L’essere umano è libero di scegliere fra il bene e il male, oppure le sue azioni sono determinate da una Volontà superiore?
Il principio etico accettato dall’Ebraismo, secondo cui l’individuo è ritenuto responsabile delle proprie scelte, sembra essere messo in discussione nel racconto del Libro dell’Esodo, in cui in più occasioni si legge che Dio rese ostinato il cuore del Faraone, condizionando così le decisioni del sovrano d’Egitto (vedi ad esempio Esodo 4:21; 7:3-4).
In questo articolo ci proponiamo di offrire diversi approcci per analizzare questo antico dilemma da punti di vista diversi, allo scopo di chiarire il significato delle espressioni impiegate dalla Torah.
– La spiegazione di Umberto Cassuto
Dal Commentario al Libro dell’Esodo, Gerusalemme, Hebrew University, 1967.
E Hashem disse a Moshè: «Quando sarai tornato in Egitto, avrai cura di fare davanti al Faraone tutti i prodigi che ti ho dato potere di compiere, ma io indurirò il suo cuore ed egli non lascerà partire il popolo (Esodo 4:21).
Questo verso, almeno in apparenza, ci pone davanti ad una questione problematica, nella cui risoluzione si sono impegnati molti esegeti, e in particolare i filosofi medievali. Se è il Signore a rafforzare (o “indurire”) il cuore del Faraone, allora quest’ultimo non può essere ritenuto davvero colpevole, e dunque neppure la punizione risulterà appropriata dal punto di vista etico.
In Esodo 3:19 è scritto: Ma io so che il re d’Egitto non vi lascerà andare. Anche questa affermazione può far sorgere una questione dello stesso tipo. Se infatti il Signore conosce a priori ciò che il Faraone sceglierà di fare, ciò significa che per il re d’Egitto non esiste una vera libertà di scelta: egli non potrà agire in maniera diversa da come Dio ha predetto.
Prima di affrontare questi dilemmi, dobbiamo innanzitutto comprendere che lo scopo della Torah non è quello di trattare argomentazioni filosofiche, neppure se relative all’ambito della religione. Il racconto preso in esame non si occupa della relazione tra il libero arbitrio dell’uomo e la prescienza di Dio, o di altri problemi filosofici simili. All’epoca in cui la Torah fu scritta, la filosofia greca, con tutto il suo sistema fondato sulla logica, non era neppure stata ideata. Inoltre, la Torah non si rivolge ad una cerchia ristretta di grandi pensatori, bensì all’intero popolo, e si esprime in un linguaggio comprensibile alle masse, secondo la mentalità della gente comune.
Di conseguenza, il nostro obiettivo non dovrà essere quello di risolvere questioni filosofiche, ma quello di spiegare il significato dei brani citati cercando di comprendere il vero messaggio della Torah, ciò che il testo vuole trasmetterci.
Per quanto riguarda l’indurimento del cuore del Faraone, la prima cosa da considerare è il modo in cui l’ebraico antico si esprime. Nel linguaggio biblico, si usa abitualmente attribuire ogni singolo fenomeno all’azione diretta di Dio. Nel menzionare una donna sterile, ad esempio, la Bibbia afferma che “Il Signore aveva chiuso il suo grembo” (1 Samuele 1:5); nel caso di un incidente in cui una persona ne uccide un’altra involontariamente, si dice che “Dio lo ha fatto cadere nelle sue mani” (Esodo 21:13).
Ogni avvenimento ha delle proprie cause, e queste, a loro volta, derivano da altre cause, e così all’infinito. Secondo la concezione degli Israeliti, la causa di tutte le cause è in definitiva sempre la Volontà di Dio, il Creatore del mondo. Il filosofo, nelle sue riflessioni, esamina la lunga e complessa catena delle varie cause, mentre la persona comune salta immediatamente dall’effetto ultimo alla causa prima, e attribuisce quest’ultima a Dio. La Torah, che si serve del semplice linguaggio umano, si esprime proprio secondo questo uso. Si può quindi affermare che espressioni come “Io indurirò il suo cuore” e “Il suo cuore sarà indurito” (vedi Esodo 7:13) sono essenzialmente identiche nel significato.
C’è poi un altro punto su cui bisogna riflettere. Il peccato commesso dal Faraone fu quello di imporre una dura schiavitù agli Israeliti, e di decretare lo sterminio dei loro neonati maschi; furono queste azioni malvagie a fargli meritare la punizione, non la durezza del suo cuore. Se il Faraone avesse soddisfatto subito le richieste di Mosè e Aronne, allora non gli sarebbe stata inflitta alcuna sofferenza, e ciò non sarebbe stato giusto. Il cuore duro era perciò soltanto un mezzo per fare in modo che il Faraone potesse subire il castigo delle piaghe (una punizione che egli meritava a causa dei suoi peccati) e per mostrare al mondo l’esistenza di una legge morale e di un Giudice che esamina le azioni di ogni essere umano.
