
Un uomo della casa di Levì andò a prendere in moglie una figlia di Levì. La donna concepì e partorì un figlio; vide che era buono e lo tenne nascosto per tre mesi. Poi, non potendo più nasconderlo, prese una cesta di papiro e la rivestì di bitume e di argilla, vi mise il bambino e la depose nel canneto in riva al Nilo. La sorella [del bambino] si teneva a distanza per sapere che cosa gli sarebbe accaduto.
La figlia del Faraone scese al Nilo a lavarsi, e le sue ancelle camminavano presso il Nilo. Ella vide la cesta nel canneto e mandò la sua ancella a prenderla; la aprì e vide il bambino: ecco, era un fanciullo che piangeva. Ne ebbe compassione e disse: «Questo è uno dei bambini ebrei!»
La sorella [del bambino] disse alla figlia del Faraone: «Vuoi che vada a chiamarti una nutrice ebrea che allatti per te il bambino?» La figlia del Faraone le disse: «Va’!» E la fanciulla andò a chiamare la madre del bambino. […] La donna prese il bambino e lo allattò. Quando fu cresciuto, lo condusse alla figlia del Faraone, ed egli fu per lei come un figlio, ed ella lo chiamò Moshè, dicendo: «Poiché dalle acque l’ho tratto (meshitìhu)» (Esodo 2:1-10).
Come tutte le storie bibliche più famose, raccontate ai bambini nella forma di fiabe e divenute oggetto di suggestive rappresentazioni cinematografiche, anche la vicenda della nascita di Moshè (e della sua adozione da parte della figlia del Faraone) si rivela in realtà molto più complessa e ricca di significati di quanto spesso si pensi.
Moshè e gli altri “eroi adottati”
Numerose leggende del mondo antico, diffuse sia in Asia che in Europa, narrano la storia di un eroe abbandonato dalla propria madre, poi messo in salvo e adottato da una figura benevola, per poi conquistare infine il potere. Una presunta autobiografia del re mesopotamico Sargon (fondatore dell’impero accadico), riportata in un testo del VII secolo a.e.v., si avvicina particolarmente al racconto biblico dell’infanzia di Moshè. Secondo questo testo, Sargon, figlio di un’importante sacerdotessa, fu partorito in segreto e abbandonato dalla madre in un fiume all’interno di una cesta ricoperta di bitume, e fu in seguito adottato da un “portatore d’acqua” che gli insegnò il mestiere di giardiniere.
Lo studioso Nahum Sarna, nel suo libro Exploring Exodus, sostiene che questo tipo di leggenda, oltre a rappresentare un tema ben radicato nel folklore, avesse anche uno scopo politico, poiché serviva a legittimare il diritto al trono di un nuovo sovrano che intendeva presentarsi come il discendente di una stirpe nobile, non avendo in realtà alcun albero genealogico da esibire. Il nome di Sargon, che significa “il re è legittimo”, sembra fornire una conferma di questa teoria.
Il racconto dell’Esodo, in contrasto, non ha in sé alcuno scopo politico di questo genere. Mentre Sargon (come Romolo e Remo nel mito romano) proviene da un’importante famiglia e viene poi adottato da un uomo umile, Moshè, all’opposto, appartiene a un popolo di schiavi e diviene il figlio adottivo della principessa d’Egitto, ottenendo così uno stato sociale molto superiore a quello originario. Inoltre, il profeta israelita si differenzia ulteriormente da Sargon e dagli altri eroi antichi nel momento in cui sceglie di rigettare la sua identità nobile acquisita con l’adozione, e di schierarsi dalla parte dei suoi fratelli oppressi. Moshè è dunque l’anti-Sargon, e la sua storia appare coerente con la nuova concezione egualitaria introdotta dalla Torah.
Bisogna comunque osservare che Moshè, al contrario di Sargon, non fu realmente abbandonato dalla madre. Il testo ci dice infatti semplicemente che la donna, non riuscendo più a nascondere il bambino in casa, lo pose betokh hasuf, ossia “all’interno del canneto” (Esodo 2:3), per nasconderlo dagli Egiziani, mentre la sorella più grande vegliava su di lui (2:4). L’immagine della cesta che viaggia in balia delle acque non ha quindi alcun riscontro nel testo biblico.
