Quando si pensa alla Bibbia ebraica (Tanakh), è facile richiamare alla mente gli eventi più importanti della storia del popolo d’Israele, racconti grandiosi di rivelazioni, miracoli, profezie, insegnamenti, o brani criptici da decifrare.
Eppure, nel Libro di Ruth non si trova nulla di tutto questo. Le vicende dell’anziana Naomi che torna nella sua terra con la fedele nuora moabita, e il successivo riscatto della loro sventurata famiglia, sembrano avere ben poca rilevanza all’interno della storia biblica nel suo complesso.
Si potrebbe dire che la funzione del libro sia quella di celebrare l’origine della dinastia del re David, poiché tale stirpe messianica discende proprio da Ruth. Tuttavia, questa affermazione ci pone davanti ad alcune problematiche.
Innanzitutto, ricordare i legami di sangue che univano la famiglia reale ebraica ai Moabiti, un popolo nemico di Israele e noto per la sua condotta malvagia (Deuteronomio 23:3-4), non doveva apparire esattamente come un atto di celebrazione agli occhi degli Ebrei dell’epoca; inoltre, al di là dell’aspetto genealogico, le vicende del libro di Ruth risultano piuttosto marginali e apparentemente prive di grandi significati spirituali.
Qual è dunque il valore teologico di questo breve testo? Si tratta di una semplice novella campestre, oppure c’è qualcosa di più?
Sintesi della trama
Prima di procedere nello studio, è utile ricapitolare brevemente le vicende narrate nel libro.
All’epoca in cui in Israele governavano i Giudici, una carestia spinge un uomo chiamato Elimelech a emigrare con la moglie Naomi nel paese di Moav. Qui i loro figli sposano donne moabite: Ruth e Orpah. In seguito, sia Elimelech che i suoi figli muoiono, lasciando Naomi sconsolata e senza speranza.
La vedova decide di ritornare in Israele e di separarsi dalle sue nuore. Ruth, tuttavia, rifiuta di abbandonare Naomi e manifesta il suo desiderio di essere unita per sempre al destino del popolo ebraico.
Stabilitasi a Betlemme, Ruth va a spigolare tra i campi, e qui viene notata da Boaz, un parente di Elimelech, che le offre da mangiare e la benedice per la sua fedeltà nei confronti della suocera. Naomi, che spera in un matrimonio tra Ruth e Boaz per cercare di risollevare le sorti della famiglia, esorta la nuora ad abbellirsi e a coricarsi accanto a Boaz, dopo che egli ha mangiato e bevuto.
Quando l’uomo si sveglia e trova Ruth nel suo giaciglio, quest’ultima gli chiede di essere “riscattata” da lui (cioè di essere presa in moglie in virtù della parentela con il marito defunto, secondo l’antica legge del Levirato). Il matrimonio avviene dopo che un altro parente di Elimelech rifiuta il diritto di riscatto, e Ruth genera un figlio di nome Oved, che diventerà il nonno del re David.
Le radici profonde della storia
Il libro di Ruth si ricollega a quello della Genesi, rappresentando la chiusura di un cerchio tracciato dalla Torah. Dobbiamo dunque tornare indietro nel tempo per scoprire il legame che unisce questi due testi così diversi e comprendere il messaggio che da esso si può trarre.
Ruth, in quanto moabita, è una discendente di Lot, il nipote di Avrahàm (Abramo), colui che si stabilì a Sodoma dopo essersi separato dallo zio (Genesi 13:12). La Torah ci pone dinanzi a due modelli contrapposti: da un lato abbiamo Avraham, che conduce con prudenza i suoi rapporti con la società corrotta di Canaan, riducendo al minimo i contatti con i suoi vicini e rifiutando di imparentarsi con loro (Genesi 24:3); dall’altro abbiamo invece Lot, che decide di abitare in una città popolata da uomini malvagi (13:13) e si ritrova ad affrontare i rischi che una scelta simile comporta.
Sodoma è l’esempio di una società ricca e priva di compassione, un luogo che non offre alcun aiuto al povero e all’afflitto (vedi Ezechiele 16:49-50). L’accoglienza brutale che gli uomini della città riservano ai due misteriosi emissari inviati da Dio è la perfetta esemplificazione di questa condotta malvagia dilagante.
Lot, dimostrando di essere virtuoso e benevolo quanto suo zio Avraham, riceve gli ospiti in casa sua, offre loro del cibo e li protegge dalla folla inferocita che si raduna per assalire i forestieri (Genesi 19).