In nessuna occasione il testo della Torah dichiara che il Faraone fu punito per la sua ostinazione, e neppure che tale intransigenza gli fosse imputata come una colpa. Un caso simile che ci permette di fare ulteriore chiarezza lo troviamo in un passo del Deuteronomio:
“E Sihon, re di Heshbon, non volle lasciarci passare nel suo territorio, perché Hashem, il tuo Dio, gli aveva indurito lo spirito e reso ostinato il cuore, per farlo cadere nelle tue mani” (Deut. 2:30).
Qui, come è facile comprendere, il peccato di Sihon non è la sua ostinazione nel difendere il proprio dominio; questa è infatti solo un mezzo di cui Dio si serve per punire l’iniquità del re e del suo popolo.
Se dunque partiamo da queste osservazioni, e interpretiamo i passi biblici in questione secondo il loro significato semplice, non alla luce di concetti che appartengono ad epoche successive, vediamo che il testo non presenta alcun problema, ma tutto appare chiaro nella prospettiva dell’antica concezione ebraica.
– Le interpretazioni classiche
Da un articolo di Rav Scialom Bahbout sulla Parashah di Vaerà.
Shadal sostiene che la Bibbia attribuisce a Dio le azioni che risultano strane e incomprensibili all’uomo (in questo caso la testardaggine del Faraone, di fronte ai disastri che avevano già messo in ginocchio l’Egitto).
Rabbì Ovadià Sforno conferisce alle due espressioni un senso completamente diverso da quello cui ci ha abituato la tradizione: è stato proprio l’indurimento del cuore che avrebbe consentito al Faraone di poter fare le scelte nella massima libertà, senza essere costretto a cedere ad alcuna pressione. Incapace di sopportare la durezza degli eventi, il Faraone avrebbe mandato via gli ebrei non perché convinto dalla potenza divina, ma piuttosto perché non sarebbe più stato in grado di sopportare le piaghe.
Rabbi Chaim ben Atar fornisce una risposta alla questione su un piano filosofico: il Signore può eliminare dalla propria conoscenza un fatto che egli stesso ha conseguito con la sua stessa conoscenza, e questo proprio per evitare che l’uomo si giustifichi affermando di aver agito in stato di costrizione. Ogni contraddizione tra la preveggenza e la perfezione divina viene così eliminata.
Rabbi Jeshaià Horowitz sostiene che il Signore conosce perfettamente il carattere dell’uomo, sa cosa l’uomo sceglierà di fare, ma l’uomo ha sempre la possibilità di reagire e di cambiare il proprio carattere e quindi è responsabile delle proprie azioni. Ciò sarebbe possibile in quanto uomo e Dio hanno una nozione di tempo diversa: il presente, il passato e il futuro sono presenti contemporaneamente nella mente divina. Egli conosce ogni evento per il fatto che conosce se stesso e, poiché ha dato all’uomo il libero arbitrio, non può conoscere le azioni dell’uomo se non solo dopo che l’uomo le ha fatte e ha quindi lasciato in alto una traccia della sua azione. E questo perché il prima, il dopo e il durante in Dio coincidono.
Maimonide risponde alla nostra questione dando una interpretazione sul piano della sociologia del comportamento. In effetti, fino alla quinta piaga il Faraone aveva la piena libertà di azione (la Torà afferma che fu il Faraone a indurire il proprio cuore), ma il fatto di avere continuato a persistere nel suo comportamento gli rese più difficile, se non addirittura impossibile, cambiare atteggiamento: le sue colpe finirono per creare una barriera tra l’uomo e il pentimento: ecco quindi perché, nelle piaghe successive, è scritto che Dio indurì il cuore del Faraone.
Invece da quello che ho capito io, Dio indurì il cuore del Faraone nel senso che da Dio esce la provocazione che palesa l’indurimento del cuore.
Anche tra di noi accadono le stesse dinamiche.
Per fare un esempio pratico: se un tizio fa vedere il suo tesoro ad un amico fidato e questo decide di rubarglielo, è stato il tizio a provocare questa sua reazione.
Quindi quest’amico ladro, ha deciso di indurire il suo cuore calpestando la fiducia di chi si è fidato di lui nonostante tutta la dinamica sia partita dal primo.
Ecco che, “io indurirò il cuore” di chicchessia, assume un altro significato.
Questo esempio si può fare in un sacco di dinamiche: furto, adulterio, potere, ecc.