Il nome di Moshè
Conferire un nome a un figlio è un compito che, nella Bibbia, spetta di solito alla madre. Nel caso di Moshè, tuttavia, il racconto non ci rivela quale nome avesse scelto per lui inizialmente la madre biologica. Nella Torah e in ogni altro testo successivo, il più grande profeta della storia ebraica è sempre chiamato unicamente con il nome che la figlia del Faraone gli diede dopo il suo svezzamento:
Quando [il bambino] fu cresciuto, [la donna] lo condusse alla figlia del Faraone, ed egli fu per lei come un figlio, ed ella lo chiamò Moshè, dicendo: «Poiché dalle acque l’ho tratto (meshitìhu)» (Esodo 2:1-10).
Sembra quindi che il testo, nel tramandare l’origine del nome, faccia derivare Mosheh dal verbo ebraico meshitihu, tradotto comunemente con “ho tratto [dalle acque]”.
Da questo versetto, però, come hanno notato molti studiosi, sorge un problema: perché mai una donna egizia avrebbe dovuto chiamare il proprio figlio adottivo con un nome in lingua ebraica, lingua che quasi certamente le era ignota? Inoltre, in un periodo di gravi persecuzioni contro gli Israeliti, scegliere un nome ebraico non avrebbe forse posto un marchio d’infamia sul bambino?
Ibn Ezra (1089 – 1167), per risolvere la questione, afferma che “Moshè” non sia il vero nome scelto dalla figlia del Faraone, ma una traduzione in ebraico di tale nome, che in realtà era in lingua egizia. Tuttavia, come nota Abravanel (1437–1508), questa teoria appare priva di una base solida, poiché la Bibbia riporta sempre i nomi stranieri nella loro forma originale, senza tradurli, come nel caso di Tzafnat Paneach, Bil’am, Asenath, i nomi riportati nel libro di Daniele e tanti altri.
Un altro problema, poi, rende la questione ancora più complessa: come spiega Rabbi Ovadiah Sforno (1475 – 1550), Mosheh non può essere tradotto con “ho tratto”, bensì con “colui che trae”. Sembra quindi che il testo biblico riporti un’etimologia del nome non del tutto corretta.
La soluzione a tutto ciò arriva dall’antico Egitto, e precisamente dalla Stele di Rosetta, la famosa iscrizione scoperta nel 1799, grazie alla quale gli studiosi sono riusciti a ricostruire la lingua parlata ai tempi dei Faraoni. Oggi sappiamo infatti che la stringa consonantica MSS (da cui il nome di Moshè), nell’idioma egizio, ha il significato di “figlio“. Il nome del grande Faraone Ramses, ad esempio, significa letteralmente “figlio di Ra”.
A questo proposito, Rav Elchanan Samet (Torah MiEtzion, Vol. II, p. 6) spiega:
“Moshe è dunque un nome egiziano, che significa ‘figlio’. La figlia del Faraone dichiara che il bambino che ella ha adottato è suo figlio legalmente riconosciuto, e lo chiama perciò con questo nome: Ed egli fu per lei come un figlio, ed ella lo chiamò ‘Figlio’ (Moshè)“.
Se tale interpretazione è corretta, per quale motivo, allora, il racconto ci dice che la principessa scelse questo nome sulla base del suo atto di trarre il bambino dalle acque del Nilo?
Secondo un’ipotesi avanzata da Umberto Cassuto (e in seguito da Rav Yitzchak Etshalom), la spiegazione riportata nel testo dell’Esodo non avrebbe un autentico valore linguistico ed etimologico, poiché si tratterebbe di un midrash-shem, cioè di un’etimologia omiletica, una sorta di gioco di parole volto ad attribuire a un nome un significato diverso da quello reale allo scopo di trasmettere un certo insegnamento.
Ma perché, ci si può chiedere a questo punto, la Bibbia dovrebbe attribuire alla figlia del Faraone un simile midrash-shem, e che legame avrebbe tale “etimologia omiletica” con la vera intenzione della principessa egizia?
Un’affascinante interpretazione che sembra rispondere a tutti questi interrogativi è quella proposta dal Netziv (Naftali Zvi Yehuda Berlin), il quale commenta così il verso in questione:
“Ed egli fu per lei come un figlio – Dal momento che ella salvò il bambino dalla morte e inoltre lo allevò, fu come se ella lo avesse davvero partorito, come è scritto: E lo chiamò Moshè. Ed io ho letto, a nome di Rabbi Shmuel di Boemia, che nella lingua egizia tale nome significa ‘figlio’, e questa interpretazione è corretta.
