Esodo

Scintille di Torah III: Esodo

Scintille di Torah” è la raccolta di brevi commenti alla parashàh (porzione settimanale di Torah/Pentateuco secondo il ciclo di lettura annuale ebraico) che pubblichiamo ogni settimana sui nostri profili Instagram e Facebook.

Di seguito troverete tutti i commenti al Libro dell’Esodo pubblicati nel 2024.

SHEMOT

All’inizio del Libro dell’Esodo, la Torah ci illustra l’eroico esempio delle levatrici in Egitto, che disobbedirono al comando del Faraone di far morire tutti i maschi ebrei, non rendendosi complici del genocidio messo in atto dal re.

Il testo ci dice che queste levatrici agirono così perché “temevano Dio”. Ma che cosa significa?

Il concetto del “timore di Dio” è stato spiegato dalle varie religioni come un sentimento di rispetto e riverenza per il Creatore, come la consapevolezza della magnificenza divina o come la paura di essere puniti per i propri peccati.

Nella Bibbia, il concetto del timore di Dio (in ebraico yirat Elohim) ha però un significato più specifico e meno teologico. Si tratta del sentimento che spinge gli uomini a non opprimere i deboli e a non trarre vantaggio dagli indifesi.

Ciò emerge ad esempio da Genesi 42:18, quando Yosef (Giuseppe) dichiara: “Io temo Dio!”, in riferimento al fatto che egli non intende tenere ingiustamente in carcere i suoi prigionieri. Oppure da Deut. 25:18, dove la Torah afferma che il popolo di Amalek “non ebbe timore di Dio”, avendo attaccato alle spalle gli Israeliti più deboli nel deserto.

Questo significato si applica perfettamente anche al caso delle levatrici: queste donne avrebbero potuto osservare la legge del re ed eseguire gli ordini, eppure decisero di non colpire con le loro mani degli innocenti privi di qualsiasi diritto.

Il testo biblico non vuole quindi esaltare la devozione religiosa delle levatrici, quanto piuttosto evidenziare la loro sensibilità morale.


VAERÀ

E io indurirò il cuore del Faraone e moltiplicherò i miei segni e i miei prodigi nella terra d’Egitto (Esodo 7:3).

La parashah di questa settimana ci pone davanti a un problema filosofico: il fatto che, secondo il testo biblico, Dio rese ostinato il cuore del Faraone, impedendogli così di cedere alle richieste di Moshè, sembra contraddire il principio del libero arbitrio. Davvero il re d’Egitto fu privato della possibilità di pentirsi e divenne un mero fantoccio nelle mani del Creatore?

Tra le tante soluzioni proposte nei secoli da esegeti e pensatori, una delle più interessanti e originali è senza dubbio quella offerta nel XVI secolo dal rabbino e medico italiano Ovadia Sforno.

Se Dio non avesse “indurito” il cuore del Faraone, spiega Sforno, questi si sarebbe arreso molto presto, non attraverso un pentimento sincero, ma solo a causa del terrore di subire nuove sciagure.

Per questo motivo, Dio diede al sovrano la forza di sopportare l’asprezza delle piaghe, affinché la paura non gli offuscasse la mente ed egli avesse l’occasione di comprendere con lucidità la lezione impartitagli dall’Altissimo.

In questo modo, secondo il commento di Sforno, il libero arbitrio del re non fu annullato, anzi fu preservato: la sua capacità di compiere scelte morali non fu spazzata via dal desiderio di porre fine alla propria sofferenza.


BO

Ed essi prenderanno un po’ del suo sangue, lo porranno sui due stipiti e sull’architrave delle case in cui lo mangeranno. In quella notte ne mangeranno la carne arrostita al fuoco; la mangeranno con azzimi e con erbe amare (Esodo 12:7-8).

A segnare la fine della triste epoca della schiavitù degli Ebrei in Egitto è la notte della decima piaga, con il rito del Korban Pesach, il sacrificio della Pasqua.

Sebbene in questo caso il testo biblico non usi mai il termine “sacrificio”, di fatto il rituale di Pesach è collegato nel Libro dell’Esodo a vari requisiti tipici delle offerte sacrificali, come la scelta di un capretto o agnello senza difetto, l’atto di spalmare il sangue, l’obbligo di consumare la carne nella sua interezza e altri.