Tuttavia, il testo ci lascia comprendere che, pur non avendo assimilato i costumi corrotti di Sodoma, Lot appare comunque influenzato dall’ambiente in cui ha deciso di vivere, e il suo atto di bontà si trasforma perciò in una catastrofe morale. Nel tentativo di placare la folla, egli propone infatti una soluzione che non si addice minimamente ad un uomo giusto:
Lot uscì verso di loro davanti alla porta di casa, chiuse la porta dietro di sé e disse: «Fratelli miei, non comportatevi in modo così malvagio! Sentite, io ho due figlie che non hanno conosciuto uomo; ecco, lasciate che ve le porti fuori e fate loro quel che vi pare, ma non fate nulla a questi uomini, perché essi sono entrati sotto la protezione del mio tetto» (Genesi 19:6-8).
Sorprendentemente, la benevolenza che Lot riserva agli ospiti stranieri viene dunque da egli stesso negata alle proprie figlie.
Lot si mostra inoltre restio a recidere i suoi legami con Sodoma, come si evince dal suo tentativo di tergiversare e dalla sua richiesta all’angelo di permettergli di rifugiarsi nella vicina località di Tzoar, invece di correre verso i monti come gli era stato comandato (19:18-20).
Sua moglie, seguendo un atteggiamento analogo, si volta indietro durante la fuga, compiendo un gesto che rappresenta l’incapacità di abbandonare un passato che deve essere lasciato alle spalle (19:26). Non è un caso che il testo ci informi che la salvezza di Lot sia avvenuta grazie all’intercessione di Avraham, e non per i meriti del nipote (19:29).
La conclusione del dramma avviene con un altro atto perverso. Le giovani figlie di Lot, forse credendo erroneamente che la pioggia di fuoco su Sodoma avesse distrutto l’intera razza umana – come si può dedurre dalle parole della sorella maggiore (19:31) -, decidono di far ubriacare il padre e di avere rapporti sessuali con lui per concepire dei figli e propagare la loro discendenza.
Da questo incesto nasceranno due figli: Moav e Ammon; e proprio da essi avranno origine i due popoli condannati severamente nella Torah per il loro rifiuto di accogliere con acqua e cibo gli Israeliti usciti dall’Egitto (Deut. 23:3-4), un peccato che ricorda la mancanza di spirito di accoglienza che la Genesi attribuisce ai Sodomiti. Lot, attraverso la sua discendenza, diviene quindi, in una certa misura, l’erede spirituale di Sodoma.
Il tempo dei Giudici
Il libro di Ruth si apre con un’indicazione cronologica la cui rilevanza non va sottovalutata: “Al tempo in cui i Giudici giudicavano…” (Ruth 1:1). La vicenda si colloca quindi al tempo degli Shofetim (Giudici), un periodo di progressiva decadenza in cui il popolo d’Israele subì l’influenza degli usi immorali e idolatrici dei Cananei fino ad allontanarsi del tutto dalla via della giustizia.
L’immagine degli Israeliti che ci viene presentata nel libro dei Giudici è quella di un popolo che assomiglia sempre di più ai nemici Moabiti, come si comprende, ad esempio, dal rifiuto degli abitanti di Sukkot e Penuel di fornire del pane alle truppe affamate dell’esercito di Ghideon (Giudici 8:3-8).
Ma il degrado morale che ha colpito Israele arriva al livello massimo nell’orrido racconto della concubina del levita di Efraim (Giudici 19), un brano in cui gli Ebrei della città di Givah, dopo essersi rifiutati di ospitare una coppia di viandanti, si comportano esattamente come gli abitanti di Sodoma, mostrando lo stesso grado di depravazione e brutalità. In maniera fin troppo eloquente, il testo ci dice dunque che Israele, all’epoca dei Giudici, è divenuto ormai indistinguibile da Sodoma e Gomorra.
Ruth: la cura che arriva dall’esterno
“Il libro di Ruth” – ha scritto la studiosa Yael Ziegler – “dimostra che esiste una soluzione alla condizione disastrosa descritta nel libro dei Giudici. Esso fornisce al popolo d’Israele una nuova direzione: la generosità invece dell’avarizia, la moralità invece dell’indecenza. Ritengo che Ruth sia colei che offre la sua guida per ricondurre la nazione ebraica dalla via di Lot alla via di Avraham“.
