Il “doppio rapimento” di Sarah

Avram scese in Egitto per soggiornarvi, perché nel paese vi era una grande carestia. E avvenne che, come stava per entrare in Egitto, disse a Sarai sua moglie: «Ecco, io so che tu sei una donna di bell’aspetto; così avverrà che, quando gli Egiziani ti vedranno, diranno: “Costei è sua moglie”, uccideranno me, mentre lasceranno te in vita. Ti prego, dì che sei mia sorella, perché io sia trattato bene a motivo di te, e la mia vita sia salva per amor tuo» (Genesi 12:10-13).

La vita di Avraham (Abramo) è un’avventura piena di prove e difficoltà. Il suo viaggio non si ferma mai: non molto tempo dopo essere giunto nella terra promessagli da Dio come eredità eterna, il futuro padre degli Ebrei è già costretto a spostarsi in Egitto, dove sua moglie Sarah (all’epoca chiamata Sarai), creduta sua sorella, viene condotta alla corte del Faraone, diventando una vittima silente di una cultura che non ha pietà per le donne. Il lieto fine della vicenda è noto: un flagello divino si abbatte sulla casa reale, la verità celata viene scoperta, e Avraham e Sarah lasciano il paese sani e salvi.
Più avanti, tuttavia, al capitolo 20, la Torah ci narra una vicenda molto simile, questa volta ambientata a Gherar, città dei Filistei:

Avraham […] si stabilì a Gherar. E Avraham diceva di Sarah sua moglie: «È mia sorella». E Avimelekh, re di Gherar, mandò a prendere Sarah (Genesi 20:1-2).

Le analogie con il racconto precedente sono evidenti: Sarah, di nuovo presentata come la sorella di Avraham, viene notata dal re del paese che la rapisce, per poi essere infine lasciata libera grazie all’intervento divino (v. 3-7). Come si può spiegare questa apparente “duplicazione” della medesima storia?
La perplessità del lettore cresce ancora di più nel momento in cui, al capitolo 26, la Genesi ci ripropone un racconto simile (con lo stesso tema di fondo), benché i protagonisti, in questo caso, siano Yitzchak (Isacco) e sua moglie Rivkah (Rebecca):

E Yitzchak dimorò in Gherar. Quando la gente del luogo gli faceva domande su sua moglie, egli rispondeva: «È mia sorella», perché aveva paura di dire: «È mia moglie», poiché pensava: «Gli uomini del luogo potrebbero uccidermi a motivo di Rivkah, perché ella è di bell’aspetto». (26:6-7).
Anche la generazione successiva, a quanto pare, si ritrova a fare i conti con lo stesso genere di situazione, e anche in questo caso il marito sceglie di seguire la stessa identica strategia.

Per spiegare il reiterarsi della “vicenda del rapimento” (termine in realtà improprio, perché la parola “rapimento” è assente dal testo), la critica biblica accademica riconduce le tre storie a un’unica leggenda tramandata oralmente, poi messa per iscritto in tre versioni differenti che sarebbero poi state integrate in una singola opera. Questa teoria, però, non chiarisce il motivo per cui il redattore finale, nel mettere insieme i documenti a sua disposizione,  avrebbe deciso di includere nel proprio testo tre racconti così simili fra loro.

In questo articolo proveremo ad affrontare la questione senza porci il problema della plausibilità storica della narrazione: non ci chiederemo se il ripetersi della “vicenda del rapimento” sia accettabile o credibile dal punto di vista della realisticità, ma soltanto se tale fenomeno abbia un significato profondo. Per chi ritiene che la Torah sia stata scritta, come indica il nome (“Insegnamento”), per essere una fonte di lezioni morali e religiose, e non una cronaca di eventi storici, è ragionevole pensare che, nel raccontare lo stesso tipo di episodio tre volte, il testo intenda trasmettere un messaggio ai lettori.