L’intervento di Dio sul cuore del faraone crea comprensibili perplessità, ma se provassimo a leggere la storia delle dieci piaghe secondo la mentalità dell’antico autore, credo che ogni imbarazzo si dissolverebbe. Lo scrittore biblico, infatti, magnifica la potenza e la vena beffarda con cui Dio riduce l’uomo più potente della terra in quei tempi lontani, vale a dire il re d’Egitto, a un patetico burattino:
“Poi l’Eterno disse a Mosè: «Va’ dal Faraone; poiché io ho indurito il suo cuore e il cuore dei suoi servi, perché possa mostrare questi miei segni in mezzo a loro, e affinché tu possa raccontare ai tuoi figli e ai figli dei tuoi figli le grandi cose che ho fatto, prendendomi gioco degli Egiziani, e i miei segni che ho fatto in mezzo a loro, perché sappiate che io sono l’Eterno». — Esodo 10:1-2, ND.
Qui, nella traduzione della Nuova Diodati, la vanteria del Dio degli eserciti è perfino messa in evidenza con l’espressione “Prendendomi gioco degli egiziani”. L’edizione Paoline traduce similmente: “Come ho preso in giro l’Egitto”, e il rabbino Luzzatto: “Come mi trastullai con gli Egizi”. Altre versioni della Bibbia, come la CEI, preferiscono invece una traduzione assai più morbida.
Per il redattore di Esodo il rapporto fra Dio e il faraone è chiaramente quello diplomatico fra due capi di stato; diversamente però, le molte interpretazioni su queste pagine controverse conducono tutte a un unico filo conduttore: a vedere in detto rapporto il giudizio di Dio verso una sua colpevole creatura. È appunto in questa chiave la lettura di Umberto Cassuto, che cito di seguito:
“Il peccato commesso dal Faraone fu quello di imporre una dura schiavitù agli Israeliti, e di decretare lo sterminio dei loro neonati maschi; furono queste azioni malvagie a fargli meritare la punizione, non la durezza del suo cuore. Se il Faraone avesse soddisfatto subito le richieste di Mosè e Aronne, allora non gli sarebbe stata inflitta alcuna sofferenza, e ciò non sarebbe stato giusto. Il cuore duro era perciò soltanto un mezzo per fare in modo che il Faraone potesse subire il castigo delle piaghe (una punizione che egli meritava a causa dei suoi peccati) e per mostrare al mondo l’esistenza di una legge morale e di un Giudice che esamina le azioni di ogni essere umano.”
Dunque, secondo questa tesi, Dio offusca la mente del faraone inducendolo a commettere un peccato allo scopo di punirlo per un precedente peccato commesso ottant’anni prima, e nemmeno da lui ma da un suo predecessore. Non posso fare a meno di pensare al famigerato gangster americano Al Capone, imputabile di almeno 400 omicidi ma che la giustizia americana poté incarcerare solo grazie a un suo diverso e meno grave reato: l’evasione fiscale. Si sa, la giustizia umana è spesso impotente e a volte deve ricorrere a simili stratagemmi per trionfare, ma… anche Dio è impotente? Vuole giustamente che un re infanticida paghi per questo suo crimine ma, anziché farlo quando è il momento, anche per impedire che continui la strage degli innocenti, attende quasi un secolo e se la prende non più col responsabile ma col successore al trono. Eppure con Uzza, che ebbe la pretesa di sorreggere la sacra arca dell’alleanza, Dio non perse un istante poiché lo fulminò, e così pure bruciò vivi due figli di Aronne appena usarono un fuoco profano invece di quello sacro.
L’autore di Esodo presenta Dio come il capo della nazione d’Israele, ora schiava di quella egizia, che riscatta il suo popolo giocando a braccio di ferro col capo avversario e dimostrandosi talmente superiore a questo da ridurlo a una marionetta. È certamente un’immagine cruda che è attribuita a Dio, ma coerente con l’epoca in cui la storia è stata narrata; voler sostituire detta immagine di politico abile e anche machiavellico con quella di un giustiziere, però troppo tortuoso, non migliora le cose.
Tuttavia bisogna riconoscere che questa tesi della punizione divina del faraone, a spese però della popolazione egiziana, è perlomeno in sintonia con il concetto biblico di castigo di chi sta in alto: secoli prima un altro faraone si era reso colpevole (ma inconsapevolmente) di aver sposato la moglie di Abramo; Dio lo punì flagellando le donne del sue harem, i suoi figli, gli eunuchi, i servi, insomma tutta la sua corte. Con i monarchi israeliti non andò diversamente: Davide commise adulterio, e le sue concubine furono violentate, fu omicida, e morì suo figlio, ordinò un censimento non autorizzato da Dio, e 70.000 suoi sudditi furono uccisi dalla peste. Nulla di strano quindi se Dio, qualora il suo fine fosse stato davvero di castigare il faraone, avesse torturato e affamato con dieci flagelli l’intera popolazione egizia senza distinzione di età e condizione, servi compresi (ricordiamo che gli egiziani non erano liberi cittadini elettori) uccidendo molti fra i più giovani di loro per la “colpa” di essere figli primogeniti.
