Pesach al tempo di Abramo

Vayera

“Le opere dei padri sono un segno di ciò che avverrà ai loro figli”. Questo principio, noto da sempre alla tradizione rabbinica, è la chiave per comprendere a pieno i vari racconti che la Torah narra sulle vicende dei patriarchi del popolo ebraico. Le imprese dei padri, nella prospettiva biblica, non sono soltanto una fonte di esempi ed insegnamenti per i loro discendenti, ma anche vere e proprie prefigurazioni degli avvenimenti della futura storia ebraica.

Se ciò è vero, allora è ragionevole pensare che l’uscita degli Ebrei dall’Egitto, l’evento fondamentale della Torah, debba aver avuto una sorta di anticipazione profetica nel Libro di Bereshìt (Genesi).

In effetti, leggendo il racconto della vita di Avraham (Abramo),  non risulta difficile rintracciare chiari parallelismi e analogie tra la vicenda del patriarca che arriva in Egitto con sua moglie Sarah (vedi Genesi cap. 12), e la storia successiva degli Israeliti narrata nel Libro dell’Esodo.

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I riferimenti alla futura uscita dall’Egitto divengono più sottili, ma anche più suggestivi, nel brano che narra l’annuncio della nascita di Yitzchak (Isacco) e della distruzione di Sodoma. Qui, attraverso interpretazioni alquanto singolari, gli antichi Maestri hanno individuato persino allusioni alla festività di Pesach.

E disse il Signore: «Tornerò da te fra un anno a questa data e allora Sarah, tua moglie, avrà un figlio» (Genesi 18:10).

Nel commentare questo versetto, Rashi spiega: Era Pesach, e durante Pesach dell’anno successivo nacque Yitzchak”. Tale affermazione è ripresa in realtà dal Talmud, come si legge nel Trattato di Rosh Hashanah (10a): “Rabbi Eliezer ha detto: Yitzchak nacque durante Pesach. Come lo sappiamo? È scritto:  «Al tempo fissato [moed, che significa anche festa] tornerò da te alla stessa data e Sarah avrà un figlio». 

Come si deve intendere tutto ciò? Come può esserci un legame tra questo evento e Pesach, se ai tempi di Abramo tale festività non esisteva?

La questione diviene ancora più paradossale se si considera il continuo della narrazione. Dopo l’annuncio della nascita di Yitzchak, gli angeli si dirigono a Sodoma, dove vengono accolti con grande premura da Lot, nipote di Avraham, che li ospita in casa sua.

“Egli (Lot) preparò per loro un banchetto, fece cuocere le azzime (matzot) e così mangiarono” (Genesi 19:3).

Nulla di strano, almeno in apparenza, finché non ci accostiamo nuovamente all’interpretazione rabbinica tradizionale. In riferimento alle matzot, i pani non lievitati che la Torah comanda di mangiare durante la festa di Pesach (vedi Esodo 12:18), Rashi dichiara infatti: “Era Pesach”, quasi come se dimenticasse che a preparare queste matzot nel brano di Genesi è Lot, un uomo vissuto quattrocento anni prima della liberazione degli Ebrei dall’Egitto. In aggiunta, i Maestri vanno addirittura oltre, e associano il comandamento di mangiare pane azzimo nei giorni di Pesach all’impasto di farina preparato da Sarah per i tre angeli (Midrash Shemot Rabbah 14:2).

Se interpretate alla lettera e in maniera superficiale, le parole degli antichi rabbini appaiono come semplici e stravaganti anacronismi per nulla utili alla comprensione del testo biblico nel suo contesto. Eppure, se ci si cala più in profondità, è possibile scoprire che un legame nascosto tra Pesach e le storie di Avraham e Lot esiste ed è da considerarsi significativo.

Pesach è senza dubbio la festa che segna la nascita del popolo d’Israele in quanto nazione. Essa si celebra in primavera, quando comincia la vita della natura, nel mese più importante, il primo dei mesi (Esodo 12:2). Yitzchak è il primo vero Ebreo, nato da Ebrei e circonciso l’ottavo giorno. La sua venuta al mondo è l’inizio della creazione di ciò che sarà poi Israele. Ma Yitzchak è anche colui che Dio richiede come sacrificio, come l’agnello di Pesach. Entrambi questi sacrifici segnano una rottura con la cultura idolatrica del tempo: la mancata uccisione di Yitzchak sull’altare stravolge la concezione religiosa dei popoli fra i quali i patriarchi vivevano, popoli che non esitavano a offrire alle divinità le vite innocenti dei propri figli; il sacrificio dell’agnello è invece una sfida alla devozione che gli Egiziani professavano nei confronti degli animali da pascolo. 

A richiamare (o meglio ad “anticipare”) le vicende di Pesach è però soprattutto la storia di Lot. Nel racconto della distruzione di Sodoma, oltre alle già citate matzot, troviamo numerosi riferimenti alla “porta” e alla “casa“, che rappresentano la protezione dal mondo esterno e dalla sua corruzione, esattamente come le porte degli Israeliti nella notte della decima piaga (vedi Esodo 12:23). La famiglia di Lot, come gli Israeliti quattrocento anni dopo, viene risparmiata dal flagello imminente, e vive così un’esperienza di “uscita” verso la salvezza e la liberazione.

Uno degli insegnamenti più importanti, comune sia alla vicenda di Lot che a quella degli Israeliti in Egitto, è l’imperativo a non voltarsi indietro, a non rimpiangere il passato e ad andare avanti, sulla strada della Redenzione. Gli angeli dicono infatti a Lot: “Fuggi, per la tua vita. Non guardare indietro e non fermarti dentro la valle” (Genesi 19:17); e un comando simile sarà poi ripetuto più volte agli Israeliti (Esodo 13:17; Levitico 18:3; Deuteronomio 17:16), che davanti alle difficoltà incontrate nel lungo cammino per la terra promessa diranno: “Diamoci un capo e torniamo in Egitto” (Numeri 14:4). Vivere l’esperienza di Pesach significa riuscire a lasciarsi alle spalle l’idolatria, la schiavitù e la corruzione, sia che ci si trovi a Sodoma, o in Egitto, o in qualsiasi luogo e in tutte le epoche.

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