Servi e padroni: due prospettive

Il quinto libro della Torah, chiamato in ebraico Devarim (“Parole”), è più noto con il suo nome greco di “Deuteronomio”, che significa “seconda Legge”. All’epoca dei Maestri del Talmud, esso era anche chiamato Mishneh Torah, cioè “ripetizione della Torah”, un altro nome che sembra esprimere l’idea secondo cui questo libro sarebbe una sorta di compendio volto a riproporre e a sintetizzare leggi già note, ripetendo e riconfermando il messaggio dei quattro libri precedenti[1].

Questa concezione del Deuteronomio appare però fortemente riduttiva, oltre che spesso non corrispondente alla realtà. Se da un lato è innegabile che molti dei precetti esposti nel libro erano già stati rivelati  nell’Esodo e nel Levitico, è tuttavia anche vero che tali precetti non vengono semplicemente “ripetuti” o “riconfermati”. Piuttosto, il Deuteronomio presenta le leggi già note in una nuova forma, talvolta rielaborandole o aggiungendo alcuni particolari nuovi alle formulazioni precedenti


Un perfetto esempio che è utile citare è costituito dalle disposizioni legali relative all’eved ivrì, il “servo ebreo”. In Esodo  21:2-6 leggiamo:

Se acquisti un servo ebreo, egli ti servirà per sei anni, ma al settimo uscirà libero, senza pagare nulla. Se è venuto solo, se ne andrà solo; se aveva moglie, la moglie se ne andrà con lui. Se il suo padrone gli dà moglie e questa gli partorisce figli e figlie, la moglie e i figli di lei saranno del padrone, ed egli se ne andrà solo. 
Ma se il servo fa questa dichiarazione: «Io amo il mio padrone, mia moglie e i miei figli, non voglio andarmene libero», allora il suo padrone lo farà comparire davanti ai giudici, lo farà accostare alla porta e allo stipite; poi il suo padrone gli forerà l’orecchio con un punteruolo ed egli lo servirà per sempre.

Circa quarant’anni dopo, nell’esporre la medesima legge, Moshè comanda agli Israeliti:

Se un tuo fratello ebreo o una sorella ebrea si vende a te, ti servirà sei anni, ma al settimo lo manderai via da te libero. Quando poi lo manderai via da te libero, non lo lascerai andare a mani vuote; gli fornirai generosamente doni del tuo gregge, della tua aia e del tuo strettoio. Gli darai ciò con cui HaShem, il tuo Dio, ti avrà benedetto, e ti ricorderai che sei stato schiavo nel paese d’Egitto e che HaShem, il tuo Dio, ti ha redento; perciò oggi io ti comando questo. Ma se egli dovesse dirti: «Non voglio andarmene da te», perché ama te e la tua casa, dato che prospera con te, allora prenderai un punteruolo, gli forerai l’orecchio contro la porta ed egli sarà tuo servo per sempre (Deut. 15:12-17).

Come si può notare, la versione del Deuteronomio, benché essenzialmente coerente con quella dell’Esodo, presenta però alcune interessanti differenze. In particolare:

  • Soltanto in Esodo leggiamo delle disposizioni relative all’eventuale moglie del servo: “Se è venuto solo, se ne andrà solo; se aveva moglie, la moglie se ne andrà con lui”.
  • La seconda versione aggiunge l’obbligo di fornire doni al servo per il suo sostentamento in seguito alla sua liberazione.
  • Secondo il Deuteronomio, le norme prescritte valgono ugualmente per i servi maschi e per le femmine. In Esodo, invece, alla servitù femminile era dedicato un brano separato con norme specifiche.

Le differenze tra le versioni parallele, in questo e in molti altri casi, non sfuggono alla moderna critica biblica di ambito accademico, che vede in esse una prova del fatto che la Torah non sia un’opera unitaria ed organica, bensì un testo composto da tradizioni contrastanti e redatto in seguito all’unione di documenti composti da autori diversi.

In contrasto, l’approccio seguito tipicamente in ambito religioso ebraico si basa sulle interpretazioni dei commentatori classici della Torah, i quali tendono a conciliare le diverse versioni integrandole reciprocamente. Rashi (1040 – 1105), spiegando il nostro brano del Deuteronomio, scrive infatti:

“La Torah non aveva forse già dichiarato ‘Se acquisti un servo ebreo…’ (Esodo 2:2)? Ebbene, la ripetizione qui aggiunge due nuovi dettagli: innanzitutto, che anche la serva deve andare in libertà dopo sei anni, e inoltre che il servo liberato deve essere fornito di doni”.

Tale approccio può essere seguito qui senza difficoltà, poiché le due versioni prese in esame non si contraddicono, ma possono facilmente integrarsi a vicenda. Il commento di Rashi, tuttavia, non risponde a una domanda fondamentale: per quale motivo i due testi presentano delle differenze? Ovvero: come possiamo spiegare la scelta di includere nuovi dettagli in Deuteronomio e di ometterne al contempo altri già presenti in Esodo? Esiste una logica?

La risposta, come spiegano Rav Yonatan Grossman e Rav Joshua Berman, risiede nel diverso contesto storico che caratterizza la narrazione dell’Esodo rispetto a quella del Deuteronomio. Nel primo caso, il popolo ebraico, giunto ai piedi del Monte Sinai, era ancora formato da una moltitudine di schiavi appena liberati. Nel secondo, invece, gli Israeliti a cui Moshè proclamava la Legge divina appartenevano a una nuova generazione, e si apprestavano a lasciare finalmente il deserto per conquistare la terra promessa e diventare una nazione sedentaria e ben organizzata.