La scelta di Ruth di lasciarsi alle spalle il proprio paese per seguire Naomi a Betlemme, espressa con le solenni parole “Il tuo popolo sarà il mio popolo e il tuo Dio sarà il mio Dio” (Ruth 1:16), si configura come un tikkun (cioè una “riparazione”, una rettifica) della scelta fatale del suo antenato Lot di separarsi da Avraham per vivere a Sodoma.
Ciò emerge anche dalle parole di Boaz, che loda la donna moabita dicendo: “Mi è stato riferito tutto ciò che hai fatto per tua suocera dopo la morte di tuo marito, e come hai lasciato tuo padre, tua madre e il tuo paese natìo, per venire a vivere con un popolo che prima non conoscevi” (2:11).
Le espressioni qui utilizzate ricordano il comando divino rivolto ad Abramo in Genesi 12:1 (“Và via dal tuo paese, dal tuo luogo natìo e dalla casa di tuo padre”), come a voler suggerire che, tra il modello del grande patriarca e quello di suo nipote, Ruth ha scelto decisamente il primo.
In un momento, tuttavia, l’eredità della stirpe di Lot sembra essere sul punto di riemergere. Quando infatti Naomi spinge Ruth a indossare le vesti migliori e a coricarsi ai piedi di Boaz mentre egli ha il “cuore allegro” per il vino (Ruth 3:7), si ha l’impressione che la torbida vicenda delle figlie di Lot che abusano del padre ubriaco stia per avere una sorta di replica. Lo scopo dei personaggi femminili, non a caso, è anche qui lo stesso: propagare la propria discendenza per il bene di una stirpe che sembra sul punto di estinguersi.
Ma la virtuosa moabita non segue l’esempio delle sue antenate, e non ricorre all’inganno e alla seduzione. Quando Boaz si sveglia e la trova distesa accanto ai suoi piedi, Ruth si presenta con umiltà e onestà, senza stratagemmi: “Io sono Ruth, la tua serva. Stendi il tuo mantello sulla tua serva, perché tu hai il diritto di riscatto” (3:9).
E così, mentre il libro dei Giudici ripete con insistenza che “In quel tempo non c’era alcun re in Israele, e ognuno faceva ciò che era giusto ai propri occhi”, in contrasto, il libro di Ruth si chiude con il nome di David, il re chiamato a ristabilire quella giustizia che mancava al tempo dei Giudici.
Nel suo atto di redimere il passato della propria stirpe, Ruth offre anche e soprattutto una soluzione per il suo presente, diventando un modello da imitare per il popolo d’Israele. Una nazione che rischia ormai di diventare come Sodoma e come i Moabiti, trova il suo riscatto grazie a una nuova luce giunta, paradossalmente, proprio da Moav: un insegnamento che sfugge a qualsiasi pregiudizio e forzato schematismo.
Per approfondire:
- The Roots of Megillat Ruth – articolo della Dr. Yael Ziegler
- Shavuot: The Scandalous backstory of Ruth and Boaz – lezione video di Rabbi David Fohrman
Sostieni che la scelta di Ruth, discendente di Lot, di seguire Noemi in Israele si configura come una rettifica della scelta di Lot di separarsi da Abramo per tuffarsi nella perdizione di Sodoma. Trovo ciò molto forzato. In primo luogo perché Lot seguì spontaneamente suo zio nella sua avventura verso Canaan a differenza degli altri parenti che preferirono restare in Mesopotamia. Giunti a destinazione, fu Abramo che volle allontanare il nipote da sé per motivi pratici giacché i loro mandriani litigavano fra loro essendoci poco pascolo per tutti gli animali di entrambi i clan:
“Abram disse a Lot: «Non vi sia discordia tra me e te, tra i miei mandriani e i tuoi, perché noi siamo fratelli. 9 Non sta forse davanti a te tutto il paese? Sepàrati da me. Se tu vai a sinistra, io andrò a destra; se tu vai a destra, io andrò a sinistra».” (Genesi 13:8, CEI)
Lot, quindi, non scelse un’altra strada (quella della perdizione secondo la tua tesi) ma fu obbligato da suo zio a separarsi da lui; dovette cercare e vide che c’era una terra fertile più a oriente:
“Allora Lot alzò gli occhi e vide che tutta la valle del Giordano era un luogo irrigato da ogni parte – prima che il Signore distruggesse Sòdoma e Gomorra -; era come il giardino del Signore, come il paese d’Egitto, fino ai pressi di Zoar. Lot scelse per sé tutta la valle del Giordano e trasportò le tende verso oriente. Così si separarono l’uno dall’altro.” (Ibidem, vv. 10-11).