La “vita duplicata” di Avraham

Se leggiamo attentamente l’intero racconto della vita di Avraham, scopriamo che la vicenda del rapimento di Sarah non rappresenta un caso del tutto eccezionale: vari episodi che la Torah racconta a proposito della vita del primo patriarca ebreo sembrano avere una sorta di “versione parallela” che riprende le tematiche di un racconto precedente per svilupparle ulteriormente. In particolare, possiamo notare le seguenti corrispondenze:

  • Il primo comando divino ricevuto da Avraham, “Va’ per conto tuo (Lekh lekhà) via dalla tua terra, dalla tua patria e della casa di tuo padre, verso la terra che ti indicherò” (12:1), corrisponde all’ultimo: “Prendi ora tuo figlio, il tuo unico figlio, colui che tu ami, Yitzchak, e va’ per conto tuo (lekh lekhaà) nella terra di Moriah e là offrilo in olocausto sopra uno dei monti che io ti dirò” (22:2). Nel primo caso, Avraham è chiamato a separarsi da suo padre e dal suo passato; nel secondo, egli deve dire addio a suo figlio e al futuro che gli si prospettava dinanzi. In entrambi i casi, ad Avraham non viene rivelata in modo preciso la sua destinazione, e l’uso di espressioni simili lega insieme i due comandi.
  • Avraham salva la vita di Lot in due occasioni: la prima, intervenendo in guerra in suo soccorso (capitolo 14); la seconda, attraverso il suo merito e la sua preghiera (19:29). In entrambi i casi, il pericolo incorso da Lot deriva dal fatto che egli risiede a Sodoma.
  • Due volte Dio stabilisce il suo Patto con Avraham: la prima con il rito del cosiddetto “Patto tra le parti” (15:7-21); la seconda con il Patto della circoncisione (17:1-27).

Il ripetersi della “vicenda del rapimento”, lungi dall’essere il frutto di una forzata integrazione fra documenti contradditori, rientra invece in uno schema più ampio e del tutto coerente. Ma qual è, allora, il senso di questa scelta narrativa?
In realtà, come si comprende dagli esempi appena citati, non è corretto parlare di semplici repliche o duplicati. La versione successiva di ognuno degli episodi, infatti, oltre a presentare numerose differenze, si svolge sempre in chiave più positiva rispetto alla precedente, mostrando una progressione che suggerisce l’avanzamento spirituale di Avraham:

  • Con il primo comando “Vai per conto tuo”, Avraham deve realmente abbandonare la sua patria e la sua famiglia, per dare inizio a un cammino incerto e travagliato. Nel caso del sacrificio di Yitzchak avviene il contrario: il patriarca non dovrà mai realizzare il comando fino in fondo, poiché la vita di suo figlio sarà risparmiata.
  • Quando Lot si trova in pericolo per la prima volta, Avraham è costretto a combattere con le sue forze militari per liberarlo; la seconda volta, in contrasto, la salvezza di Lot avviene avviene attraverso l’azione diretta di Dio, senza che Avraham debba ricorrere a mezzi terreni o alla violenza.
  • Nel caso del “Patto tra le parti”, Avraham riceve una rivelazione sconsolante che comprende l’annuncio della futura schiavitù che i suoi discendenti subiranno in terra straniera (15:13). Con il Patto della circoncisione, invece, egli riceve solo promesse positive sulla sua discendenza e l’eredità della terra promessa.

