E Moshè costruì un altare e lo chiamò «HaShem è la mia bandiera». E disse: «Poiché una mano è sul trono di Yah: [ci sarà] guerra per HaShem contro Amalek di generazione in generazione» (Esodo 17:15-16).
La severità con cui il testo biblico si scaglia contro la nazione di Amalek non ha pari all’interno della Torah. Né gli Egizi, né i Cananei o i Moabiti sono infatti condannati in modo tanto drastico e solenne, nonostante la loro corruzione morale e le violenze da loro compiute contro Israele. Solo in riferimento ad Amalek è scritto che Dio ha giurato sul suo trono di combattere questo popolo per tutte le generazioni. Quale grande crimine hanno commesso gli Amalekiti per essere considerati i nemici di Dio per eccellenza?
“Non ebbe timore di Dio”
Il Libro del Deuteronomio sembra rispondere al nostro interrogativo con queste parole: “Ricordati di ciò che ti fece Amalek lungo il cammino, quando usciste dall’Egitto: come ti venne incontro per via, attaccando alle spalle tutti i deboli che venivano per ultimi, quando tu eri stanco e sfinito, e non ebbe timore di Dio” (Deut. 25:17-8).
Amalek è presentato qui come un popolo vile e codardo, che attaccò il popolo ebraico nel deserto, mirando specificamente ai più deboli. Secondo Rabbi Menachem Leibtag, questa descrizione è coerente con quanto è narrato nell’Esodo, in quanto il testo ci dice che “Amalek venne a combattere contro Israele a Refidim” (17:8). Coloro che si trovavano a Refidim, spiega Rabbi Leibtag, erano proprio i deboli e gli assetati, mentre il resto del popolo, come si deduce dai versi precedenti, si era recato al monte Chorev per rifornirsi di acqua.
La frase “non ebbe timore di Dio” si riferisce proprio alla mancanza di ogni scrupolo da parte degli Amalekiti nell’attaccare gli Israeliti più vulnerabili. Nel linguaggio biblico, l’espressione “timore di Dio” (yirat Elohim) indica infatti molto spesso una sensibilità morale nei confronti dei deboli molto più che un sentimento di devozione religiosa.
Possiamo comprendere ciò da alcuni esempi: trovandosi nel paese dei Filistei, Avraham ha paura che gli uomini del luogo possano assassinarlo per impossessarsi di sua moglie, poiché “in questo posto non c’è timor di Dio” (Genesi 20:11). In Egitto, il Faraone ordina alle levatrici di compiere lo sterminio dei maschi Ebrei uccidendo bambini indifesi, ma “le levatrici temettero Dio e non fecero come aveva loro ordinato il re d’Egitto” (Esodo 1:17). In contrasto con i governatori che avevano usato la loro autorità per trarre vantaggio dal popolo, Nechemiah afferma: “Io non ho fatto così, perché ho avuto timore di Dio” (Neemia 5:15). Dunque chi teme Dio rispetta i diritti dei deboli e agisce con giustizia, pur avendo l’opportunità di danneggiare gli altri e di restare impunito.
Combattere Amalek
La stessa condotta immorale mostrata nel deserto caratterizza Amalek nella storia biblica successiva. Il libro di Samuele ci racconta infatti che, al tempo di David, gli Amalekiti attaccano la città di Tziklag per rapire donne e bambini, approfittando dell’assenza dei molti uomini adulti che erano partiti per la guerra (vedi 1 Samuele 30). In seguito, dopo la battaglia tra Israele e i Filistei, un Amalekita si aggira per il campo, verosimilmente interessato a trarre vantaggio dagli sconfitti (2 Samuele 1).
Amalek non ha valori, non ha una terra da difendere né alleati a cui mostrare lealtà. Amalek distrugge e non costruisce. Sceglie vittime incapaci di reagire e ruba tutto ciò che riesce ad afferrare.
Come si combatte questa cultura della ferocia e della violenza rappresentata da Amalek? Una prima via, come ci mostra il racconto dell’Esodo, è certamente quella militare: gli Israeliti si difendono schierando contro gli Amalekiti i loro migliori guerrieri (Esodo 17:9). Ma la lotta sul campo non basta, e da sola non è sufficiente a sradicare un nemico così subdolo. La via più elevata, fondamentale per la vittoria, è quella della strategia di Moshè, che solleva le sue mani al cielo mentre l’esercito combatte: “Quando Moshè alzava le mani, Israele era il più forte, ma quando le lasciava cadere, era più forte Amalek” (17:11).
Cosa significa ciò? Moshè era forse un mago? Forse le sue mani (o il bastone che egli, come si deduce dal v.8, stringeva in quel momento) avevano un potere mistico intrinseco?
Nel Talmud, i Maestri escludono categoricamente questa possibilità, e affermano invece che le mani elevate al cielo rappresentino qui la fede degli Israeliti nella salvezza di Dio:
“Potevano forse le mani di Moshè far vincere o perdere la guerra? Piuttosto, [la Torah] ci dice che finché i figli d’Israele volgevano in alto i loro occhi e si sottomettevano nei loro cuori al Padre che è in cielo, essi prevalevano. Altrimenti, essi cedevano” (Rosh Hashanah 29a).
C’è tuttavia un’altra spiegazione da integrare a quella dei Maestri, un’affascinante interpretazione proposta da Ami Silver e Daniel Loewenstein dell’Aleph Beta Academy.
Durante la battaglia contro gli Amalekiti, Moshè non è da solo. Con lui, sulla cima del colle, ci sono Aharon e Chur, che lo aiutano sostenendo con fermezza le sue braccia stanche (17:12). Moshè è vulnerabile, la sua forza viene meno. L’aiuto di Aharon e Chur è un supporto offerto a colui che è debole, un atto che è proprio l’opposto della crudeltà e dell’insensibilità tipiche di Amalek.
Gli Israeliti vincono la battaglia non solo confidando in Dio, e non solo ricorrendo alle armi. La lotta contro Amalek si conduce anche dimostrando solidarietà ai propri simili e restaurando lo spirito di fratellanza che colui che “non teme Dio” non può conoscere e non può condividere.