In occasione della solennità di Yom Kippur, il “Giorno dell’Espiazione” stabilito nella Torah, la liturgia ebraica prevede la lettura del libro di Giona (Yonah), un testo breve e dal carattere narrativo incentrato sul tema del ravvedimento.
Tra le tante storie bibliche, quella di Giona è sicuramente una delle più conosciute. Si tratta della vicenda di un profeta a cui Dio affida il compito di predicare nella città corrotta di Ninive, ma che si rifiuta di compiere questa missione e si imbarca nel vano tentativo di sfuggire ai suoi doveri.
Ma i piani di Dio prevalgono su quelli di Giona. Dopo essere stato gettato in mare in seguito a una tempesta, il profeta viene infatti inghiottito da un grande pesce, per poi riemergere dagli abissi ancora vivo e con una coscienza rinnovata. Giona decide quindi di ubbidire al comando divino e si reca perciò a Ninive, dove preannuncia la distruzione della città malvagia. Ma questa distruzione non avverrà mai, perché i Niniviti riconoscono i propri peccati e ottengono la misericordia di Dio attraverso il pentimento.
La semplicità della trama e la presenza di elementi romanzeschi non devono farci credere che quello di Giona sia un libro poco complesso, di scarsa rilevanza o persino ingenuo. Al contrario, questo testo formato da soli 48 versi è ricco di sfumature da cogliere, di significati celati e di insegnamenti di grande importanza. In un suo articolo dedicato al libro di Giona, Rav Roberto Della Rocca scrive:
“La storia è narrata come se questi avvenimenti fossero realmente accaduti, invece è stata scritta in un linguaggio simbolico e tutti gli avvenimenti realistici in essa descritti rappresentano le esperienze interiori del protagonista. Troviamo una serie di simboli che si susseguono l’un l’altro: salire sulla nave, scendere nel ventre di essa, cadere addormentato, trovarsi in mare, e quindi nel ventre del pesce. Tutti questi simboli stanno per la medesima esperienza interiore: per la condizione di trovarsi protetto, isolato e distaccato da ogni comunicazione con gli altri esseri umani. Sebbene il ventre della nave, il sonno profondo, il mare e il ventre del pesce siano nella realtà diversi l’uno dall’altro, essi sono tuttavia espressioni della medesima esperienza interiore, cioè della fusione dei concetti di fuga e di isolamento” (fonte: http://www.archivio-torah.it/feste/kippur/librogiona.pdf).
Giona e le seconde opportunità
Nel libro di Giona, come spesso avviene all’interno della Bibbia ebraica, il messaggio più importante del testo è affidato alla struttura oltre che agli eventi narrati. Dividendo il libro a metà, si possono notare chiari parallelismi tra le sequenze della prima parte e quelle della seconda:
Prima parte (capitoli 1-2) | Seconda parte (capitoli 3-4) |
Dio ordina a Giona di andare a Ninive | Dio ordina a Giona di andare a Ninive |
I marinai gridano a Dio | Gli abitanti di Ninive gridano a Dio |
Giona prega nel ventre del grande pesce | Giona prega sulla terra arida |
Dio risponde a Giona |
La prima parte si conclude nel momento in cui Giona, colpevole di aver tentato di sottrarsi alla Volontà di Dio, si pente e prega nel ventre del pesce che lo ha inghiottito, ricevendo così la salvezza. La Teshuvah, cioè il ravvedimento (o meglio il “ritorno a Dio”), fa sì che la storia riparta da zero. Non è un caso perciò che la seconda metà del libro inizi in maniera praticamente identica alla prima. Questo sembra essere anche il vero significato di un’affermazione del Midrash secondo cui Giona fu vomitato dal pesce nello stesso luogo da cui aveva intrapreso il suo viaggio. Il ravvedimento dà vita a una nuova opportunità e cancella gli errori del passato. Ma la seconda parte introduce anche un elemento del tutto nuovo, che non ha una corrispondenza nella prima: la risposta di Dio a Giona. Quando il profeta fuggiva dal suo destino e dalle sue responsabilità, non poteva esistere alcun dialogo tra l’uomo e il suo Creatore. Soltanto in seguito al suo ravvedimento, e dopo aver completato la missione, Giona si rende meritevole di ricevere una risposta da Dio e di poter far valere le proprie ragioni.