Lo stesso tipo di progressione avviene anche nella seconda “vicenda del rapimento” rispetto alla prima. Avimelekh, il re di Gherar, al contrario del Faraone, viene avvertito da Dio stesso tramite una rivelazione ancora prima di avere modo di “accostarsi a Sarah” (15:4). Il re convoca allora Avraham, gli consegna dei doni e gli concede il permesso di abitare liberamente nel suo paese (mentre il Faraone aveva invece cacciato Avraham e Sarah dall’Egitto). Il patriarca, da parte sua, prega per Avimelekh (21:17), e in seguito stipula anche un patto con lui (22:27). La protezione divina si manifesta dunque in maniera molto più evidente, e i rapporti tra Avraham e il re straniero diventano persino cordiali nell’epilogo.
Un ulteriore sviluppo, in chiave ancora più positiva, è rappresentato dalla vicenda di Yitzchak e Rivkah. Nel loro caso, la donna non viene affatto separata dal marito, poiché il re filisteo scopre la verità prima che la situazione possa degenerare (26:8-10), e arriva poi persino a dichiarare, a proposito di Yitzchak: “Chiunque tocca quest’uomo o sua moglie sarà certamente messo a morte” (26:11). Non c’è dunque una vera “duplicazione”, ma uno sviluppo progressivo che segue l’evoluzione del rapporto tra Dio e i padri d’Israele.

I due racconti come segni di eventi futuri

La medesima questione può anche essere analizzata alla luce del detto rabbinico che recita: Maaseh avot siman lebanim (“Le azioni dei padri sono un segno per i loro figli”). Più che un semplice invito a trarre dalla storia passata insegnamenti per il presente, questa frase riassume un principio che i Maestri dell’Ebraismo applicano per interpretare i racconti biblici dei patriarchi come delle prefigurazioni profetiche degli avvenimenti successivi della storia ebraica. A questo proposito, il Midrash Tanchuma afferma:

“Rabbi Yehoshua di Sichnin ha detto: Dio diede un segno ad Avraham che tutto ciò che avvenne a lui sarebbe avvenuto anche ai suoi figli”.

Su questo principio, che sembra presupporre una concezione ciclica (e non lineare) del tempo, si potrebbe certamente discutere a lungo. Tuttavia, in questa sede, tralasceremo le riflessioni teologiche e filosofiche e ci concentreremo soltanto su ciò che il detto rabbinico può insegnarci a proposito delle “vicende del rapimento”.

Il viaggio di Avraham in Egitto, con tutti gli eventi ad esso collegati, presenta in effetti chiari parallelismi con una storia ben più lunga e complessa: quella degli Israeliti giunti in Egitto, delle loro sofferenze e della loro liberazione, come è narrato nel Libro dell’Esodo. Un confronto intertestuale può farci comprendere facilmente che il primo evento sia da interpretare come un’autentica prefigurazione del secondo:

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Bisogna allora chiedersi se anche l’episodio di Avimelekh, come quello del Faraone, preannunci in qualche modo un evento futuro.
Nel suo Commentario alla Genesi – lasciato purtroppo incompiuto -, il grande ebraista Umberto Cassuto nota alcune interessanti somiglianze fra tale episodio e il racconto del libro di Samuele sulla sconfitta di Israele per mano dei Filistei e il successivo furto dell’Arca del Patto da parte di questi ultimi (1 Samuele, cap. 4-6):

“In 1 Samuele 4-6 è riportato che i Filistei catturarono l’arca della testimonianza, l’oggetto più sacro per gli Israeliti, e che la portarono nel tempio del loro dio, Dagon, presso Ashdod. Ma l’arca fu salvata da ogni dissacrazione, poiché il Signore abbattè l’immagine di Dagon e colpì con gravi malattie gli abitanti di Ashdod e delle altre città in cui l’arca fu poi trasferita, finché i capi dei Filistei decisero di restituire la reliquia agli Israeliti; dopo aver ascoltato il consiglio dei loro sacerdoti e indovini, essi la restituirono con doni di espiazione. È possibile scorgere un parallelismo tra questa storia e quella di Genesi 20, secondo cui Sarah, l’amata moglie del patriarca Avraham, fu consegnata nelle mani del re dei Filistei e fu portata nel suo palazzo, ma fu salvata quando Dio avvertì il re e lo punì assieme alla sua casa, in modo che essi avessero bisogno di guarigione. Infine il re restituì Sarah ad Avraham consegnandogli dei doni come risarcimento” (U. Cassuto, A Commentary on The Book of Genesis, Part II, p. 341).

