Storia di un uomo che raccoglieva legna di Sabato

E quando i figli d'Israele erano nel deserto, trovarono un uomo che raccoglieva legna nel giorno di Shabbat.
E quelli che l'avevano trovato a raccogliere legna lo fecero avvicinare a Moshè, ad Aharon e a tutta l'assemblea, e lo posero in custodia, poiché non era stato definito cosa fare con lui.
E HaShem disse a Moshè: «Quest'uomo dovrà morire, tutta l'assemblea lo lapiderà con pietre fuori dall'accampamento.
E tutta l'assemblea lo fece uscire dall'accampamento, lo lapidò con pietre ed egli morì, come aveva comandato HaShem a Moshè» (Numeri 15:32-36).

Questo breve racconto compare a sorpresa nel Libro di Bemidbar (Numeri), all’interno di una sezione dedicata ad alcuni precetti di natura rituale.

A creare sconcerto, più che la sua collocazione, sono però l’asprezza e l’apparente illogicità di questo episodio. L’idea che un semplice “raccoglitore di legna” (mekoshèsh etzìm) possa essere condannato a morte per aver violato la Legge divina con un atto di per sé innocuo, infatti, non è di certo facile da comprendere.

È vero, la Torah aveva già prescritto la pena capitale per chi profana il riposo sabbatico (Esodo 31:14), ma questo è il primo caso in cui tale pena viene effettivamente applicata, ed è anche l’unico: mai più, in tutta la Bibbia ebraica, qualcuno sarà messo a morte per aver violato lo Shabbat (si noti la differenza con l’episodio narrato in Nehemia 13:15-22, dove nessuna pena violenta è inflitta ai profanatori del Sabato).

La perplessità sembra colpire persino i protagonisti della storia, che invece di agire subito in base alla legge prescritta, tengono il trasgressore in custodia fino a che la voce divina non indica loro come agire.

I Maestri del Talmud (Sanhedrin 41a), già consci del disagio generato da questa narrazione, affermano che l’uomo era stato avvertito da parte di testimoni oculari, e che malgrado ciò egli aveva comunque perseverato nel suo atto proibito. Il peccato viene così inteso non come il frutto di ingenuità o di banale noncuranza, ma come un’azione premeditata e volta a porsi pubblicamente in contrasto con i valori della Torah.

In questo articolo, pur senza sminuire la natura tragica dell’episodio, basandoci su un’interpretazione recentemente proposta da Rabbi David Fohrman (Aleph Beta), vogliamo mostrare come il brano rappresenti in fondo solo una tessera di un mosaico. Se si analizza il testo in profondità, è possibile infatti scoprire che il suo vero insegnamento non è scontato come sembra, né sconcertante come si teme.

Shabbat: la terapia di Dio

La radice verbale שָׁבַת (“cessare”, “desistere”), da cui appunto prende il nome il giorno di Shabbat, compare già nel racconto della Creazione (Genesi 2:2). In questo caso si parla però del termine dell’opera creativa, il Sabato di Dio, non quello dell’uomo.

Partiamo allora da questa domanda: chi è il primo essere umano nella Bibbia a menzionare il concetto dello Shabbat? No, non è Moshè, non è Aharon, né qualcuno dei profeti.

Il primo personaggio umano a usare questo termine è, curiosamente, il Faraone dell’Esodo. Quando infatti Moshè e Aharon si presentano al suo cospetto per chiedergli di lasciar partire il popolo ebraico per “per un cammino di tre giorni nel deserto”, il re d’Egitto risponde: “Ecco, il popolo del paese è numeroso, e voi vorreste farlo desistere (VeHishbatem) dalle sue fatiche?” (Esodo 5:5).

Con le sue parole, il Faraone nega con forza la possibilità dell’esistenza dello Shabbat. Nella sua visione del mondo, non esiste “cessazione” o “riposo” per un popolo di schiavi. In contrasto alla richiesta di Moshè, che pretendeva per gli Israeliti una tregua dal lavoro per poter osservare una celebrazione religiosa nel deserto (5:1), il tiranno rende la schiavitù ancora più dura:

E quello stesso giorno il Faraone ordinò agli oppressori del popolo e ai suoi sovrintendenti dicendo: «Non date più paglia al popolo per fare i mattoni, come prima, e vadano da soli a raccogliere la paglia! Ma imponete loro la stessa quantità di mattoni che facevano prima, senza diminuzione alcuna» (5:7-8).