Umberto Cassuto aggiunge:
“In nessuna occasione il testo della Torah dichiara che il Faraone fu punito per la sua ostinazione, e neppure che tale intransigenza gli fosse imputata come una colpa. Un caso simile che ci permette di fare ulteriore chiarezza lo troviamo in un passo del Deuteronomio:
‘E Sihon, re di Heshbon, non volle lasciarci passare nel suo territorio, perché Hashem, il tuo Dio, gli aveva indurito lo spirito e reso ostinato il cuore, per farlo cadere nelle tue mani’ (Deut. 2:30).
Qui, come è facile comprendere, il peccato di Sihon non è la sua ostinazione nel difendere il proprio dominio; questa è infatti solo un mezzo di cui Dio si serve per punire l’iniquità del re e del suo popolo.”
Concordo che il testo di Esodo non parla mai di castigo del faraone per la sua ostinazione (indotta da Dio) ma io aggiungerei che non parla neppure di punizione per le precedenti malefatte: è proprio il testo che esplicita ripetutamente la ragione delle piaghe; queste erano una dimostrazione di forza contro la superpotenza egiziana affinché si sapesse in tutta la terra che il più forte in assoluto era il Dio di quel popolo schiavo, chiamato ad essere il popolo eletto:
“Questa volta io mando tutti i miei flagelli contro di te, contro i tuoi ministri e contro il tuo popolo, perché tu sappia che nessuno è come me su tutta la terra. Se fin da principio io avessi steso la mano per colpire te e il tuo popolo con la peste, tu saresti ormai cancellato dalla terra; invece ti ho lasciato vivere, per dimostrarti la mia potenza e per manifestare il mio nome in tutta la terra.” (Esodo 9:13-16, CEI)
Riguardo al riferimento dello sterminio di tutta la popolazione su cui regnava Sihon, credo che Cassuto avrebbe fatto meglio a risparmiarcelo: anche un bambino, educato alla logica odierna, osserverebbe che sia assurdo tacciare di malvagità tutto un popolo, dal canuto fino al feto appena concepito, e credere sia giustizia che tale (fantasiosa) malvagità globale si debba curare solo con il genocidio, anche se ciò è molto biblico.
Il decreto del faraone di far morire tutti i neonati maschi del popolo israelita per contenerne la proliferazione vertiginosa era insensato oltre che crudele.
L’Egitto antico, noto per la sua straordinaria civiltà, doveva abbondare di menti esperte in matematica ed economia, tali da comprendere che c’era un modo molto più efficace e anche proficuo per frenare l’incremento della popolazione israelita.
La soppressione di tutti i neonati maschi avrebbe arrecato un notevole danno economico all’Egitto senza minimamente risolvere il problema. La ragione è semplice:
in primo luogo, la rilevante riduzione della futura forza lavoro maschile, causata dall’eccidio di un’intera generazione di bambini, sarebbe stata controproducente per l’economia egiziana.
In secondo luogo, il tasso di proliferazione degli israeliti non sarebbe comunque calato perché, sul piano matematico, esso dipende esclusivamente dal numero di donne fertili. In sostanza, i maschi israeliti lasciati in vita (per esempio Aronne, che aveva due anni più di Mosè, non corse il pericolo di essere affogato nel Nilo) avrebbero comunque potuto fecondare tutte le femmine avendo ciascun uomo molte mogli. Una vera manna dal Cielo per quei pochi uomini!
Dal film “Dottor Stranamore” un suggerimento per ripopolare la terra: dieci donne per ogni uomo.
“Io riconosco che c’è qualcosa di buono in questa idea, professore.”
La soluzione migliore sarebbe consistita nel sequestro della maggioranza di bambine israelite, o meglio nell’obbligo di cederle allo Stato in cambio di un modico indennizzo. Le femmine vergini avevano un considerevole valore commerciale nell’antichità; essendo fattrici, il loro destino era di essere vendute ancora adolescenti come spose dalle proprie famiglie. Divenute proprietà dello Stato egiziano, quelle bambine potevano essere vendute proficuamente nel mercato interno o all’estero appena raggiungevano l’età fertile.
Per contro, la popolazione israelita ormai composta da moltissimi maschi e da poche femmine, sarebbe stata ancora produttiva sul piano economico poiché la manodopera maschile non sarebbe stata intaccata. Ma, soprattutto, la sua proliferazione sarebbe stata davvero sotto controllo per il ridotto numero di donne. Col passare delle generazioni, sarebbe bastato continuare a sequestrare altre bambine così da limitare per il futuro il numero delle donne disponibili per le gravidanze.