Le osservazioni di Cassuto trovano conferma nel fatto che, come spiega Rav Amnon Bazak in un suo shiur sul libro di Samuele, la storia dell’Arca rubata dai Filistei contiene molte espressioni in comune con il racconto delle dieci piaghe d’Egitto. Pur non potendo dilungarci qui nell’analizzare tutti i parallelismi, ci limitiamo a far notare il legame tematico che unisce i due eventi:

“Appena l’Arca giunse nell’accampamento degli Israeliti [prima della battaglia], i Filistei esclamarono: «Guai a noi! Chi ci salverà dalla mano di questi dèi potenti? Questi sono gli dèi che colpirono l’Egitto con ogni sorta di piaghe nel deserto!» […]. Dopo la vittoria, i Filistei credettero di aver sconfitto Dio e di aver sopraffatto il potere che aveva colpito l’Egitto così duramente. Era perciò necessario insegnare loro che ciò non corrispondeva al vero, e tale lezione viene loro impartita tramite una sorta di rievocazione delle piaghe d’Egitto contro i Filistei. Il destino dei Filistei è simile a quello degli Egiziani, ed essi imparano dunque che la sconfitta degli Israeliti non deriva da una perdita di potere da parte di Dio” (Amnon Bazak, The Ark of God in Peleshet).

 Le vicissitudini accadute a Sarah, prima in Egitto e poi nella terra dei Filistei, riflettono dunque due difficili sfide che i suoi discendenti affrontarono nei secoli successivi, esattamente come afferma il principio sopracitato: Maasè avot siman lebanim. La storia di Yitzchak e Rivkah potrebbe allora essere intesa come una prima applicazione del medesimo principio, che ci mostra come il figlio di Avraham ripercorra le orme del padre, pur con le notevoli differenze che fanno sì che queste tre storie simili non siano solo banali copie, ma tessere di un mosaico che prende forma a poco a poco.

16 commenti

  1. In tutto ciò però non si spiega perché non si condanni il comportamento del Patriarca.
    Perchè nascondere la vera relazione che esisteva tra lui e Sarah fu un inganno bello e buono.. io invece sono dello stesso parere di coloro che biasimano il modo di agire del patriarca, accusandolo di menzogna, per aver sacrificato l’onore della moglie e di averne ricavato addirittura ricchezze dal Faraone. In questo episodio della sua vita Avraham, non dimostra né coraggio, né altruismo, né tantomeno fede in Hashem. Si rivela profondamente bugiardo (agisce infatti con premeditazione) e soprattutto un pessimo compagno di Sarah. A differenza di quello di Avraham, il modo di agire di Faraone si dimostra onesto: il patriarca aveva accettato i suoi regali e di ciò ’aveva confermato nell’opinione che Sarah fosse sorella di Avraham. E poi non capisco affatto perché Dio intervenga contro Faraone e invece nessun rimprovero è fatto ad Avraham? Anzi, in apertura del capitolo 13 cosa sconcertante, si esaltano persino le sue ricchezze, tra le quali ci sono anche i doni di Faraone.
    La seconda vicenda, pressoché identica alla prima, è narrata nel cap. 20 dello stesso libro biblico. Il patriarca si servì della stessa menzogna che in Egitto: spacciò la moglie per sua sorella, e da tale affare ebbe ancora pecore, buoi, servi e serve. Si può dire che Abramo divenne ricchissimo alle spalle della moglie (sic). E come se non bastasse, le scelte di Abramo passano purtroppo al figlio Isacco; questi infatti, in circostanze simili, seguirà fedelmente le orme del padre (Bereshit 26).
    Ebbene, come si può trascurare questo chiaro dato testuale? Per di più, trascurando le vittime dell’inganno? Ossia il Faraone nel primo caso (Bereshit 12,18-19) e Abimelech nel secondo (Bereshit 20,9)? Che esprimendo al patriarca tutta la loro disapprovazione, gli danno pure una lezione di onestà?

