Il vitello d’oro

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Il celebre e tragico episodio del vitello d’oro, narrato nella Parashah di Ki Tissà (Esodo 30:1 – 34:35)  presenta alcuni dettagli che da sempre sorprendono i lettori e stimolano i critici a formulare nuove congetture.

Dopo aver assistito agli eventi più grandiosi di tutta la storia biblica (la liberazione dal Faraone, l’attraversamento del Mar Rosso e la Rivelazione della Torah sul Monte Sinai), il popolo ebraico, giunto al massimo livello spirituale, si corrompe volgendosi all’adorazione di una semplice scultura, proprio come una sposa che tradisce il marito sotto il baldacchino nuziale. Com’è possibile che si sia verificata una caduta così improvvisa e clamorosa?
Particolarmente significativa è la frase pronunciata dagli Israeliti, subito dopo la fabbricazione del vitello d’oro: “O Israele, questi sono i tuoi dèi, che ti hanno fatto uscire dal paese d’Egitto” (Esodo 32:4).
È forse plausibile che il popolo abbia davvero identificato il vitello appena creato come l’autore della liberazione dall’Egitto? Da un punto di vista superficiale, la risposta non può che essere negativa: l’avvenimento risulta assurdo e appare come il frutto di pura follia. Eppure, alla luce del contesto narrativo della Torah e della concezione culturale diffusa nell’antichità pagana, il racconto può aprirsi ad una comprensione più complessa e completa.

Bisogna innanzitutto considerare i motivi che spingono gli Israeliti a richiedere la realizzazione dell’idolo:
“Allora il popolo, vedendo che Moshè tardava a scendere dal monte, si radunò intorno ad Aaron e gli disse: «Facci un dio (elohim) che vada davanti a noi, perché quanto a Moshè, l’uomo che ci ha fatto uscire dal paese d’Egitto, non sappiamo che cosa gli sia accaduto»” (Esodo 32:1).
La prolungata assenza di Moshè fa nascere nel popolo il bisogno di una guida e la necessità di avere un segno tangibile della Presenza della Divinità; un segno che, secondo le disposizioni della Torah, doveva essere rappresentato dal Tabernacolo non ancora costruito.  Gli Israeliti, del resto, avevano già ricevuto la promessa di una guida che li avrebbe condotti alla loro meta:
“Ecco, io mando un malach (emissario, angelo) davanti a te per custodirti sul cammino e per farti entrare nel luogo che ho preparato” (Esodo 23:20).
Ora, senza il loro profeta condottiero, gli Ebrei temono che questa promessa non possa giungere a compimento, e chiedono perciò ad Aaron che venga realizzato qualcosa di concreto che vada davanti a loro.

Come notano molti studiosi, la scelta del vitello come immagine sacra non è casuale. Nel Medio Oriente antico, le divinità erano molto spesso raffigurate sopra ad un animale (belve feroci o animali domestici) che le trasportava. I bovini, in particolare, erano venerati soprattutto in Egitto.
Sembra quindi che il vitello d’oro sia da intendere come un emblema della Presenza di Dio, una sorta di alternativa blasfema all’Arca dell’Alleanza, il cui coperchio d’oro sormontato dalle figure dei cherubini simboleggiava proprio il Trono di Dio (vedi Esodo 35:22; 1Samuele 4:4). la differenza sostanziale tra i cherubini dell’Arca e il vitello d’oro sta nel fatto che i primi, in quanto esseri spirituali ed astratti, rappresentavano il dominio del Creatore del mondo sulla natura (vedi l’articolo “I segreti dell’Arca dell’Alleanza”), mentre il secondo non era altro che l’immagine di una creatura comune, adorata dalle nazioni idolatre dalle quali gli Israeliti sono chiamati a separarsi.

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Abbiamo dunque chiarito che l’intento iniziale della gente del popolo non era quello di abbandonare il loro Dio per seguire una divinità diversa, ma di ottenere piuttosto un sostituto di Moshè e della guida Divina, come si deduce anche dal plurale usato nella frase: “Questi sono i tuoi dèi, che ti hanno fatto uscire dal paese d’Egitto”.
Un bisogno comprensibile, nato da un sentimento di impazienza e di smarrimento, ma che purtroppo conduce gli Ebrei a commettere un grave errore, cioè la realizzazione di un’immagine indegna da associare a Dio, che in seguito degenera ulteriormente portando gli adoratori del vitello a sviarsi del tutto.

Davanti alla richiesta del popolo (“Facci un dio che vada davanti a noi”), Aaron, non essendo in grado di opporsi da solo ai ribelli, reagisce cercando di guadagnare tempo: “Aaron rispose loro: «Staccate gli anelli d’oro che sono agli orecchi delle vostre mogli, dei vostri figli e delle vostre figlie e portatemeli»” (Esodo 32:2). La sorprendente solerzia degli Israeliti nel raccogliere l’oro necessario rende però vano il tentativo di temporeggiare.
In seguito, quando la scultura era già stata forgiata, Aaron si impegna ad indirizzare il culto del popolo esclusivamente verso il Creatore, proclamando: “Domani sarà festa in onore del Signore” (Esodo 32:5). Ma ormai la nascente nazione ebraica si mostra interamente corrotta, come ricorda il Salmo: “Fecero un vitello sul Chorev e adorarono un’immagine di metallo fuso, e mutarono la loro gloria con l’immagine di un bue che mangia l’erba. Dimenticarono Dio, loro Salvatore, che aveva fatto cose grandi in Egitto” (Salmi 106:19-21).

Sarà solo il severo intervento di Moshè a ristabilire l’ordine, trasmettendo in maniera chiara la lezione fondamentale dell’etica religiosa della Torah: la completa delegittimazione di ogni forma di idolatria.
“E [Moshè] prese il vitello che essi avevano fatto, lo bruciò col fuoco e lo ridusse in polvere; e sparse la polvere sull’acqua e la fece bere ai figli d’Israele” (Esodo 32:21).

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