In seguito, dopo l’uscita dall’Egitto, gli Israeliti si ritrovano a vivere un’esperienza molto simile e al contempo diametralmente opposta: di nuovo un sovrano che esige di essere servito ordina loro di andare a “raccogliere” qualcosa, ma non si tratta più dell’odiosa paglia per costruire mattoni, bensì del “pane dal cielo” benevolmente elargito per il loro sostentamento, ossia la manna (16:15-16).

In entrambi i casi, l’ordine di raccogliere giunge in risposta a una rivendicazione da parte di Israele. Mentre tuttavia il re d’Egitto aveva reagito con intransigenza e crudeltà, il re ultraterreno ascolta le proteste del popolo (16:12).

Come il Faraone, anche Dio ora fissa la quantità richiesta della sostanza da raccogliere; non lo fa però per aggravare il lavoro degli Israeliti con pretese al di là delle capacità umane, ma per fornire a ciascuno “quanto gli basta per il suo nutrimento” (16:16).

E mentre il Faraone aveva pronunciato la parola Shabbat con sdegno, negando la possibilità di un riposo per gli schiavi, Dio al contrario dice, proprio nel racconto della manna: “Domani è un Sabato sacro di riposo” (16:23).

Da un lato abbiamo perciò “l’anti-Shabbat” dell’Egitto, e dall’altro lo Shabbat della Torah, con cui Dio mira a sanare il trauma degli Israeliti mostrando loro un modello diverso di autorità, presentandosi come un padrone misericordioso che viene incontro alle loro necessità.

Assume così un senso del tutto nuovo la frase che Moshè rivolge al popolo alla vigilia della discesa della manna: “Questa sera saprete che HaShem vi ha fatto uscire dalla terra d’Egitto” (5:6). Non si parla in fondo di un “sapere” nel senso letterale, ma dell’atto di sperimentare il divario tra l’Egitto e la Redenzione, tra il mondo del Faraone e quello dello Shabbat.

“Nel deserto”

Torniamo ora alla vicenda del mekoshèsh etzìm, il “raccoglitore di legna” messo a morte.

Ciò che stupisce prima di tutto di tale racconto è il suo inizio: “E quando i figli d’Israele erano nel deserto…”. Qual è lo scopo di questa precisazione?

La frase appare palesemente superflua, se consideriamo che tutte le vicende del Libro dei Numeri si ambientano appunto nel deserto. Addirittura il titolo ebraico del libro, Bemidbar, significa proprio “nel deserto”.

Il verso avrebbe certamente senso se riportasse il nome di una località precisa, come avviene in altri casi (ad esempio Numeri 13:32), ma un’indicazione generica come “nel deserto” richiede senza dubbio di essere spiegata.

Nachmanide, nel suo Commentario, risponde alla nostra domanda con un’interessante osservazione:

E quando i figli d’Israele erano nel deserto – ciò è scritto poiché è proprio a causa del decreto sopramenzionato [cioè la condanna a ritardare di quarant’anni l’ingresso nella terra promessa] che questo evento si verificò”.

Dunque, secondo Nachmanide, il testo vuole qui suggerire che l’episodio del mekoshesh sia strettamente legato all’evento che lo precede: il famoso “peccato degli esploratori”, con la conseguente condanna dell’intera generazione di coloro che uscirono dall’Egitto a morire nel deserto (capitoli 13-14).

Come scrive la Rabbanit Sharon Rimmon, “la storia del raccoglitore di legna è il primo racconto che segue il peccato degli esploratori, e la sua introduzione enfatizza perciò la nuova situazione degli Israeliti”, una condizione statica in cui il popolo è confinato nel deserto, bandito dalla terra promessa per quarant’anni.

La voglia di tornare in Egitto

Altro elemento su cui dobbiamo soffermarci è l’utilizzo del termine mekoshesh, che è una forma del verbo kashash (raccogliere).

In tutti i cinque libri della Torah, oltre che qui, tale verbo compare solo in un altro racconto: quello in cui il Faraone obbliga i suoi schiavi a “raccogliere da soli la paglia” (Esodo 5:7). Che non a caso, è proprio il racconto dell’anti-Shabbat.

Secondo Rabbi Fohrman, la Torah crea in questo modo un filo di continuità che unisce l’anti-Shabbat del Faraone, la Redenzione dello Shabbat al tempo della discesa della manna, il peccato degli esploratori (che causa una battuta d’arresto al progetto divino) e l’episodio del mekoshesh che da esso consegue.