Abramo e suo nipote Lot erano capiclan ricchissimi, proprietari d’immense mandrie e di centinaia, se non migliaia di servi. Abramo aveva addirittura 318 schiavi nati in casa con la mansione di uomini d’arme. Lot si accampò nei pressi di Sodoma, ma non poteva sapere che la popolazione di quel luogo era malvagia poiché lui veniva da molto lontano. Ammaliato dall’opulenza di quella città, fece ciò che da millenni gli uomini tendono naturalmente a fare: lasciare le tende o le capanne rurali per le comodità che solo nelle città si possono trovare. Del resto Dio aveva condotto il suo popolo dall’Egitto in una terra dove intendeva farlo risiedere nelle splendide città strappate ai cananei, e lasciò che il suo santuario mobile fosse sostituito da un tempio maestoso e che i re d’Israele vivessero in palazzi grandiosi. Per la Bibbia, quindi, urbanizzazione e ricchezza non sono sinonimi di corruzione.
Il desiderio di Lot di vivere in una città invece cha da nomade non può pertanto essere di per sé sintomo di una sua natura peccaminosa. Chiaramente doveva aver convertito i suoi immensi averi mobili in beni immobili e sostituito i suoi mandriani con servitù per accudire la sua dimora (di questa servitù non vi è stranamente alcun accenno nel racconto, ma questa non è l’unica incongruenza che contiene).
La gente di Sodoma era malvagia, ma Lot era ricchissimo, e la ricchezza è potere. Infatti, non fu aggredito al suo arrivo, trovò dei fidanzati per le sue figlie, e perfino la sera lasciava le sue donne a casa mentre lui s’intratteneva alla porta della città, il luogo per eccellenza di riunione dei cittadini.
Fu proprio una sera che vide i due viandanti e insistette per ospitarli.
Dopo la tentata aggressione dei sodomiti, quelli gli dicono di abbandonare tutto ciò che possiede perché stanno per distruggere la città; ma Lot non può traslocare con calma: gli occorrerebbero centinaia di cammelli per portare via tutti i suoi preziosi; si pensi che anni dopo Abramo avrebbe inviato un messo in cerca di una sposa per suo figlio con un carico di doni trasportati su dieci cammelli. Ed erano solamente i doni per comprare una moglie! Aggiungiamo che Lot, cresciuto in una famiglia politeista, non aveva un’idea precisa dell’unicità di Dio che, oltre a tutto, non era a lui che si era rivelato. Se proviamo a metterci nei suoi panni, capiremmo che aveva buoni motivi per sospettare che quegli uomini fossero dei millantatori. A quei tempi maghi e incantatori abbondavano: quelli egiziani avrebbero addirittura saputo replicare di fronte a Mosè e Aronne i primi tre prodigi di Dio tuttavia non seppero uguagliare quelli successivi. I due ospiti avevano disperso la folla abbagliandola ma ciò non provava che avessero addirittura il potere di incenerire le città di un’intera regione.
L’idea che non dovesse prendere sul serio quei due sconosciuti fu rafforzata in Lot dopo che si fu recato dai suoi generi, le cui risate devono avergli dato la percezione poco lusinghiera di se stesso di essere un credulone. Tornato a casa era alquanto confuso; comprensibilmente indugiò quando quegli uomini gli fecero premura dicendogli di prendere, cosa?… Borse, indumenti, denaro, effetti personali? (Oggi diremmo “fare le valigie”). Non proprio: poteva prendere null’altro che sua moglie e le figlie e scappare via a rotta di collo. Poiché Lot esitava, gli angeli afferrarono per mano lui, la moglie e le figlie e li condussero fuori la città. Da uomo sedentario e ricco qual era, il patriarca ebbe d’improvviso la prospettiva di dover vivere da randagio sulle montagne. Nulla di strano, quindi, se chiese di potersi mettere in salvo almeno dentro un altro centro abitato. Chiunque, ieri come oggi, farebbe questa scelta.
Poi, venne il fuoco celeste su tutta la valle e sua moglie si voltò: ma davvero quella donna rimpiangeva l’empietà di Sodoma? O, più realisticamente, il suo rimpianto non poteva essere per gli agi improvvisamente perduti di una casa dove, fino a qualche ora prima, era stata regina tra profumi, sete e tappeti? Adesso lei e la sua famiglia non possedevano più nulla a parte i vestiti che avevano indosso. Con ciò dovrebbe apparire strano che si fosse voltata a guardare?