Tenendo conto di ciò, bisogna poi notare che la prima formulazione delle leggi sulla servitù è posta prevalentemente dalla prospettiva del servo. Del padrone si parla infatti in terza persona (tranne che nel v.2): “Se il suo padrone gli dà una moglie… Allora il suo padrone lo farà comparire davanti ai giudici…”.

All’opposto, nella seconda versione, il testo si rivolge direttamente al padrone: “Quando lo manderai via da te… Gli fornirai doni del tuo gregge…” ecc.
La differenza di prospettiva è confermata dai verbi utilizzati per indicare l’uscita in libertà del servo: in Esodo 21:2 è impiegato Yatzà, che significa appunto “uscire”, mentre in Deuteronomio 15:12-13 troviamo Shalàch (“mandare”), che descrive un’azione compiuta dal padrone.

Il brano dell’Esodo ha lo scopo di definire la condizione giuridica del servo dinanzi agli occhi di un popolo che ha appena abbandonato la schiavitù in Egitto. In simili circostanze, è possibile che lo stato di servitù apparisse piuttosto comodo e persino preferibile a molti Israeliti, incapaci di immaginare una vita da persone libere e indipendenti. Mettersi perennemente al servizio di un loro fratello israelita poteva sembrare un’opzione poco gravosa a uomini che si erano sottomessi per molti anni agli oppressori egizi. Per questo motivo, la Torah contrasta tale forma di pensiero legata alle miserie del passato ponendo enfasi sulla liberazione del servo dopo sei anni, e si concentra sui diritti del servo illustrando anche la condizione di sua moglie e dei suoi figli.

Nel Deuteronomio, la prospettiva è rovesciata: Moshè si rivolge a coloro che diventeranno presto proprietari di terreni e abitazioni, e quindi, inevitabilmente, anche di manodopera servile. A questi futuri padroni il testo ordina di non mandare via a mani vuote il proprio servo (chiamato ora “fratello ebreo” e “sorella ebrea”, per sottolineare lo spirito egualitario di fratellanza), ma di fornirgli i doni “con cui HaShem, il tuo Dio ti avrà benedetto”, ricordando, con questa espressione, che le ricchezze ottenute provengono dalla grazia del Creatore, affinché l’uomo non si insuperbisca.

“Ti ricorderai che sei stato schiavo nel paese d’Egitto” (Deut. 15:15), afferma inoltre il brano, per esortare il padrone a non dimenticare il passato umile del popolo d’Israele, in modo che a nessuno venga in mente di imitare gli oppressori egizi che affliggevano gli schiavi senza tregua. Tutti questi principi si applicano ugualmente anche alla servitù femminile, per cui le distinzioni presenti in Esodo non risulterebbero pertinenti.

Una volta chiarite le differenze in base al contesto storico e narrativo, abbiamo scoperto dunque un quadro coerente e una progressione logica nelle diverse formulazioni dei precetti della Torah. Le considerazioni qui applicate all’esempio delle leggi sulla servitù hanno anche una validità più generale, e possono essere applicate infatti a tanti altri casi controversi, primo fra tutti quello dei Dieci Comandamenti.

In Esodo 20:8-11, Dio proclama sul Sinai il Comandamento del riposo sabbatico, ordinando al popolo di santificare il settimo giorno poiché in esso, al termine della Creazione, Egli cessò la Sua opera. Lo Shabbat è legato quindi a una dimensione prevalentemente religiosa.

In Deuteronomio 5:12-15, nella “ripetizione” dei Dieci Comandamenti, il riposo dello Shabbat viene però associato a un motivo di carattere storico ed eticoRicordati che sei stato schiavo nel paese d’Egitto e che il HaShem, tuo Dio, ti ha fatto uscire di là con mano potente e braccio teso. Perciò HaShem tuo Dio ti ordina di osservare il giorno di Shabbat (v. 15).

Analogamente a quanto abbiamo affermato in precedenza, anche in questo caso possiamo ritenere che la soluzione all’apparente discrepanza sia da individuare nelle nuove circostanze sociali in cui il popolo ebraico si trovava alla vigilia dell’ingresso nella terra promessa, quando molti Israeliti stavano per prendere possesso di terreni e di manodopera. Alla luce del contesto del Deuteronomio, è quindi ragionevole che il Comandamento dello Shabbat sia incentrato sulle responsabilità etiche dei proprietari terrieri nei confronti dei lavoratori, senza che ciò costituisca una negazione di quanto era stato già rivelato nel libro dell’Esodo.

La Torah, nelle parole dei Maestri che la trasmettono alle generazioni future – primo fra tutti Moshè -, non ha dunque una forma monolitica, ma segue il popolo d’Israele nel suo lungo peregrinare per venire incontro alle sue diverse esigenze.

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[1] È probabile che, come suggerisce un’altra ipotesi, il nome Mishneh Torah alluda in realtà al fatto che il Deuteronomio esorta gli Israeliti a “ripetere” costantemente i precetti della Torah: “Questi precetti che oggi ti comando, ti stiano fissi nel cuore; li ripeterai ai tuoi figli, ne parlerai quando sarai seduto in casa tua, quando camminerai per via, quando ti coricherai e quando ti alzerai” (Deut. 6:5).

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