Poi [la figlia del Faraone] spiega il motivo per cui il bambino è considerato suo figlio: Poiché dalle acque l’ho tratto – ovvero: è come se egli sia affogato nel fiume, e perciò i suoi genitori non hanno più alcun diritto su di lui, e ora io sono sua madre. […]
Di conseguenza, il termine meshitihu (ho tratto) non è correlato al nome di Moshè; piuttosto, esso spiega il motivo per cui ella lo chiamò Moshè (figlio)” (Ha’amek Davar, Shemot 2:10).
L’aver tratto la cesta dalle acque è dunque l’azione che conferisce alla figlia del Faraone il diritto di considerare il fanciullo come suo figlio: proprio come la madre biologica, infatti, la principessa ha donato la vita al bambino. Il legame che la Torah stabilisce tra meshitihu (“ho tratto”) e Moshe (“figlio”) non è di tipo linguistico o etimologico: si tratta invece di un legame concettuale, che fornisce alla donna la base legale della sua adozione. Che i due termini risultino anche connessi da un’affinità fonetica non è certamente un caso: la Torah, come è stato detto, gioca con il suono delle parole per sottolineare il suo messaggio.
Il racconto come prefigurazione
Un aspetto poco noto della vicenda della cesta sul Nilo è senza dubbio la sua funzione di prefigurare gli eventi successivi dell’Esodo. Se si legge il brano cercando di decodificare la sua simbologia, e interpretandolo alla luce dei grandi avvenimenti che ad esso seguono, si scopre che la salvezza di Moshè dalle acque preannuncia e anticipa una salvezza in scala maggiore: quella del popolo ebraico liberato dagli oppressori egizi. Il racconto contiene infatti alcuni elementi cruciali che lo rendono una vera e propria prefigurazione.
- In ebraico, la cesta in cui il piccolo Moshè viene posto è chiamata tevah (“scatola”), vocabolo insolito che, nell’intera Bibbia, è utilizzato per indicare solo un altro oggetto: l’arca di Noach (Noè). Il termine, che richiama la salvezza dell’umanità del Diluvio, è usato in questo caso per designare lo strumento di un’altra salvezza, quella di Moshè, e per estensione, quella dell’intero popolo che egli guiderà fuori dall’Egitto, facendolo passare proprio attraverso le acque. Moshè è quindi il “nuovo Noach” di una “nuova umanità” che nasce dalla Redenzione.
- Esodo 2:5 narra che la figlia del Faraone vide “la cesta nel canneto (betokh hasuf)”. Gli Israeliti, in fuga dall’esercito egizio, passeranno in seguito tra le acque del “Mare delle canne” (Yam suf), il vero nome biblico del Mar Rosso.
- Miriam, sorella di Moshè, veglia su di lui nell’episodio della cesta (2:4). In seguito, il testo la menzionerà per la seconda volta proprio subito dopo il passaggio del Mar Rosso (15:20).
- Come abbiamo visto in precedenza, il nome di Moshè, in lingua ebraica, assume il significato di “colui che trae”: il bambino tratto dalle acque diventerà l’uomo che avrà il compito di trarre il suo popolo dalle acque. Le sue origini preannunciano già il suo destino.
Queste riflessioni ci permettono di guardare con occhi nuovi a un’antica interpretazione dei Maestri. Il testo ci dice che la figlia del Faraone “vide la cesta nel canneto e mandò la sua ancella a prenderla”. Secondo un passo del Talmud (Sotah 12b), il termine amatah (“ancella”) può essere inteso anche come “braccio“: la figlia del Faraone protese il suo braccio e riuscì miracolosamente ad afferrare la cesta.
Tale lettura, che appare a dir poco improbabile dal punto di vista del testo letterale, consente tuttavia ai Maestri di aggiungere un parallelismo in più tra la salvezza di Moshè dalle acque e quella degli Israeliti: come il bambino è stato messo in salvo da un “braccio disteso”, così anche il popolo ebraico ha ottenuto la liberazione grazie all’intervento grandioso di Dio, con “mano potente e braccio disteso” (Esodo 6:6; Deut. 4:34).