Se il narratore avesse dato un’immagine di Lot e signora che abboccano seduta stante assecondando degli sconosciuti e si mostrano del tutto indifferenti all’idea che da ricchi sfondati dovranno ritrovarsi all’istante privi di tutto, avrebbe descritto dei personaggi irreali, di cartapesta. Le titubanze e le paure di Lot e il voltarsi indietro di sua moglie costituiscono fattori narrativi logici che rendono il racconto plausibile almeno riguardo alle ovvie reazioni psicologiche dei personaggi.
Dici che Lot, l’empio Lot dal tuo punto di vista, fu salvato unicamente per i meriti di Abramo e non per i propri. Direi invece che per quei meriti Lot fu evacuato con la sua famiglia, sebbene il patto stipulato fra Abramo e Dio non prevedesse l’evacuazione di qualche raro uomo meritevole. Ricordiamo che Dio non avrebbe distrutto la città affinché non morissero i giusti insieme ai malvagi ma a condizione che il numero dei giusti fosse di almeno dieci. Se, quindi, di uomini giusti ce ne fossero stati nove, o cinque, o appena uno, essi sarebbero morti come tutti gli altri abitanti, e questa sarebbe dovuta essere la sorte di Lot, il solo uomo retto (secondo i parametri etici dell’autore del racconto) trovato in tutta la valle delle cinque città.
Solo in seguito Lot fece, come tutti i personaggi biblici, qualcosa di sbagliato e ricevette l’adeguata punizione dal Cielo: rifiutò una discendenza onorata chiudendosi con le figlie sui monti e Dio gli diede ugualmente una stirpe, però macchiata dall’incesto.
Scrivi: “Per la Bibbia, quindi, urbanizzazione e ricchezza non sono sinonimi di corruzione”.
Da questa frase deduco che non stiamo leggendo lo stesso libro. La Genesi che leggo io, infatti, ha tra i suoi fili conduttori principali la polemica contro l’urbanizzazione e la civiltà sedentaria (insieme alla polemica contro l’idolatrie e contro il primato del primogenito).
Nella Genesi, il primo a fondare una città è anche il primo omicida, l’agricoltore Kayin, contrapposto al pastore Hevel. Dalla sua stirpe di industriosi inventori sorge poi Lemekh, che supera di gran lunga la violenza del suo avo. La polemica contro la città e la tecnologia raggiunge il suo apice con la storia di Bavel, che qualcuno ha definito “viziosa costruzione umana”. In contrasto a un’umanità che vuole stanziarsi per costruire una città e “farsi un nome”, il testo ci presenta Avraham che invece si mette in cammino, estirpa le sue radici, costruisce altari al posto di città, e non lo fa per “farsi un nome” ma per “chiamare nel Nome di HaShem”.
La civiltà urbana, per la Genesi, è il luogo del peccato: Sodoma, l’Egitto e i Filistei rappresentano esempi emblematici. Lot cede a tutto questo, non osa rispondere a suo zio: “Non vado da nessuna parte, io vado solo dove vuole il tuo Dio e ti seguirò per sempre”. Questa risposta la darà invece la sua discendente Ruth a Naomi, rettificando il passato. Lot, dal canto suo, cede al fascino della civiltà urbana che la Bibbia condanna: ciò di per sé non è un peccato, ma è una scelta che espone a un grave rischio morale.
È vero, nella Torah Dio vuole per il suo popolo una patria stabile, la terra promessa, non una vita da pastori nomadi. Secondo la Torah, la soluzione più completa e auspicabile al problema della civiltà urbana non è il rifiuto del progresso tecnologico in stile Amish: piuttosto, la Torah vuole formare una nazione sedentaria e urbanizzata che abbia però il cuore di un popolo nomade. Infatti, l’ingresso nella terra promessa può avvenire solo dopo le dure esperienze formative della schiavitù in Egitto e delle peregrinazioni nel deserto.
Inoltre, una volta l’anno il popolo deve bandire dai suoi confini il pane lievitato (simbolo della civiltà sedentaria e in particolare dell’Egitto) per tornare ad alimentarsi del cibo dei nomadi. Ed esattamente nel punto diametralmente opposto del calendario, gli Israeliti devono lasciare le proprie case di mattoni per tornare ad abitare in capanne.