Aggiungiamo che L’UCCISIONE dei neonati genera ostilità manifesta essendo un atto mostruoso presso qualsiasi civiltà.
Diversamente, una legge che obbligasse gli israeliti a vendere parte delle loro figlie allo Stato egiziano poteva apparire, al più, come un abuso commerciale.
Perché la Scrittura narra che gli egiziani adottarono un rimedio talmente stupido per ridurre l’incremento demografico degli israeliti? Due possono essere le ragioni:
1) L’onnipotenza divina aveva cominciato già da allora a manipolare i cervelli dei dirigenti egiziani rendendoli ottusi.
2) L’autore biblico, quando inventò questa storia, percepiva la realtà solo in termini ideologici di empietà umana che giustificasse la crudeltà del Dio unico sul popolo egiziano. Di sicuro non possedeva la capacità di creare su basi realistiche gli eventi che narrava, come rivela clamorosamente nel seguito del racconto. Infatti, descrivendo i flagelli che Dio mandò sull’Egitto, fa morire tutto il bestiame degli egiziani più volte.
Inoltre, fa compiere ai divinatori egiziani magie impossibili: quando tutte le acque dell’Egitto divennero sangue, essi, dice la narrazione, ripeterono pari pari lo stesso prodigio sebbene non esistesse più in tutto il paese una sola goccia d’acqua che Dio non avesse già trasformato in sangue. E se anche fossero rimaste nel paese delle riserve d’acqua ancora intatte, la mutazione in sangue pure di queste con la magia sarebbe stato un atto incredibilmente sciocco giacché gli egiziani rischiavano di morire di sete. Anche col flagello delle rane, quei maghi, anziché operare il prodigio al contrario, ossia facendo rientrare le rane nei fiumi, lo replicarono esasperando in questo modo gli effetti della piaga.
Mi pare sia stato Gordon Wenham ad affermare che la Bibbia stia ai fatti storici come un dipinto astratto sta alla realtà. Una similitudine efficace che condivido in pieno. Non si può infatti affermare che i racconti biblici siano stati scritti con un intento storiografico, né che gli autori scritturali intendano perseguire la realisticità. Neppure però possiamo dire che si tratti di storie puramente “inventate” in modo arbitrario: questa idea è altrettanto fuorviante.
Non sappiamo cosa avvenne davvero in Egitto. Il resoconto che troviamo in Esodo è schematico, spesso poetico, e di natura spiccatamente letteraria. L’idea dello sterminio degli Israeliti maschi però sembra avere un fondamento storico in quanto parte della tradizione nazionale ebraica, il cui eco si può cogliere anche nel racconto di Avram e Sarai in Egitto (“Essi uccideranno me e lasceranno te in vita”), come è stato notato da molti studiosi.
Non parlerei comunque di un “rimedio stupido”: privare un popolo sottomesso di una parte consistente della sua popolazione maschile significava verosimilmente mettere le donne in mano ai maschi egizi, che le avrebbero prese come mogli o concubine. Certamente gli israeliti maschi rimasti – schiavi, ricordiamo – non avevano la possibilità di creare grandi harem di donne da fecondare. La tradizione rabbinica ci parla a questo proposito di quanto la vita sessuale di questi Israeliti fosse compromessa a causa del duro lavoro a cui erano sottoposti.
Scrivi:
“Non sappiamo cosa avvenne davvero in Egitto. Il resoconto che troviamo in Esodo è schematico, spesso poetico, e di natura spiccatamente letteraria. L’idea dello sterminio degli Israeliti maschi però sembra avere un fondamento storico in quanto parte della tradizione nazionale ebraica, il cui eco si può cogliere anche nel racconto di Avram e Sarai in Egitto (“Essi uccideranno me e lasceranno te in vita”), come è stato notato da molti studiosi.
Ammesso che la Bibbia si esprima in forma poetica, si presume che, come si esige nei tribunali, enunci soltanto la verità se davvero essa è la rivelazione.
L’eco del racconto di Abramo e Sara in Egitto potrebbe esserci nell’ambito poetico ma non in quello logico: una cosa è uccidere un viandante per rapire sua moglie, altro è il proposito di ostacolare, per motivi di sicurezza, la proliferazione di milioni di individui stranieri accolti in una nazione.
Scrivi:
“Non parlerei comunque di un “rimedio stupido”: privare un popolo sottomesso di una parte consistente della sua popolazione maschile significava verosimilmente mettere le donne in mano ai maschi egizi, che le avrebbero prese come mogli o concubine.”