  2. Parlare impropriamente di “rapimento” poi è semplicemente assurdo dato Avrham stesso ha ceduto letteralmente sua moglie. O No? Scusami tanto, il commento sopra mi sembra un pò artificioso e poco chiaro.. E’ quasi un arrampicarsi sugli specchi…eppure l’ho riletto due volte ahimè…..

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  3. Conclusione: in tutta questa vicenda dal comportamento avuto da Avraham non ci vedo nessun insegnamento morale, etico o religioso. Anzi semmai il contrario…
    Né nessuna prefigurazione di eventi futuri successivi della storia ebraica che nei parallelismi dei maestri trovo forzata a martellate.

  4. Questo articolo non esamina il brano dal punto di vista della narrazione e dei suoi risvolti etici, ma si propone solo di spiegare il motivo per cui la Torah ci presenta tre episodi molto simili. Il fatto che la vicenda di Avraham con il Faraone prefiguri l’Esodo dall’Egitto è palese, tutti i commentatori lo notano, anche gli studiosi laici come Robert Alter.
    Per quanto riguarda le presunte colpe di Avraham, io non ritengo che il suo comportamento sia da condannare. Il patriarca aveva in quella situazione solo due possibilità: rischiare di essere ucciso dai corteggiatori della moglie, lasciando quindi Sarah alla mercé degli Egizi, oppure fingere di essere il fratello, in modo che, in accordo con l’uso dell’epoca, i corteggiatori contrattassero con lui per averla in sposa, dandogli il tempo di tergiversare ed eventualmente fuggire. Chiaramente Avraham non avrebbe potuto immaginare che a desiderare la moglie sarebbe stato addirittura il re d’Egitto, con il quale nessuna trattativa matrimoniale sarebbe stata possibile.

  5. In effetti, leggendo meglio ci sono molti paralleli tra la discesa di Avraham in Egitto e la schiavitù degli Israeliti in quella terra: proprio come Avraham discese in Egitto a causa della carestia, così anche Yacov i suoi figli andarono in Egitto a causa della carestia; Proprio come Dio ha punito il faraone di Abramo con “grandi afflizioni” – così anche Dio ha colpito il faraone di Mosè – dieci piaghe ecc; Proprio come Abramo lasciò l’Egitto “con grande quantità, di argento e oro” – così gli israeliti lasciarono l’Egitto con “pecore e bovini, bestiame ecc..”. Non c’è dubbio che questo parallelismo si adatta bene al detto;” gli atti dei padri, sono un segno per i figli”. E su questo hai ragione. Però, ciò non toglie che Avraham facendo di testa sua e anche forse per le reiterate bugie raccontate su Sarah, e non fidandosi di Hashem, scendendo in Egitto, (poteva decidere di non farlo) ha causato come conseguenza che Israele fu ridotto in schiavitù per quattrocento anni. ,,

  6. Che Avraham fosse innocente come dici non ci credo affatto. Se era già consapevole del pericolo, andando in Egitto allora perché ci è andato? Nel versetto poi 13, Avraham dice: “Dì a tutti che sei mia sorella, così grazie a te, invece di uccidermi mi tratteranno bene”. Secondo te, Avraham vuole ricevere denaro o tenersi la bellissima Sarah? Un altro problema: non è scritto che c’e stato alcun negoziato, appena rapita subito è stato pagato? Da chi?
    Avraham Avinu non si sforza di nascondere Sarah agli occhi degli egiziani. Anzi si vede che era disposto a pagare qualsiasi prezzo per corrompere gli egiziani, purché passasse la dogana “in sicurezza”. Sappiamo che l’obiettivo della Torah è innanzitutto quello di infondere in noi una morale “divina” ma in questi due casi, il nostro grande patriarca Avraham, bisogna ammetterlo ha proprio fallito!