Con il suo rifiuto di osservare lo Shabbat, e con il suo atto emblematico di “raccogliere”, il mekoshesh desidera regredire dal modello della Redenzione (che dalla sua prospettiva ha fallito) a quello dell’Egitto, riportando in vita nell’accampamento d’Israele quel mondo oscuro in cui il Sabato non poteva esistere.

Il mekoshesh rappresenta allora il portavoce di quella generazione ribelle che, dopo il peccato degli esploratori, aveva gridato: “Non sarebbe forse meglio per noi tornare in Egitto?” (13:3); una generazione già condannata nella sua interezza a morire “nel deserto”, condanna che egli non fa altro che anticipare sulla propria pelle.

Sembra insomma che questo peccatore raccolga su di sé l’insofferenza e la frustrazione dell’intero popolo, quasi come una personificazione della parte d’Israele che preferiva fare ritorno nella terra della schiavitù piuttosto che avere fede in quel piano divino che li aveva condotti a vagare nell’insicurezza.

La redenzione del mekoshesh

È possibile che la storia del mekoshesh non si concluda davvero con la morte del trasgressore, ma abbia un inaspettato seguito molto più tardi, quando cinque donne si presentano da Moshè con una richiesta:

Le figlie di Tzelofechad [...] si avvicinarono e si  presentarono davanti a Moshè, davanti al sacerdote Eleazar, davanti ai principi e a tutta l’assemblea all’ingresso della tenda di convegno e dissero: «Nostro padre morì nel deserto, ma non fu nel gruppo di coloro che si radunarono contro HaShem, non fu nel gruppo di Korach, ma morì a motivo del suo peccato, senza avere figli [maschi]. Perché dovrebbe il nome di nostro padre essere sminuito in mezzo alla sua famiglia per non aver avuto figli? Dacci un’eredità tra i fratelli di nostro padre!» (Numeri 27:1-4).

Moshè, dopo aver ricevuto un’esplicita istruzione da parte di Dio, approva la rivendicazione di queste donne e concede loro una parte di eredità nella terra promessa.

Ma cosa ha a che fare questa nuova vicenda con la profanazione del Sabato? Ebbene, nel Talmud (Shabbat 96b), Rabbi Akiva sostiene che Tzelofechad, il padre defunto delle cinque donne, sia da identificare proprio con il mekoshesh. Egli deduce ciò notando che il termine “nel deserto” (bamidbar) compare in entrambi i brani.

L’interpretazione di Rabbi Akiva sembrerebbe alquanto inconsistente: davvero si può affermare che Tzelofechad e il mekoshesh siano la stessa persona sulla base di un’espressione generica e comune?

Eppure, a ben vedere, anche nella storia delle cinque donne l’uso del termine “nel deserto” suscita la stessa perplessità che abbiamo già notato a proposito del mekoshesh: perché il testo ci informa che Tzelofechad morì “nel deserto”? Non è forse un dettaglio superfluo, dal momento che Israele abitava ormai nel deserto da quarant’anni?

Inoltre, le due narrazioni sono accomunate da altri parallelismi: il mekoshesh viene “avvicinato (VaYakrivu) a Moshè […] e a tutta l’assemblea (Kol Ha’Edah)”; come le figlie di Tzelofechad “si avvicinarono (VaTikravenah) a Moshè […] e a tutta l’assemblea (Kol Ha’Edah)”.

In entrambe le vicende, Moshè e l’intera comunità mantengono il caso in sospeso fino a che Dio stesso si pronuncia per chiarire la questione. Ciò non avviene in nessun altro racconto del libro.

E ancora, a chi potrebbe mai riferirsi la frase “nostro padre morì a motivo del suo peccato” (27:3), se l’unico personaggio del libro a essere morto a causa di una trasgressione personale è il mekoshesh? Ecco allora che l’identificazione proposta da Rabbi Akiva appare ora molto più plausibile dal punto di vista letterario.

Alla luce di ciò, il testo biblico ci mostra così la redenzione della memoria del profanatore del Sabato (il suo “nome”, la sua continuità) attraverso la discendenza che erediterà una porzione della terra santa.

Anche in questo epilogo il mekoshesh si dimostra un fedele riflesso della generazione degli Israeliti condannati a morire nel deserto, ai quali Dio aveva detto: “I vostri bambini, […] quelli farò entrare, ed essi conosceranno la terra che voi avete disprezzato” (14:31). Una generazione la cui esistenza è perita nel ricordo nostalgico dell’Egitto, ma la cui memoria sarà riscattata e mantenuta in vita dai figli.

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