Rispetto a un sacrificio vero e proprio, nel rito di Pesach manca tuttavia un elemento fondamentale: l’altare. In Egitto, gli Israeliti non avevano infatti alcun santuario o luogo di culto dove immolare la loro Pasqua. La cerimonia si svolse quindi nelle case degli Ebrei, sulle cui porte fu spalmato il sangue del sacrificio.

A questo proposito, il Talmud riporta un’affermazione di Rav Yosef secondo cui “c’erano tre altari [in Egitto]: l’architrave e gli stipiti della porta” (Pesachim 96a).

Nella prima Pasqua della Storia, le case assunsero dunque la funzione di un altare. Ogni singola famiglia d’Israele divenne insomma come un Tempio, consacrando sé stessa per rendersi degna della missione che in quella notte avrebbe cambiato il destino del popolo ebraico.


BESHALACH

In quel giorno HaShem salvò Israele dalla mano degli Egizi, e Israele vide gli Egizi morti sulla riva del mare. Israele vide la mano potente con cui HaShem aveva agito contro l’Egitto, e il popolo temette HaShem e credette in lui e nel suo servo Moshè (Esodo 14:30-31).

Il Libro dell’Esodo, nel descrivere l’epico intervento divino a favore degli Israeliti schiavi in Egitto, ci parla in molte occasioni della “mano potente” e del “braccio disteso” di Dio.

Benché queste espressioni non abbiano mai smesso di rappresentare per i lettori di ogni epoca un’immagine di potenza e maestosità divina, il loro significato originario è stato pienamente riscoperto soltanto nella nostra era.

Oggi sappiamo infatti che nell’antica letteratura egiziana la “mano potente” e il “braccio disteso” erano due caratteristiche tipicamente associate al faraone. Il re d’Egitto era spesso raffigurato o descritto come colui che sottomette i nemici con la forza del suo braccio, simbolo del suo potere impareggiabile.

Nel Poema di Pentaur, ad esempio, Ramses II celebra la sua vittoria sull’impero ittita dichiarando: “Quando le mie truppe videro che ero come Montu, con il mio braccio potente, […] vennero per lodare il mio nome, alla vista di ciò che avevo fatto»”.

Attribuendo a Dio una qualità che nella cultura egiziana apparteneva al monarca, usando persino le stesse espressioni, la Bibbia intende deridere il presunto potere divino del Faraone per affermare invece l’autorità di Colui che ha trionfato sulle schiere d’Egitto.

È essenziale notare che, nel testo biblico, a sconfiggere e a spodestare il Faraone non è Moshè, né alcun personaggio umano, ma soltanto Dio. La lode e l’esaltazione, secondo la Torah, non possono appartenere a un leader terreno, un semplice mortale. Solo il Creatore del mondo è ritenuto degno dell’onore che i popoli hanno sempre tributato ai loro sovrani.

(per approfondire vedi il nostro articolo: “Dio contro il Faraone – L’antimperialismo della Torah”).


YITRÒ

E Moshè raccontò a suo suocero ciò che HaShem aveva fatto al Faraone e agli Egizi per Israele, tutte le difficoltà loro accadute durante il viaggio, da cui HaShem li aveva liberati. E Yitrò gioì di tutto il bene che HaShem aveva fatto a Israele, quando lo aveva liberato dalla mano degli Egizi (Esodo 18:8-9).

Dopo l’episodio del vile attacco da parte di Amalek, popolo nomade che assalì gli Israeliti diretti al Monte Sinai, la Torah ci riferisce dell’arrivo di Yitrò, suocero di Moshè, che si presenta nell’accampamento d’Israele per rendere omaggio al loro Dio e rallegrarsi per la loro salvezza.

Il fatto che Yitrò compaia nel testo subito dopo la battaglia contro gli empi Amalekiti non è casuale. Secondo alcuni commentatori, la giustapposizione tra questi due racconti non è dovuta alla semplice cronologia dei fatti, ma ad altri motivi.

