“Lascia andare il mio popolo”: la frase mai detta

“Il viaggio degli Israeliti dalla schiavitù alla terra promessa è uno dei più grandi esempi di emancipazione della storia dell’umanità, che ha avuto il suo eco nelle rivendicazioni dei diritti civili in tutto il mondo”. Con queste parole, pronunciate lo scorso anno in occasione della festa di Pesach, l’ex presidente americano Barack Obama ha ricordato la vicenda biblica dell’Esodo e la sua indiscutibile importanza storica. La celebre frase “Lascia andare il mio popolo“, che richiama alla mente l’immagine di un Mosè coraggioso e sfrontato al cospetto del temibile Faraone, ha ispirato e continua a ispirare generazioni di individui oppressi e di comunità in lotta per l’indipendenza.

I fatti, tuttavia, secondo il racconto biblico, non si svolsero proprio come molti ritengono. Le rappresentazioni cinematografiche e le interpretazioni semplici e riduttive del testo biblico hanno infatti diffuso nella mentalità comune una versione dell’Esodo un po’ diversa da quella presentata nella Torah.

In Esodo 3:18, nel contesto della rivelazione divina presso il roveto ardente, Dio comunica a Mosè le seguenti istruzioni:
Tu e gli anziani d’Israele andrete dal re d’Egitto e gli direte: «HaShem, il Dio degli Ebrei ci è venuto incontro. Ed ora lasciaci andare per un cammino di tre giorni nel deserto, perché possiamo offrire sacrifici ad HaShem, il nostro Dio».

Da questo verso si comprende che la richiesta presentata dinanzi al Faraone non riguardava la liberazione del popolo ebraico, ma soltanto un permesso temporaneo di lasciare il paese per celebrare dei riti religiosi nel deserto. Ciò è confermato dal racconto del discorso che Mosè e Aronne pronunciarono effettivamente nel loro primo incontro con il sovrano:

Ed essi dissero: «Il Dio degli Ebrei ci è venuto incontro; ora lasciaci andare per un cammino di tre giorni nel deserto perché possiamo offrire sacrifici ad HaShem, che è il nostro Dio, affinché egli non ci colpisca con la peste o con la spada» (5:3).

E la stessa richiesta ricompare ancora nel corso delle negoziazioni successive tra Mosè e il Faraone:
«Andremo nel deserto per un cammino di tre giorni e sacrificheremo ad HaShem, nostro Dio, come Egli ci ordinerà» (8:27; vedi anche 10:8-11; 10:24-26).

È dunque lecito domandarsi in quale momento i termini della richiesta siano cambiati, cioè a che punto della storia Mosè abbia davvero esortato il re d’Egitto a liberare gli Israeliti, piuttosto che a concedere loro una breve “vacanza” di soli tre giorni.
La risposta, alla luce del testo dell’Esodo, apparirà a molti sorprendente: una simile richiesta di liberazione non fu mai avanzata. Persino dopo la piaga dei primogeniti, quando il Faraone, ormai esasperato, lasciò partire gli Ebrei, egli diede loro unicamente il permesso di andare a “servire Dio”, cioè di celebrare una festa religiosa nel deserto, proprio come previsto dai negoziati:

Allora [il Farone] chiamò Mosè ed Aronne di notte e disse: «Alzatevi e partite di mezzo al mio popolo, voi e i figli d’Israele, e andate a servire HaShem, come avete detto. Prendete le vostre greggi e i vostri armenti, come avete detto, e andate; e benedite anche me!» (12:31).

Quando gli Israeliti, seguendo un comando esplicito di Dio, non avanzarono verso il deserto, ma si accamparono invece “di fronte a Pi-Hachirot, presso il mare” (14:2), gli ambasciatori egizi riferirono al Faraone che “Il popolo era fuggito” (14:5), cioè che gli Ebrei si erano ribellati in quanto non avevano seguito l’itinerario previsto. Ciò indusse il sovrano a marciare verso il Mare delle Canne per inseguire gli Israeliti, cadendo così nella trappola divina che tutti conoscono.

Ma per quale motivo l’uscita dall’Egitto dovette avvenire in questo modo, attraverso un inganno ai danni degli Egizi? Nel corso dei secoli, i vari commentatori rabbinici si sono interrogati su tale complessa questione, fornendo risposte differenti. Prenderemo ora in considerazione quattro approcci che, per quando diversi, non si escludono a vicenda, ma possono invece integrarsi reciprocamente per una comprensione più completa della storia:

  • Secondo Rashbam, fuorviare un nemico utilizzando omissioni o persino menzogne è lecito in contesti come quello della vicenda dell’Esodo, o in casi come quello del profeta Samuele, a cui Dio comandò di seguire una strategia analoga per evitare di essere ucciso da Saul (1 Samuele 16:1-6). Rav Elchanan Samet spiega a questo proposito che i negoziati tra Mosè e il Faraone vadano interpretati come parte di una vera e propria strategia militare tra due parti in guerra, con la divisione delle acque e l’annegamento dell’esercito egizio a rappresentare l’imboscata finale attraverso cui si compie la vendetta contro gli oppressori.
  • Una pretesa categorica e utopica come quella di liberare migliaia di schiavi avrebbe suscitato le ire del Faraone oltre ogni limite, rendendo il negoziato inammissibile a priori. Per questo motivo, secondo Ralbag, Dio comandò a Mosè di presentare al re una richiesta più moderata. Cassuto ritiene che tale richiesta avesse lo scopo di mostrare la forte intransigenza del Faraone, che non acconsentì neppure a concedere agli Ebrei di celebrare una festività per soli tre giorni. Shadal scrive inoltre che, verosimilmente, se Mosè avesse rivendicato apertamente la libertà del proprio popolo, il Faraone lo avrebbe ucciso per poi inasprire ulteriormente la schiavitù degli Israeliti.
  • Nechama Leibowitz sostiene che, se il Faraone avesse approvato di buon grado la richiesta di Mosè, il popolo sarebbe davvero tornato in Egitto dopo soli tre giorni di cammino, e il processo di liberazione sarebbe andato avanti gradualmente e in maniera pacifica. Un’ipotesi tanto ottimista viene però già esclusa in anticipo nella prima rivelazione di Dio a Mosè (Esodo 3:19).
  • Secondo Nachmanide, oltre agli Egizi, neppure gli Israeliti stessi erano a conoscenza del vero piano dell’Esodo (ad eccezione dei capi del popolo): essi credevano realmente che la loro uscita dall’Egitto sarebbe stata solo temporanea. L’idea di abbandonare il paese per vagare in un deserto inospitale sarebbe stata infatti troppo traumatica per le loro menti abituate alla sottomissione. Era dunque necessario preparare gli Israeliti gradualmente, mostrando loro passo dopo passo la superiorità del Creatore del mondo rispetto al potere del Faraone.

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