Io, invece, insisterei a definirlo un “rimedio stupido”. Ricordiamo che gli israeliti erano schiavi. Non era quindi necessaria l’eliminazione di una parte consistente della popolazione maschile per mettere le donne in mano ai maschi egizi. Gli schiavi non si uccidono, si usano: gli uomini a lavorare, le donne prese come mogli o concubine.
Scrivi:
“Certamente gli israeliti maschi rimasti – schiavi, ricordiamo – non avevano la possibilità di creare grandi harem di donne da fecondare. La tradizione rabbinica ci parla a questo proposito di quanto la vita sessuale di questi Israeliti fosse compromessa a causa del duro lavoro a cui erano sottoposti.”
A dispetto dell’asservimento cui erano sottoposti gli israeliti, la loro vita sessuale non poteva, in virtù dell’onnipotenza di Dio, essere in alcun modo compromessa. Le loro donne erano straordinariamente prolifiche e forti per grazia divina tanto da riuscire a partorire senza bisogno delle levatrici. Pertanto, anche i mariti dovevano essere ugualmente in salute per il medesimo prodigio. Basti ricordare che gli israeliti vagarono per quarant’anni nel deserto senza che i loro abiti e i loro calzari si logorassero.
Dio, dunque, vegliava e proteggeva continuamente il suo popolo.
In realtà non era neppure necessario ridurre in schiavitù il popolo israelita. Il solo provvedimento efficace era la precettazione di buona parte delle loro bambine prossime alla pubertà. Vale a dire un decreto che obbligasse ogni padre ebreo a “vendere” – a modico prezzo – le sue figlie allo Stato egiziano prima che, secondo la consuetudine, le desse in matrimonio ai maschi israeliti. A questi ultimi non sarebbero rimaste che poche spose da contendersi, che so, nel rapporto di cinque o sei uomini per ogni donna. Dopotutto è proprio ciò che accade – ma soltanto a scapito dei ceti non abbienti – in una società dove vige la poligamia: questa fa sì che i ricchi riempiano i loro ginecei e i loro harem con le donne sottratte, in termini statistici, agli uomini poveri.
La comunità ebraica, libera ma ormai composta prevalentemente da maschi, avrebbe continuato a proliferare sul piano economico ma non su quello demografico, contribuendo col pagamento delle tasse alla prosperità del regno egiziano.
Ma l’autore biblico doveva caricare di pathos la sua storia dipingendo come mostri gli egiziani. Doveva, insomma, creare le circostanze che giustificassero sia i flagelli sia il merito divino – quest’ultimo continuamente rinfacciato agli ebrei in molti passi della Torah – di averli liberati dalla schiavitù.
Il comando di uccidere i neonati suscitava, secondo lo scrittore biblico, molto più orrore trattandosi dei neonati maschi. Questi erano molto più “pregiati” delle femmine. Pensiamo alle frasi di esultanza – pedissequamente riportate nel libro di Genesi – che pronunciavano tutte le volte le due mogli di Giacobbe ogni volta che davano alla luce un bambino maschio. Per esempio, quando nacque Aser, Lia disse:
“«Per mia felicità! Perché le donne mi diranno felice». Perciò lo chiamò Aser.” (Genesi 30:13, CEI)
Ma dopo aver dato alla luce l’ultimo maschio, Zabulon, essa partorisce finalmente una femmina; la Scrittura cita quest’evento di sfuggita, nel medesimo versetto in cui Lia esprime la sua gioia per la nascita di Zabulon, il suo ultimo figlio maschio:
Lia disse: «Dio mi ha fatto un bel regalo: questa volta mio marito mi preferirà, perché gli ho partorito sei figli». Perciò lo chiamò Zàbulon. In seguito partorì una figlia e la chiamò Dina.” (Genesi 30:20-21, CEI).
Nessuna frase di esultanza, dunque, alla nascita di Dina che per il “poetico” autore conta poco. Anzi, egli non la conta nemmeno dal punto di vista numerico quando descrive la fuga di Giacobbe con tutta la sua famiglia dalla casa del suocero. Giacobbe aveva allora in tutto dodici figli, di cui una femmina, ma il testo cita solo undici figli, vale a dire i maschi:
“Durante quella notte egli si alzò, prese le due mogli, le due schiave, I SUOI UNDICI FIGLI e passò il guado dello Iabbok.” (Genesi 32:22, CEI)
Credo, comunque, che l’esultanza delle donne israelite alla nascita di un figlio maschio non fosse solamente una proiezione dell’autore biblico. Esse, infatti, avevano un motivo concreto per essere più felici se nasceva un maschio: la loro quarantena sarebbe durata appena (si fa per dire) quaranta giorni invece degli ottanta prescritti quando veniva al mondo una femmina. (Levitico 12:1-5)
Tenere i maschi in vita e obbligare le figlie femmine a sposare uomini egizi avrebbe permesso a Israele di conservare la sua potenziale forza militare, creando al contempo ben due gravi motivi di malcontento (la schiavitù e la privazione delle donne), che avrebbero potuto aprire la porta al rischio di ribellione, esattamente ciò che il Faraone voleva evitare. Che il popolo fosse miracolosamente protetto e sostenuto da Dio lo sappiamo noi lettori, non il Faraone, il quale dovette pensare che opprimere gli Israeliti e privarli al contempo di gran parte della loro forza militare significasse eliminare efficacemente ogni possibile minaccia. Ma ribadisco, questo tipo di ragionamento può essere interessante per gli storici, non per chi vuole capire l’intento del testo. Stiamo sottoponendo un quadro di Picasso a un’analisi chimica al posto di riflettere sul suo messaggio.