Dopo l’insediamento degli Ebrei nella terra promessa, i discendenti di Yitrò, cioè il clan dei Keniti, si stabilirono accanto a Israele, occupando lo stesso territorio in cui anche gli Amalekiti ponevano le loro tende. I Keniti e Amalek condividevano quindi la stessa regione, e sono perciò in più occasioni accostati in vari brani della Bibbia.

Ma il legame tra queste due popolazioni non è soltanto di natura geografica. Come scrive Ibn Ezra, Amalek e Yitrò rappresentano due modelli opposti: da una parte abbiamo i nemici più spietati del popolo ebraico, simbolo del male e dell’opportunismo più crudele; dall’altra invece troviamo colui che stringe alleanza con Israele, riconoscendo con sincerità il valore della redenzione operata da Dio.

Accostare Yitrò ad Amalek significa allora porre in evidenza questo contrasto, affinché Israele possa sempre ricordare che fra le altre nazioni non esistono soltanto nemici, ma anche modelli positivi con i quali instaurare veri rapporti di fratellanza.


MISHPATIM

Dopo la maestosa rivelazione dei Dieci Comandamenti sul Monte Sinai, la Torah si cala nei dettagli della Legge divina e procede a illustrare gli “statuti” (Mishpatím), le norme che dovranno regolare la società ebraica.

Mentre i Dieci Comandamenti (o meglio i “dieci concetti” o “dieci discorsi”) rappresentano imperativi morali assoluti e generici, gli statuti svolgono la funzione di trasportare tali imperativi nella realtà concreta, affinché i valori fondamentali della Torah divengano un codice giuridico dettagliato e al contempo dinamico.

Se, da un parte, nel Decalogo si legge ad esempio “Non uccidere”, dall’altra gli statuti chiariscono la distinzione tra un omicidio colposo e uno premeditato, ci informano sulle norme relative ai danni fisici non letali e sulle misure da adottare per prevenire uno spargimento di sangue.

Il comandamento “Non pronunciare falsa testimonianza contro il tuo prossimo” (Esodo 20:16) è poi ampliato con una serie di divieti volti all’istituzione di un sistema di giustizia equo, tra cui non accettare doni di corruzione, non favorire il ricco né il povero e non opprimere gli stranieri (23:1-9).

Queste estensioni e chiarificazioni dei Dieci Comandamenti risultano essenziali per dare effettiva applicazione ai principi globali espressi nel Decalogo, ma al contempo non devono neppure offuscare i valori di base che, a volte, quando ci si concentra troppo sui particolari minimi della legge, rischiano di perdere la loro rilevanza universale.


TERUMAH

Ed essi mi faranno un Santuario e io dimorerò in mezzo a loro. Farete ogni cosa secondo quanto ti mostrerò, secondo il modello del Tabernacolo e di tutti i suoi arredi (Esodo 25:8-9).

Con la parashah di questa settimana comincia una lunga serie di capitoli dedicati alla costruzione del Mishkàn, il Tabernacolo edificato dagli Israeliti nel deserto.

Secondo il Commentario di Nachmanide, il Libro dell’Esodo è diviso in tre sezioni, corrispondenti a tre fasi imprescindibili del processo di Gheulàh (Redenzione): l’uscita dall’Egitto (quindi la liberazione dalla schiavitù), il dono della Torah sul Monte Sinai e la costruzione del Tabernacolo.

Quest’ultima fase è parte integrante della Redenzione poiché solo inaugurando un santuario, e accogliendo così la Presenza divina in maniera tangibile, il popolo può essere ritenuto davvero libero e pronto a perseguire la propria missione.

Il Tabernacolo, insieme all’osservanza delle leggi della Torah rivelate sul Sinai, è ciò che infonde alla liberazione dalla schiavitù il suo senso più completo.

Il concetto biblico della libertà non è dunque un mero affrancamento dall’oppressione né una semplice indipendenza politica, ma un’elevazione morale che passa attraverso l’assunzione di nuove responsabilità e la consapevolezza del proprio scopo nel mondo.


