i profeti (vedi Isaia 2:3; 42:4; Michea 4:2-3; Zaccaria 8:23).
Il popolo ebraico è chiamato “regno di sacerdoti” (Esodo 19:6), e Isaia stesso definisce gli Israeliti “sacerdoti del Signore” (61:6). Come il sacerdote, secondo la Torah, ha il compito di rappresentare il popolo dinanzi a Dio e di presentare i peccati della nazione affinché siano perdonati (vedi Numeri 18:1), così anche Israele, in quanto popolo sacerdotale dell’umanità, si carica del peso delle colpe di tutti gli altri per chiedere a Dio l’espiazione.
53:12 Perciò gli darò la sua parte fra i grandi, ed egli dividerà il bottino con i potenti, perché ha versato la sua vita fino a morire ed è stato annoverato fra i malfattori; egli ha portato il peccato di molti e ha interceduto per i trasgressori.
La promessa secondo cui Israele otterrà il bottino dei potenti della terra ricorre in altri brani di Isaia (33:23; 61:8; 60:11).
L’immagine di Israele che porta il peccato di molti e intercede per i trasgressori elabora ulteriormente il concetto del ruolo sacerdotale della nazione ebraica.
Il passo, che si conclude con la profezia relativa alla ricompensa che il servo riceverà dopo il suo travaglio, è seguito da un altro brano (Isaia 54) in cui il profeta continua a consolare il suo popolo annunciando la fine delle disgrazie. La Redenzione promessa, come abbiamo visto, non porta all’esclusione del resto del mondo, ma passa attraverso il riconoscimento, da parte delle nazioni, di un grande paradosso: il popolo odiato, perseguitato e reietto, sarà quello che guiderà il genere umano sulla via della giustizia nell’era messianica.