Ogni sei giorni devono poi astenersi da ogni opera creativa; ogni sei anni devono lasciare i campi ai poveri e agli stranieri; ogni quarantanove anni scade la proprietà privata e si torna alla divisione egualitaria della terra. Ogni anno ogni contadino dovrà presentare le primizie al Santuario pronunciando la frase “Mio padre era un arameo errante”. La monarchia, se proprio non se ne può fare a meno (è una scelta libera del popolo), dovrà essere retta idealmente da un re che non accumuli ricchezze, che non abbia molti cavalli (altro simbolo dell’Egitto), che non cerchi alleanze a destra e a manca contraendo molti matrimoni e che non elevi il suo cuore al di sopra di quello dei suoi fratelli.
E se il popolo non riesce a conformarsi a tutto ciò, ma persevera nei suoi errori, la soluzione stabilita da Dio è del tutto coerente: si va in esilio, si ritorna alla vita senza patria, almeno finché non si è degni di invertire nuovamente la rotta.
Io credo invece che leggiamo lo stesso libro ma traboccante di contraddizioni; ne cito una fra mille: nel Pentateuco Dio rivela che punisce le colpe dei padri nei figli; poi, agli ispirati profeti, fa annunciare che i figli non pagano per le colpe dei padri.
Riguardo alla contrapposizione fra la vita nomade e quella cittadina, vi è un’indubbia idiosincrasia per le città, viste come luoghi di perdizione, ma vi è pure esaltazione sia delle ricchezze materiali (che Dio elargiva senza risparmio a chi gli era fedele) sia dell’urbanizzazione. In quest’ultimo caso, Dio non diede al suo popolo una terra simile all’America settentrionale, dove le immense praterie, i deserti, le foreste e le montagne sono stati colonizzati e urbanizzati a forza di braccia dai pionieri europei. Agli israeliti le cose sono andate assai diversamente: Dio donò loro una terra dove egli stesso, dai tempi di Noè quando stabilì i confini delle nazioni, vi aveva insediato ben sette nazioni perfino più popolose d’Israele (Deuteronomio 32:8). Il motivo? Perché il suo popolo vi trovasse già pronto uno stupendo habitat civile:
“Quando il Signore tuo Dio ti avrà fatto entrare nel paese che ai tuoi padri Abramo, Isacco e Giacobbe aveva giurato di darti; quando ti avrà condotto alle città grandi e belle che tu non hai edificate, alle case piene di ogni bene che tu non hai riempite, alle cisterne scavate ma non da te, alle vigne e agli oliveti che tu non hai piantati, quando avrai mangiato e ti sarai saziato, guardati dal dimenticare il Signore, che ti ha fatto uscire dal paese d’Egitto, dalla condizione servile.” — Dt 6:10-12, CEI.
E ancora:
“Vi diedi una terra, che voi non avevate lavorata, e abitate in città, che voi non avete costruite, e mangiate i frutti delle vigne e degli oliveti, che non avete piantati.” — Giosuè 24:13, CEI.
La festa delle capanne, l’uso di pane non lievitato ecc, sono commemorazioni che non hanno lo scopo di osannare la vita nomade ma, al contrario, servono per ricordare agli ebrei che loro devono assolutamente tutto a Dio. Se non fosse per lui essi sarebbero ancora aramei erranti come il loro capostipite Abramo, e sarebbero schiavi. In una delle tante metafore antropomorfiche usate dai profeti, Ezechiele paragona il popolo eletto a una bambina raccattata dalla sporcizia e Dio all’uomo che la raccolse, l’allevò nella bambagia, la vestì di seta, ricami e d’oro e la sposò ma poi fu da lei tradito:
“Tu sei, per origine e nascita, del paese dei Cananei; tuo padre era Amorreo e tua madre Hittita. Alla tua nascita, quando fosti partorita, non ti fu tagliato l’ombelico e non fosti lavata con l’acqua per purificarti; non ti fecero le frizioni di sale, né fosti avvolta in fasce. Occhio pietoso non si volse su di te per farti una sola di queste cose e usarti compassione, ma come oggetto ripugnante fosti gettata via in piena campagna, il giorno della tua nascita.