TETZAVEH

Nella Tenda di Convegno, al di fuori del velo che sta davanti alla Testimonianza, Aharon e i suoi figli prepareranno [la lampada], perché dalla sera alla mattina essa sia davanti ad HaShem: è un rito perenne per i figli d’Israele, di generazione in generazione (Esodo 27:21).

Nella parashah di questa settimana, il testo biblico continua a illustrare gli elementi e le caratteristiche del Mishkan (Tabernacolo) e del culto che vi si svolgeva.

Una parola chiave che ricorre spesso in questa sezione della Torah è “Tamid”, che in ebraico significa “sempre” o “di continuo”.

Nel Tabernacolo, infatti, veniva acceso il “ner tamid”, il lume perenne della Menorah; si offriva ogni giorno il “sacrificio continuo” (korban tamid) e si presentava l’offerta continua di incenso. Inoltre, il sommo sacerdote indossava il pettorale con i nomi dei figli d’Israele “di continuo”, oltre al diadema sacro che egli teneva “in perpetuo sulla sua fronte”.

Tutti questi rituali e azioni non erano realmente svolti senza interruzioni. Eppure la Torah le definisce “continue” perché erano eseguite quotidianamente, in momenti specifici e ricorrenti, secondo un ritmo prestabilito.

Attraverso questa enfasi sul carattere continuo e incessante del servizio nel Santuario, la Torah vuole presentare il rapporto tra Dio e il suo popolo consacrato come un legame stabile che si rinnova ogni giorno, per mezzo di simboli e gesti che rappresentano l’eterna validità del Patto divino.

È per questo motivo che, in assenza del Tabernacolo e del Tempio, l’Ebraismo ha preservato nei secoli la ritmicità e continuità del culto tramite la liturgia e le preghiere quotidiane, basate proprio sull’antico servizio del Santuario.


KI TISSÀ

E ritornò Moshè da HaShem e disse: «Ahimè, questo popolo ha commesso un grande peccato e si è fatto un dio d’oro. Ma ora, ti prego, perdona il loro peccato, oppure cancellami dal tuo libro che hai scritto!» (Esodo 32:31-32).

Il Libro dell’Esodo ci fa vivere questa settimana il traumatico passaggio dall’elevatezza spirituale della Rivelazione dei Comandamenti e delle istruzioni sul Tabernacolo alla misera discesa idolatrica del vitello d’oro.

Davanti a questo grave peccato, Dio è intenzionato a distruggere tutto il popolo d’Israele risparmiando solo Moshè, rendendolo così il capostipite di una nuova stirpe. In altre parole, l’Altissimo vuole fare di Moshè un nuovo Noach (Noè), spazzando via i peccatori come era avvenuto nel Diluvio.

Moshè e Noach, del resto, sono gli unici personaggi biblici salvati dalle acque per mezzo di una tevàh, termine che nella Bibbia designa sia la famosa arca che la cesta in cui il piccolo Moshè era stato posto da sua madre.

Il parallelismo è rafforzato dalla frase che Dio rivolge a Moshè in questo episodio: “E ora lasciami, e la mia ira brucerà contro di loro” (32:10). Nell’espressione “HaNichah li” (Lasciami) si sente risuonare proprio il nome di Noach.

Tuttavia, appena Dio gli annuncia la distruzione degli Israeliti, Moshè non si mostra passivo (come invece era accaduto nel caso di Noach), ma chiede al Creatore di perdonare i peccatori, e propone persino di essere sacrificato al posto del popolo, pur non essendo colpevole.

Con questa coraggiosa richiesta, egli supera dunque il modello dell’eroe del Diluvio, che a suo tempo aveva accettato in silenzio il decreto divino di distruzione.


VAYAKHEL

Per sei giorni si lavorerà, ma il settimo sarà per voi un giorno santo, un giorno di riposo assoluto, sacro ad HaShem. Chiunque in quel giorno farà qualche lavoro sarà messo a morte. Non accenderete il fuoco in giorno di Shabbat, in nessuna delle vostre dimore» (Esodo 35:2-3).

Nel brano di questa settimana, Moshè ricorda al popolo il comandamento dello Shabbat, insistendo sul divieto assoluto di compiere qualsiasi “melakhah” in questo giorno sacro.