Che il figlio maschio fosse più gradito di una femmina non è un segreto: era così anche da noi ancora in tempi relativamente recenti. Tuttavia nel caso di Dinah la discriminazione delle donne c’entra ben poco: i dodici figli maschi di Yaakov non sono semplici personaggi individuali, ma personificazioni delle tribù d’Israele (mentre Dinah non lo è). Da qui l’enfasi posta sui maschi piuttosto che sulla loro unica sorella.
Scrivi:
“Tenere i maschi in vita e obbligare le figlie femmine a sposare uomini egizi avrebbe permesso a Israele di conservare la sua potenziale forza militare, creando al contempo ben due gravi motivi di malcontento (la schiavitù e la privazione delle donne), che avrebbero potuto aprire la porta al rischio di ribellione, esattamente ciò che il Faraone voleva evitare. Che il popolo fosse miracolosamente protetto e sostenuto da Dio lo sappiamo noi lettori, non il Faraone, il quale dovette pensare che opprimere gli Israeliti e privarli al contempo di gran parte della loro forza militare significasse eliminare efficacemente ogni possibile minaccia. Ma ribadisco, questo tipo di ragionamento può essere interessante per gli storici, non per chi vuole capire l’intento del testo. Stiamo sottoponendo un quadro di Picasso a un’analisi chimica al posto di riflettere sul suo messaggio.”
Esistevano già due gravi motivi di malcontento fra gli israeliti: la schiavitù e l’affogamento di tutti i neonati maschi, quest’ultimo infinitamente peggiore della sola precettazione delle ragazze per i ginecei egiziani, magari con la compensazione di un indennizzo pecuniario ai loro padri.
E comunque, nonostante l’infanticidio di TUTTI i maschi, non ci fu ribellione. Meno che mai la rivolta ci sarebbe stata con la vendita obbligata in moglie agli egizi, NON DI TUTTE, ma di una parte soltanto delle ragazze.
Picasso, per stare alla tua analogia, dipinse “Guernica” rappresentando cose, animali e persone con schizzi che, agli occhi dei profani, sembrerebbero eseguiti da bambini. Anche la Bibbia si può esprimere in questo modo. Ma il quadro di Picasso, per comunicare il suo messaggio di orrore verso la guerra, ha rappresentato la realtà dei fatti, ossia volti e corpi straziati e non il loro contrario, per esempio balli campestri di primavera. I racconti biblici narrano avvenimenti: se anche li descrivono come farebbe un pittore moderno con il suo pennello, non possono però sostituirne l’attinenza alla realtà con tuffi nell’inverosimile.
“Che il figlio maschio fosse più gradito di una femmina non è un segreto: era così anche da noi ancora in tempi relativamente recenti. Tuttavia nel caso di Dinah la discriminazione delle donne c’entra ben poco: i dodici figli maschi di Yaakov non sono semplici personaggi individuali, ma personificazioni delle tribù d’Israele (mentre Dinah non lo è). Da qui l’enfasi posta sui maschi piuttosto che sulla loro unica sorella.”
Si può capire l’enfasi delle madri alla nascita dei futuri capostipiti delle tribù d’Israele.
Ma non includere nel numero dei famigliari di Giacobbe pure la figlia Dina, rivela che per lo scrittore biblico la percezione delle femmine era nulla. Cosa che si rivela pure tra i redattori giudei del Nuovo Testamento. Essi, nei racconti evangelici della moltiplicazione dei pani e dei pesci, specificano solo il numero degli uomini, aggiungendo l’espressione: “oltre alle donne e ai bambini”. Questa è una delle molte contraddizioni presenti (pure) nel Nuovo Testamento. Il rabbi che fu chiamato il Cristo parlava con le donne e lasciava che i fanciulli si avvicinassero a lui.