Passai vicino a te e ti vidi mentre ti dibattevi nel sangue e ti dissi: Vivi nel tuo sangue e cresci come l’erba del campo. Crescesti e ti facesti grande e giungesti al fiore della giovinezza: il tuo petto divenne fiorente ed eri giunta ormai alla pubertà; ma eri nuda e scoperta. Passai vicino a te e ti vidi; ecco, la tua età era l’età dell’amore; io stesi il lembo del mio mantello su di te e coprii la tua nudità; giurai alleanza con te, dice il Signore Dio, e divenisti mia. Ti lavai con acqua, ti ripulii del sangue e ti unsi con olio; ti vestii di ricami, ti calzai di pelle di tasso, ti cinsi il capo di bisso e ti ricoprii di seta; ti adornai di gioielli: ti misi braccialetti ai polsi e una collana al collo: misi al tuo naso un anello, orecchini agli orecchi e una splendida corona sul tuo capo. Così fosti adorna d’oro e d’argento; le tue vesti eran di bisso, di seta e ricami; fior di farina e miele e olio furono il tuo cibo; diventasti sempre più bella e giungesti fino ad esser regina. La tua fama si diffuse fra le genti per la tua bellezza, che era perfetta, per la gloria che io avevo posta in te, parola del Signore Dio.” (Ezechiele 16:3-14, CEI).
Fuor di metafora, Dio trasse il suo popolo dalla vita rustica dei nomadi e lo fece crescere nei lussi delle civiltà stanziali delle popolazioni sterminate per l’occasione. Il popolo non doveva mai dimenticare le proprie umili origini, perché queste sarebbero immutate se non fosse stato per il suo amore.
Pertanto non condivido ciò che scrivi: “La Torah vuole formare una nazione sedentaria e urbanizzata che abbia però il cuore di un popolo nomade. Infatti, l’ingresso nella terra promessa può avvenire solo dopo le dure esperienze formative della schiavitù in Egitto e delle peregrinazioni nel deserto.”
L’ingresso nella terra promessa avvenne dopo peregrinazioni nel deserto che non erano programmate da Dio ma dovute al castigo meritato dal suo popolo che non credeva di poter conquistare quelle regioni fortificate. In quanto alla schiavitù in Egitto, questo sì che era nei propositi di Dio, il cui fine era di rinfacciare al suo popolo, fin dal primo comandamento, di averlo liberato. Va rilevato che Dio non fece moltiplicare i discendenti di Abramo in una terra libera, come è avvenuto in America per i Pilgrim Fathers della Mayflower, ma in Egitto dove, da settanta che erano quali ospiti graditi, gli israeliti divennero in poche generazioni circa tre milioni al tempo dell’esodo. Comprensibilmente gli egiziani furono terrorizzati da quella proliferazione (prodigiosa, ovviamente) e, per non rischiare di divenire schiavi dei loro ospiti, li precedettero schiavizzandoli. Poi Dio flagellò duramente l’Egitto perché il suo popolo non avesse dubbi che la sua liberazione dipendeva unicamente dall’onnipotenza celeste.
Lot non poteva dire ad Abramo ciò che Ruth avrebbe poi detto a Noemi essendoci un’enorme differenza fra le due situazioni: Ruth non aveva altro da condurre con sé che le proprie gambe, mentre Lot aveva da trascinarsi dietro migliaia di persone e di animali. Se avesse insistito a restare con Abramo, che invece gli diceva “Se io vado a destra tu vai a sinistra affinché non vi sia discordia fra di noi” sarebbe accaduto che i loro mandriani dagli insulti che si scambiavano sarebbero passati alle coltellate. Lot fu costretto da Abramo e dalle circostanze ad allontanarsi, ma in precedenza aveva voluto seguire suo zio invece di restare con gli altri parenti in Mesopotamia. Trovo pertanto che sia fuori luogo parlare di redenzione; ci si redime dai peccati, e Lot in quella circostanza non ne commise.
In quanto ai lussi di Sodoma, Lot non aveva esperienza sulle città, quella era la prima che vedeva e ne fu affascinato. La sua incommensurabile ricchezza custodita forse da centinaia di uomini armati gli consentì di non essere vittima della malvagità locale, finché non si espose per proteggere i due viandanti. In quanto al modo in cui pensò di proteggerli, discutibile a confronto con la sensibilità dell’uomo di oggi, rientra però nelle logiche bibliche; infine, la sua riluttanza a fuggire di corsa, tengo a ripetere, era comprensibilmente dovuta alla prospettiva improvvisa di perdere tutti i suoi immensi averi. Ciò sarebbe avvenuto in ogni caso, anche se i due viandanti fossero stati in realtà dei burloni, poiché abbandonando la sua dimora questa sarebbe stata saccheggiata dai sodomiti imbestialiti contro di lui.