Echi del Diluvio
È interessante notare come il libro di Giona contenga numerosi riferimenti al racconto del Diluvio universale narrato nella Genesi. Alcuni di questi riferimenti sono piuttosto evidenti, altri appaiono invece più sottili e misteriosi, tali da poter essere individuati solo attraverso i parallelismi lessicali del testo ebraico.
Innanzitutto, il nome stesso del profeta ci riporta immediatamente all’antica vicenda del Diluvio. Yonah significa infatti “colomba“, l’uccello che Noè mandò fuori dall’arca allo scopo di verificare se le acque si fossero ritirate dalla superficie della terra (Genesi 8:8-12). Proprio come la colomba, il profeta Giona riesce a completare la sua missione solo al secondo tentativo.
Nella Genesi (6:5;11), le due parole chiave usate per descrivere la malvagità della generazione del Diluvio sono ra’a (“male”) e chamas (violenza). Questi due termini ricompaiono nel libro di Giona in riferimento alla condotta immorale dei Niniviti (1:1; 3:8).
Entrambe le storie sono accomunate dal tema di un viaggio in mare a bordo di una nave. Il Diluvio ha una durata di quaranta giorni (Genesi 7:4), lo stesso periodo di tempo concesso ai Niniviti per pentirsi (Giona 3:4). Dopo essere uscito dall’arca, Noè compie delle offerte sacrificali (Genesi 8:20), e anche i marinai, appena scampati al naufragio, “offrirono un sacrificio al Signore e fecero voti” (Giona 2:10).
Nel racconto del Diluvio, la corruzione non sembra essere limitata solo alla razza umana, ma coinvolge addirittura “ogni carne” (Genesi 6:12). Questo curioso e insolito legame tra la condotta degli esseri umani e il mondo animale si ripresenta nel libro di Giona, poiché in esso leggiamo che la penitenza degli abitanti di Ninive riguardava “uomini e bestie, armenti e greggi” (3:7).
Infine, in entrambe le storie, troviamo il vocabolo nachem (“pentirsi”, “consolarsi”, o “aver compassione”) applicato a Dio. Nella Genesi (6:6), Dio “si pente” di aver creato l’uomo a causa della sua malvagità, ma nella vicenda di Ninive la natura di questo “pentimento” è del tutto diversa:
“Quando Dio vide ciò che essi facevano, e cioè che si convertivano dalla loro via malvagia, Dio si pentì del male che aveva detto di far loro e non lo fece” (Giona 3:10).
Questo contrasto può forse aiutarci a comprendere il motivo per cui il libro di Giona sia così pieno di “echi del Diluvio”. Quella di Noè è una storia di giudizio, un racconto in cui la natura umana è descritta in toni pessimistici, e persino la promessa divina di non distruggere più la terra è messa in relazione all’immancabile perversione degli uomini:
“E il Signore disse in cuor suo: «Io non maledirò più la terra a motivo dell’uomo, I disegni del cuore dell’uomo sono malvagi fin dalla sua fanciullezza»” (Genesi 8:21).
Giona, invece, ci trasmette una lezione diversa: quella del ravvedimento e della possibilità di abbandonare il peccato anche quando la situazione sembra compromessa e irrimediabile. Si tratta di una lezione difficile da accettare anche per lo stesso Giona, che si ritira in solitudine, deluso per la mancata distruzione della città.
Tuttavia, l’insegnamento che abbiamo tratto dalla storia di Ninive non è in contraddizione con quanto si afferma nella Genesi. Il libro di Giona non descrive una concezione diversa di Dio e della Sua misericordia. È vero semmai l’opposto: Dio è sempre lo stesso, e a modificarsi sono i comportamenti umani. Possiamo addirittura riconoscere un “filo evolutivo” che parte dalla Genesi, continua nel Libro dell’Esodo e riemerge fra le pagine di Giona.
Il percorso inizia con il Diluvio. Qui, come abbiamo detto, al centro della vicenda è posto unicamente il giudizio. La salvezza spetta solo al singolo (Noè, con la sua famiglia), degno di essere risparmiato. La successiva storia di Sodoma segna già una fase diversa. Questa volta, l’uomo a cui Dio rivela l’imminente distruzione dei malvagi non si rassegna e non attende passivamente la rovina dei suoi simili. Abramo, infatti, arriva addirittura a discutere con il Sovrano dell’universo, e ad intercedere a favore della comunità corrotta.