Questo suo atteggiamento era rivoluzionario per quei tempi, ma poco recepito dai suoi discepoli. Paolo di Tarso, con le sue clamorose uscite sull’inferiorità delle donne, ne è una chiara dimostrazione.
Va ricordato che il decreto di gettare i neonati maschi nel fiume è presentato nel racconto come una misura estrema derivata dalla frustrazione del sovrano, che aveva visto fallire i suoi tentativi precedenti. Ribadendo che la Torah non è un testo storico e che dovremmo concentrarci sul suo messaggio, non sulla realisticità del suo contenuto, da parte mia non ridurrei di certo il racconto a un frutto di pura fantasia. Qui parliamo della storia nazionale ebraica, che in quanto tale va analizzata con rispetto e con prudenza. Non è difficile immaginare che tra qualche secolo qualcuno deriderà i racconti della Shoah con obiezioni del tipo “Com’è possibile che gli Ebrei, numerosi e potenti nella società europea, non si siano ribellati a un simile sterminio?”. In realtà non dobbiamo aspettare secoli, perché idee simili circolano già.
Ciò su cui invece possiamo e dobbiamo riflettere è il fatto che questo sovrano, ossessionato nel considerare i maschi come l’unica minaccia da cui difendersi, verrà invece sconfitto proprio grazie alle donne: prima le levatrici, poi la sua stessa figlia, ma anche Yocheved, Miriam e Tzipporah. Questo insegnamento ha portato i Maestri del Talmud (Sotah 11) ad affermare: “Per il merito delle donne virtuose i nostri padri sono usciti dall’Egitto”.
Scrivi:
“Qui parliamo della storia nazionale ebraica, che in quanto tale va analizzata con rispetto e con prudenza. Non è difficile immaginare che tra qualche secolo qualcuno deriderà i racconti della Shoah con obiezioni del tipo “Com’è possibile che gli Ebrei, numerosi e potenti nella società europea, non si siano ribellati a un simile sterminio?”. In realtà non dobbiamo aspettare secoli, perché idee simili circolano già.”
Per me è la storia reale di una nazione, documentata e universalmente accettata, quella che va analizzata con rispetto. Oltraggioso, di sicuro, è il negazionismo della Shoah poiché respinge fatti storici inoppugnabili, tali perché ampiamente comprovati con mezzi moderni quali le riprese filmate e la fotografia.
Tutta l’Europa non ha potuto impedire di essere occupata dai nazisti, e ci sono voluti quasi tutti gli eserciti congiunti del mondo per liberarla. Pertanto, chi affermasse, tanto oggi che fra mille anni, che gli ebrei avrebbero potuto impedire la Shoah, farebbe sfoggio della propria stupidità e ignoranza.
La storia mitica di un popolo, invece, è altra cosa, e sono molti i popoli – per esempio gli antichi romani – che vantano origini mitiche. Sulle credenze si può senz’altro discutere. Gli ebrei, in fondo, non mettono in discussione la veridicità della risurrezione del Messia celebrata nella Pasqua cristiana?
Scrivi:
“Ciò su cui invece possiamo e dobbiamo riflettere è il fatto che questo sovrano, ossessionato nel considerare i maschi come l’unica minaccia da cui difendersi, verrà invece sconfitto proprio grazie alle donne: prima le levatrici, poi la sua stessa figlia, ma anche Yocheved, Miriam e Tzipporah. Questo insegnamento ha portato i Maestri del Talmud (Sotah 11) ad affermare: “Per il merito delle donne virtuose i nostri padri sono usciti dall’Egitto”.
Per me quest’affermazione dei Maestri talmudici suona un po’ come una bestemmia.
Non furono le donne ma Dio a liberare il popolo dalla schiavitù. Le donne e gli uomini che Dio utilizzò per realizzare i suoi propositi – annunciati quattro secoli prima ad Abramo – erano soltanto strumenti della sua volontà.
Perché, comunque, l’Onnipotente si avvalse di tante donne? Direi per infliggere un’umiliazione cocente alla più grande potenza dell’epoca. Nella mentalità antica, per un uomo l’essere battuto o ucciso da una donna costituiva un grave disonore. Indicativi, a tal proposito, sono l’episodio di Iael/Giaele la donna che uccise il generale Sisera, e quello di un certo Abimèlech, che non sopportava l’idea che gli toccasse morire durante l’assalto alle mura di una città per mano di una donna che si trovava fra i difensori:
“Ma una donna gettò giù il pezzo superiore di una macina sulla testa di Abimèlech e gli spaccò il cranio. Egli chiamò in fretta il giovane che gli portava le armi e gli disse: «Tira fuori la spada e uccidimi, perché non si dica di me: L’ha ucciso una donna!». Il giovane lo trafisse ed egli morì.” (Giudici 9: 53-54, CEI)