La parola melakhah, spesso tradotta con “lavoro”, indica qualsiasi genere di opera creativa. Esistono molti esempi di attività che rientrano in questa categoria, eppure il testo biblico ne riporta in questo caso soltanto una: accendere il fuoco.

Perché la Torah menziona qui esplicitamente quest’unica proibizione?

Nel suo libro “Recalling the Covenant”, Rabbi Moshe Shammah spiega che, nel mondo antico, il fuoco era universalmente concepito come il più importante degli elementi naturali che l’essere umano (al contrario degli animali) è riuscito a porre sotto il suo controllo.

L’uso del fuoco ha senza dubbio creato una svolta nella storia umana, consegnando nelle mani dei nostri antenati un potere sconosciuto alle bestie e dando il via al progresso tecnologico. Molti sono infatti i miti che presentano questa conquista come ciò che ha reso i mortali più vicini alle divinità.

L’accensione del fuoco, in quanto immagine emblematica del lavoro produttivo e del dominio umano sulla natura, è dunque l’esempio più indicato che la Torah possa scegliere per riassumere l’essenza dello Shabbat, il giorno in cui il popolo ebraico rinuncia alla continua lotta per il controllo delle forze naturali e si astiene da ogni opera creativa.


PEKUDEI

E Moshè vide tutta l’opera ed ecco, essi l’avevano eseguita come HaShem aveva ordinato: essi l’avevano compiuta così. E Moshè li benedisse (Esodo 39:43).

L’ultima parashah del Libro dell’Esodo è incentrata sul completamento dei lavori di costruzione del Mishkan (Tabernacolo), che una volta realizzato e rifinito in tutti i suoi elementi è pronto a ospitare la Presenza divina.

All’interno del libro, il tema del Mishkan occupa numerosi capitoli: la descrizione del Santuario e dei suoi arredi, insieme al racconto della sua edificazione, è presentata nel testo in modo molto preciso e persino ripetitivo, come nota Ralbag, che nel suo Commentario si domanda il motivo di tale prolissità.

Del resto, anche il libro successivo, il Levitico, è in gran parte dedicato al Mishkan e ai riti che vi si svolgevano, un tema che ritornerà poi in alcune sezioni del Libro di Bemidbar (Numeri).

Confrontando i capitoli sul Mishkan con quelli dedicati invece alla Creazione del mondo, si nota un interessante contrasto: la Torah impiega meno di quaranta versetti per narrare l’origine dell’universo, mentre la costruzione del Tabernacolo è illustrata in maniera infinitamente piú estesa e dettagliata. Come si spiega tale differenza?

Da un lato abbiamo il mondo, che nella visione biblica è il luogo che il Creatore ha formato per accogliere le sue creature; e dall’altra il Tabernacolo che, all’inverso, è il luogo che le creature edificano per accogliere il loro Creatore. Alla Torah, che è essenzialmente una guida al rapporto tra l’uomo e Dio, interessa molto di più il secondo rispetto al primo.

6 commenti

  1. Caro redattore,

    riguardo al libero arbitrio del faraone manipolato da HaShem e a un commento in proposito del rabbino Ovadia Sforno scrivi:

    Tra le tante soluzioni proposte nei secoli da esegeti e pensatori, una delle più interessanti e originali è senza dubbio quella offerta nel XVI secolo dal rabbino e medico italiano Ovadia Sforno.

    Se Dio non avesse “indurito” il cuore del Faraone, spiega Sforno, questi si sarebbe arreso molto presto, non attraverso un pentimento sincero, ma solo a causa del terrore di subire nuove sciagure.

    Per questo motivo, Dio diede al sovrano la forza di sopportare l’asprezza delle piaghe, affinché la paura non gli offuscasse la mente ed egli avesse l’occasione di comprendere con lucidità la lezione impartitagli dall’Altissimo.

    In questo modo, secondo il commento di Sforno, il libero arbitrio del re non fu annullato, anzi fu preservato: la sua capacità di compiere scelte morali non fu spazzata via dal desiderio di porre fine alla propria sofferenza.