    1. Mi dispiace ma non sono per nulla d’accordo. Non ci fu alcuna trattativa solo perché a desiderare Sarah fu il Faraone stesso, e con il re non c’è nulla da trattare: se lui vuole una donna se la prende. Ma in circostanze più ordinarie Avraham avrebbe avuto modo di essere trattato bene dai locali, i quali avrebbero cercato di ingraziarselo per ottenere la mano di Sarah. Avraham dovette ricorrere all’inganno per non rischiare di essere ucciso. Insomma si tratta di una situazione non ottimale ma sorta dalla necessità.

  7. Però nessuno gli ha detto di andare in Egitto!. Tanto meno Hashem. E’ stata una sua scelta consapevole se pur dettata dalla fame e dalla carestia. Sta di fatto putroppo, che in qualche modo, costarano alle future generazioni di israeliti conseguenze molto pesanti con molte afflizionii di dura schiavitù.

    1. Nachmanide ritiene che sia stato un errore scendere in Egitto, ma io non ritengo sia così. All’epoca per i Semiti andare in Egitto per acquistare risorse era la prassi. Di certo Avraham non voleva stabilirsi lì, e all’epoca aveva ancora un’idea vaga del Dio unico.
      Nota che, secondo le parole di Yosef, Dio stesso fece mantenere in vita la famiglia di Israele facendola scendere in Egitto durante la carestia.

  8. Anche Rambam ritiene che sia stato un errore. É verissimo anche che Avraham era partito con l’idea di non stabilirsi in Egitto. Ma le buone intenzioni a volte non sono così buone come sembrano noi. Meno male che HaShem dirigendo la storia umana e in particolare quella di Israele sa trarre dai sbagli un bene più grande per noi.

  9. Volevo infine aggiungere solo un ultima cosa. Se si guarda alla bellissima Sarah possiamo vedere quanta amarezza, dolore e sofferenza ha dovuto subire:
    • Seguì Abramo a Ur Kasdim, da lì a Charan, da lì alla terra di Canaan, da lì in Egitto, da lì alla terra dei Filistei e da lì a Be’er Sheva.
    • Fu purtroppo sterile fino all’età di 90 anni.
    • Fu ceduta stando in silenzio per ben due volte a due uomini diversi (il faraone e Abimelech).
    • Suggerisce per amore di Avraham di prendere l’egiziana Hagar per avere un figlio da lui.
    • E’ stata addirittura poi disprezzata dalla sua stessa schiava egiziana e il Midrash dice che all’età di 127 anni fu informata che il suo amato figlio Yitzchak era stato sacrificato dal padre.
    • Morì di dolore a Ebron quando le fu data la notizia. Sarah non andò al Monte Moria come fece Avraham per affrontare la prova, lei sta lì fuori nella sua tenda, ma morì lei al posto di suo figlio Yitzchack.
    Conclusioni: Sarah e Abramo si sono completati a vicenda, e solo stando insieme in una sola unità sono stati in grado di dare alle generazioni future di Israele le basi per una salda e forte fede in HaShem l’Unico e solo vero Dio.

  10. Nel testo biblico non si parla di rapimento, ma i Maestri usano quest’espressione per evidenziare, a scusante di Abramo, che la richiesta del faraone di avere Sara nel suo harem non poteva essere rifiutata, pena la morte per il patriarca. Questi, dunque, agì per necessità, ma cedendo sua moglie in sposa al faraone e accettando da lui il generosissimo “prezzo della sposa”, non compì un autentico atto di lenocinio? L’atto più grave, però, fu l’aver trattato Dio, che gli aveva fatto due promesse, come un millantatore: la prima promessa fu che lo avrebbe protetto nel suo viaggio da qualsiasi malintenzionato; la seconda fu che da lui e da Sara avrebbe fatto sorgere una nazione santa per mezzo della quale sarebbero state benedette tutte le nazioni della terra, quindi un futuro mondo di pace e armonia.
    Abramo preferì pensare unicamente a salvarsi la pelle mettendo la propria dignità, l’amore verso sua moglie, i precetti noachidi sulla moralità sessuale, la sua amicizia verso Dio e il rispetto dei grandi propositi divini sotto la suola delle scarpe.

