“Il luogo che Dio sceglierà”: la religione della giustizia

Il testo che segue è un commento alla Parashah di Re’eh (Deuteronomio 11:26 – 16:17) ed è tratto da un saggio della Prof. Shoshana Schechter dal titolo “Berakhah, Mikdash and Social Justice” (Mitokh Ha-Ohel: Torah Reading, Yeshiva University), da noi tradotto in italiano.

L’espressione ricorrente ba-makom asher yivchar HaShem, cioè “nel luogo che Dio sceglierà (per stabilire il Suo Santuario)”, è ripetuta in questa parashah per ben diciotto volte. Attraverso tale enfasi, Moshè intende stabilire un centro di gravità rituale per la nuova nazione nella sua terra.

Il Mikdàsh (Santuario), “il luogo che HaShem sceglierà”, è il posto in cui tutti si riuniscono per gioire e rendere grazie a Dio, e da dove si irradiano i valori della Torah. È proprio in questo contesto che, per adempiere integralmente al comandamento che recita “gioirai dinanzi ad HaShem” (Deut. 16:11), è necessario condividere i propri beni con i bisognosi.

In effetti, la piena esperienza del “luogo prescelto da Dio” può avvenire solo rendendo gli altri partecipi delle benedizioni che abbiamo ricevuto. L’aspetto rituale del Santuario è quindi indissolubilmente legato alla bontà rivolta a coloro che sono ai margini della società.

La simchàh (“gioia”) che la Torah comanda in riferimento alla celebrazione delle feste di Shavuot e Sukkot deve essere provata ugualmente dai membri della propria casa e dagli indigenti che vivono nella comunità: “E gioirai dinanzi ad HaShem, il tuo Dio, tu, tuo figlio, tua figlia, il tuo servo e la tua serva, il Levita che sarà nelle tue città, […] lo straniero, l’orfano e la vedova che saranno entro le tue città” (16:11, 14).

I due gruppi qui menzionati hanno la stessa rilevanza quando si tratta della celebrazione di queste festività. In base a ciò, come Rashi spiega magnificamente, «Dio promette che se ci prendiamo cura dei “Suoi quattro” (il Levita, lo straniero, l’orfano e la vedova), allora Egli si prenderà cura dei “nostri quattro” (tuo figlio, tua figlia, il servo e la serva)».

Il verso successivo afferma ancora: “E ricorderete che eravate schiavi” (16:12), un promemoria della nostra vulnerabilità e di ciò che ci rende simili agli emarginati.

La parashah termina ribadendo lo stesso tema che ritroviamo costantemente in tutta la descrizione delle Feste di Pellegrinaggio: “Ognuno darà in base a ciò che può la sua mano, secondo la benedizione che Dio ti ha dato” (16:17). Il Kelì Yakar osserva che il testo qui non dice yadkhà (“la tua mano”), ma yadò (“la sua mano”), suggerendo che il verso si riferisca in realtà alla yad HaShem, la mano di Dio, ricordandoci di non provare tristezza nel donare i nostri beni, poiché questi provengono da Dio, e noi doniamo quindi in base a ciò che Egli ci ha dato.

Il luogo in cui Dio sceglie di dimorare, oltre a essere un luogo rituale, è anche un centro di studio della Torah. Ci viene infatti comandato di trascorrere del tempo in tale luogo anche a prescindere dalle Feste di Pellegrinaggio. Il Ma’aser shenì (l’offerta della seconda decima del raccolto, n.d.r.), per esempio, deve essere consumato a Gerusalemme, “così che imparerai a temere Dio” (14:23). Da questo, il Sifrè conclude: «Il Ma’aser sheni è stato comandato esclusivamente affinché tu possa imparare la Torah e temere Dio » .

Ciò significa che siamo chiamati a trascorrere del tempo a Gerusalemme, oltre a quello delle festività, con l’esplicito scopo di apprendere la Torah. Con questo intento educativo, la Torah sottolinea ancora una volta il concetto di godere della benedizione di HaShem “nel luogo che Egli sceglierà” (16:24, 26) senza abbandonare chi si trova nel bisogno. In questo caso, si intende non abbandonare il Levita che è in mezzo a noi perché non ha una propria parte di eredità (16:27).

Il tema del luogo che Dio sceglie come sede della giustizia e dell’uguaglianza va oltre questa parashah: esso rappresenta l’idea stessa di Gerusalemme nel corso della storia. Secondo i Saggi, uno dei nomi di Gerusalemme è Tzedek (Giustizia). Per questo i re di Gerusalemme sono chiamati Malki-Tzedek (Re di Giustizia) e Adoni-Tzedek (Signore di Giustizia).

Sia il Rashbam che Ibn Ezra (commento a Genesi 14:18) spiegano che, proprio come il re d’Egitto si chiama Faraone e il re dei Filistei è detto Avimelekh, il re di Gerusalemme è chiamato Malki-Tzedek, o Adoni-Tzedek al tempo di Yehoshua, poiché è il re del “luogo di giustizia”.

Gerusalemme viene perciò distrutta quando perde il suo diritto a portare questo onorevole nome. Coerentemente, il profeta Isaia fa eco a questa idea affermando che il vero scopo di Gerusalemme è quello di prendersi cura dei poveri, degli orfani e delle vedove (Isaia 1:10-17).

Isaia dichiara che Dio ripudia i sacrifici degli Israeliti perché “la città fedele è diventata una prostituta” (1:21). Gerusalemme ha perduto la sua via, poiché coloro che dovrebbero svolgere un ruolo essenziale nel nostro “gioire dinanzi a Dio” sono invece divenuti le vittime della nostra crudeltà.

Il profeta ci sta essenzialmente esortando a tornare all’insegnamento della parashah di Re’eh e a ricordarci come e con chi dovremmo celebrare le nostre feste dinanzi a Dio a Gerusalemme. Isaia conclude i suoi ammonimenti affermando: “Dopo ciò, sarai chiamata ‘La città di giustizia’, ‘La città fedele’. Sion sarà redenta con il diritto, e coloro che ad essa ritornano [saranno redenti] con la giustizia” (1:26-27).

Solo ristabilendo ciò che è giusto, secondo il modello della parashah di Re’eh, Gerusalemme potrà essere redenta e riacquisire il suo nome di Ir ha-tzedek, kiryah ne’emanah, “la città di giustizia, la città fedele”.

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