Una situazione simile, connessa alle precedenti tramite parallelismi lessicali, si verifica in occasione del peccato del vitello d’oro. Qui Mosè, nel momento in cui Dio gli annuncia la distruzione degli Israeliti, non si mostra passivo, e non si limita neppure ad intercedere per i peccatori. Mosè chiede persino di essere sacrificato al posto del popolo, pur non essendo colpevole, e in questa coraggiosa richiesta supera il suo antenato Abramo: “Ora ti prego, perdona il loro peccato, o altrimenti, cancellami dal tuo libro che hai scritto!” (Esodo 32:32).
Il passo successivo avviene nel libro di Giona. Qui, per la prima volta, non è il singolo ad agire. Il personaggio più maldestro è proprio l’unico uomo che comunica con Dio. A richiamare la misericordia divina è invece la comunità che sta per essere annientata:
“Allora i Niniviti credettero a Dio, proclamarono un digiuno e si vestirono di sacco, dal più grande al più piccolo di loro” (Giona 3:5).
Siamo davanti a una presa di posizione collettiva che non ha precedenti biblici. Il giudizio non viene evitato grazie ai meriti di un audace profeta, ma grazie a un popolo empio che scopre la potenza della Teshuvah. Il percorso trova così il suo pieno completamento.
L’universalità del libro di Giona
Dov’è Dio?
A questa domanda, Giona sembra avere una risposta molto chiara: Dio è nella Terra di Israele. Dopo aver udito la sua chiamata profetica, egli infatti si illude di poter sfuggire dalla presenza del Creatore del mondo semplicemente imbarcandosi verso una meta lontana. Fra gli intenti del libro di Giona c’è anche quello di dimostrare che questa visione limitativa della Divinità non corrisponde al vero. La giurisdizione di Dio non ha confini, ma si estende sulla terraferma, in mare, a Gerusalemme e persino in una città pagana.
Secondo alcuni commentatori, tra cui Rashi e Radak, il motivo per cui Giona fugge dal proprio destino è strettamente legato al fatto che egli non voleva predicare a una popolazione non ebraica. Ninive, la capitale dell’Assiria, era una città idolatra e nemica di Israele. Se i suoi abitanti si fossero ravveduti, ciò sarebbe stato un disonore per gli Ebrei, che invece non avevano ascoltato i richiami dei profeti. Dunque Giona, secondo questa interpretazione del racconto, non voleva rischiare che un popolo straniero apparisse migliore di Israele a causa della sua predicazione. Al di là di eventuali sentimenti nazionalistici, è proprio il testo biblico a narrare il crescente desiderio di isolamento da parte di Giona, come nota Rav Della Rocca nel già citato articolo:
Giona, nel tentativo di sottrarsi all’obbligo verso i suoi simili, si isola sempre più finché, nel ventre del pesce, l’elemento di isolamento si è talmente trasformato in elemento di reclusione che egli non può più sopportarlo oltre ed è costretto a pregare Dio di liberarlo da quella situazione che egli stesso aveva determinato.
Da questo punto di vista, il profeta rappresenta l’intero popolo ebraico, che è chiamato ad essere un popolo che dimora solo e non è annoverato fra le nazioni (Numeri 23:9), ma anche, al contempo, luce delle genti (Isaia 49:6). Israele vive da sempre la tensione irrisolta tra la sua missione particolare e le sue responsabilità nei confronti dell’intero genere umano.
Proprio all’interno di questo dilemma si inserisce la lezione universale del libro di Giona. Il Dio d’Israele è anche Dio degli altri popoli e di tutto il creato. La sua cura non conosce limiti né geografici né tanto meno etnici. Non è un caso che, in due sequenze parallele del libro (vedi schema precedente), a rivolgersi a Dio siano personaggi non-Ebrei: prima i marinai diretti a Tarshish, poi gli abitanti di Ninive.
L’ultimo a imparare questa lezione è proprio il profeta. Egli infatti non riesce ad accettare che un popolo malvagio sia stato risparmiato dalla distruzione, e chiede persino di morire per non dover sopportare questa presunta ingiustizia. Ma lo stesso Giona, poco dopo, si addolora nel vedere che una pianta di ricino sotto cui si era riparato è appassita. E qui, con un’immagine dall’alto valore espressivo, si colloca la conclusione del libro:
E il Signore disse: «Tu hai avuto compassione per la pianta per cui non hai faticato né hai fatto crescere, e che in una notte è cresciuta e in una notte è perita. E io non dovrei aver compassione di Ninive, la grande città, nella quale ci sono centoventimila persone che non sanno distinguere la loro destra dalla loro sinistra, e una grande quantità di bestiame?»