    Milioni di uomini e donne nella storia sono ricordati come eroi, come santi, come martiri perché non hanno voluto barattare la propria vita tradendo i propri ideali o la propria gente. Quando il faraone pretese di avere Sara in moglie, il “padre della fede” ebbe già allora la sua grande occasione di dimostrare questa sua proverbiale fede in Dio e nei suoi progetti.
    Superò tuttavia tale prova molti anni dopo, quando a rischiare la vita non fu lui ma un altro, sebbene si trattasse di suo figlio.

    La Bibbia narra di un secondo “rapimento” di Sara. Quando ciò accadde, Abramo aveva ormai avuto molteplici e grandiose dimostrazioni dell’onnipotenza di Dio: con appena 318 schiavi armati, lui che era un semplice mercante e che di certo non aveva un cuor di leone, sconfisse cinque eserciti nemici (ciò richiama l’impresa dei 300 di Gedeone); doveva pure aver compreso che il merito di quella strabiliante vittoria non era suo ma di Dio. Poi vide le città della pianura incenerite dal fuoco mandato da Dio per i peccati dei loro abitanti, ma vide pure che Dio era stato in grado di risparmiare suo nipote Lot. C’era poi la gravidanza impossibile di sua moglie, avvenuta sempre in grazia dell’onnipotenza divina. Ma, soprattutto, il precedente dal faraone toglieva ogni dubbio che non esisteva potere umano che potesse minacciarlo. Come non bastasse, Dio lo aveva nuovamente rassicurato a chiare lettere che sarebbe sempre stato per lui uno scudo. Abramo sapeva quindi di essere in una botte di ferro: tuttavia rivendette sua moglie in sposa a un altro re.
    Agì ancora per paura? O per assoluta mancanza di fede? O piuttosto ci marciava conoscendo già il lucroso epilogo?

    Fa più bella figura il re filisteo che, nonostante fosse un idolatra, ebbe subito fede nelle parole e nella potenza di un dio che non conosceva neppure e che semplicemente gli era apparso in sogno, ma che giudicò superiore agli dèi protettori del suo regno. Facendo il confronto, si direbbe che quest’uomo sarebbe stato più degno di Abramo per esser parte dei propositi divini.

    L’esegesi del “rapimento” che fa leva sulla necessità di Abramo di comportarsi in quel modo non regge: se tali storie vogliono essere insegnamento, anche un bambino comprende, dalle gesta inqualificabili del patriarca, come non ci si deve comportare e che la propria vita non è sempre il bene maggiore da difendere poiché esistono valori più grandi della vita stessa.

    1. Quella che proponi è una lettura ragionevole attestata anche da una parte della tradizione ebraica (vedi ad esempio Nachmanide). Tuttavia un’interpretazione così critica di Avraham non sembra essere corretta se teniamo conto del contesto storico e delle usanze dell’epoca. Come spiega egregiamente Nahum Sarna, identificarsi come il fratello di una donna equivaleva a presentarsi come suo padre: per chiedere la mano di Sarai, i pretendenti avrebbero dovuto rivolgersi ad Avraham e magari negoziare una dote. Avraham non voleva solo “salvarsi la pelle”, ma anche preservare l’onore della moglie e guadagnare tempo per sottrarla agli Egizi. Naturalmente egli non poteva immaginare che a desiderare sua moglie potesse essere addirittura il re d’Egitto, con il quale non c’era possibilità di negoziazione.
      Insomma, benché Avraham non sia di certo un personaggio infallibile, in questo caso non sembra appropriato attribuirgli colpe che di fatto non esistono.

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