    Se, nell’idea di Sforno, l’intento dell’Altissimo quando rendeva ostinato il faraone fosse di redimere quel sovrano utilizzando il seguente strumento educativo: dieci piaghe che distrussero l’Egitto e martirizzarono tutti gli egiziani, dal ricco al povero, schiavi compresi, e uccisero migliaia di innocenti primogeniti di ogni età, ebbene, tirando le somme la figura del dio della Torah non mi pare ne esca molto bene. Mi fa pensare a una scena del film “Amici miei atto II”, in cui uno dei personaggi che sta per sedurre una zitella è interrotto dall’improvvisa esondazione dell’Arno le cui acque irrompono nella casa; al che la donna, che era sul punto di cedere alle lusinghe sessuali di lui, ringrazia il Signore per averla salvata in quel frangente. Ma l’uomo sbotta: “Ti pare che Dio sta affogando tutta Firenze per salvare la verginità di una come te?”

    Penso che solamente in una occasione, tra tutti i racconti del Tanakh, Dio agisce con molta pazienza per evolvere la coscienza di un uomo: ma questi era Giona, uno dei suoi profeti, caparbiamente convinto che tutti gli uomini, a eccezione del popolo eletto, non meritassero la misericordia divina. Dio provocò di volta in volta intorno a Giona eventi che gradatamente gli illuminarono la mente: dapprima una tempesta, poi il grande pesce che lo inghiottì, infine la pianta che crebbe d’incanto e subito appassì. In questa maniera il cuore di Giona si aprì alla comprensione, e senza che ci andassero di mezzo innocenti.

    Se diamo retta ad Avodia, Dio avrebbe scatenato l’inferno sul popolo egiziano non perché il suo monarca acconsentisse di lasciare liberi gli israeliti ma affinché alla fine egli desse tale assenso col serio convincimento di compiere un atto moralmente corretto. Al pari di Giona, in sostanza, allo scopo di fargli compiere un salto di coscienza. Ma a quale prezzo? E tuttavia fallendo, poiché dopo che gli israeliti si furono avviati nel deserto, il faraone, tutt’altro che illuminato, diede ordine al suo esercito di inseguirli per annientarli.

    Direi che le esegesi che mirano ad “ammorbidire” la figura che può apparire troppo severa e perfino machiavellica del dio della Torah, finiscono spesso per creare di lui una diversa immagine tanto discutibile da essere addirittura blasfema.

    1. A dire il vero, personalmente non condivido l’interpretazione di Ovadia Sforno, ma ho voluto riportarla perché è comunque interessante e originale. Il problema teologico da te illustrato può essere però aggirato considerando che l’Egitto meritava comunque di essere colpito dalle piage in quanto società corrotta. Riprendendo il tuo paragone con la scena del film, Dio non voleva annegare Firenze per salvare la zitella, ma fece comunque sì che lei si trovasse proprio in quel luogo e in quel momento affinché fosse salvata dal corteggiatore grazie a un’inondazione che sarebbe comunque avvenute per motivi del tutto indipendenti.

  2. Gentili amici, consentitemi una domanda, domanda rivolta in varie occasioni a fedeli ebraici, da cui però ho ricevuto sempre risposte non univoche : l’ebraismo crede in una vita oltre la morte, in cui i “buoni” saranno premiati e i “cattivi” saranno puniti (del tipo Paradiso/Inferno del Cristianesimo)? Grazie dell’attenzione e buon proseguimento del vs. pregevole lavoro.

    Ario G. Benedetti

    1. A questa domanda riceverai sempre risposte non univoche perché una risposta univoca non esiste. Nell’Ebraismo esistono varie opinioni e credenze a riguardo, seppure l’idea secondo cui la vita umana non si esaurisca in termini materialistici sia universale. Per una breve analisi della questione dal punto di vista specificamente biblico abbiamo pubblicato una lezione audio nel nostro podcast “La Bibbia fraintesa”.

      1. Grazie amici per la vs. gradita e sollecita risposta. Dalle considerazioni ascoltate dall’audio ho compreso il motivo della “non univocità” delle posizioni in merito all'”Aldilà”. Grazie ancora.

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