Dici bene: le celebrazioni di Sukkot e Pesach hanno lo scopo di ricordare agli Israeliti che essi devono tutto a Dio. Ed è questo il nucleo del discorso: la Torah condanna la civiltà sedentaria, l’urbanizzazione e lo sviluppo tecnologico in quanto esso si pone spesso in contrapposizone a Dio per esaltare l’uomo. “Naaseh lanu shem” = Facciamoci un nome, dicono i costruttori di Bavel. È questo l’approccio che la Torah condanna, e a cui vuole contrapporre un modello di nazione che parte con origini umili e nomadi, una nazione i cui primi capi (i patriarchi, Moshè, Shaul, David) erano pastori, per poi diventare un popolo sedentario insediato in una terra stabile, che però non si vanti della propria ricchezza. Quest’ultima è una benedizione solo finché non diviene motivo di corruzione ed esaltazione egoistica (vedi, fra tutti, il caso di Chizkiahu).
Parli dell’habitat della terra promessa, omettendo un dettaglio fondamentale: la terra di Kenaan è contrapposta all’Egitto e a Sodoma in quanto “beve dell’acqua del cielo”, non ha una fonte idrica stabile e costante che dia all’uomo la pericolosa illusione dell’indipendenza. Questo è un tema portante che ricorre in tutte le Scritture ebraiche e non c’è alcuna contraddizione.
Per quanto riguarda Lot, dal testo ebraico sono evidenti i parallelismi con la storia di Ruth, e non ha senso interpretare la sua vicenda introducento elementi di pragmatismo omessi dal testo, quasi fosse una storia reale e realistica. La Torah ci presenta chiaramente dei modelli archetipici a confronto, il nomade Avraham che coglie la vocazione divina e Lot che invece sogna l’Egitto in cui è appena stato e lo proietta su Sodoma. Consiglio a questo proposito il commento di Robert Alter, studioso laico, che spiega molto bene questa contrapposizione.
Ruth che “redimerebbe” il passato, mi sembra piuttosto che redima gli israeliti della sua epoca, ostinatamente infedeli a Dio nonostante i continui castighi. Lei, che proviene da una cultura pagana, dà lezioni di ammirevole devozione verso sua suocera e per il defunto marito.
Questo personaggio, duttile, fedele e ubbidiente, contrasta con molte altre figure femminili bibliche che forse le donne di oggi apprezzerebbero maggiormente per le loro doti d’intraprendenza e intelligenza che spesso fanno da contraltare all’ottusità dei loro uomini: esempi sono le figlie di Lot e il loro padre, Rebecca e Isacco, Tamar e Giuda, Abigail e Nabal.
Un personaggio davvero straordinario potrebbe essere Betsabea: questa donna, solo in apparenza passiva, seppe manipolare gli uomini – ma dando a questi l’illusione che fossero loro a manipolare lei – per giungere alla vetta di favorita del re e di regina madre. Cominciò a mostrarsi nuda davanti a tutto il palazzo reale facendosi il bagno all’aperto così che Davide la volesse e la mettesse incinta. Inoltre, doveva ben conoscere il carattere ferreo di suo marito Uriah e forse pure un suo scarso interesse per il sesso tanto da prevedere che lui non avrebbe approfittato della licenza dal fronte per giacere con lei. In seguito, dopo la morte del “figlio della colpa” avuto da Davide, ottenne che lui la elevasse al rango di “first lady”, al punto da strappargli il giuramento che avrebbe designato successore al trono suo figlio Salomone anziché uno dei tanti fratellastri maggiori.
Era una promessa verbale, ma lei la confidò in segreto al profeta Natan e, quando Davide fu moribondo, lei e quel profeta agirono in maniera che Davide ricordasse il suo giuramento e annullasse i preparativi alla successione dell’erede diretto, Adonia. Divenuto re suo figlio Salomone, il trono era però ancora instabile. Allora si finse molto sprovveduta accogliendo la richiesta avanzatole da Adonia di convincere il re, nella sua posizione di madre, perché lui sposasse una concubina del defunto monarca: cosa che gli avrebbe consentito – con l’appoggio dei suoi sostenitori – un colpo di stato per conquistare il trono. Ma ingenuo era stato Adonia credendo di manovrare Betsabea, poiché l’ambasciata che costei fece – apparentemente a vantaggio di lui – gli valse invece il patibolo.
In questa maniera, spazzato via il partito oppositore, Betsabea coronò il suo sogno di essere l’incontrastata regina madre.