E fu [rivolta] la parola di HaShem a Yonah figlio di Amittai, dicendo: «Alzati, va’ a Ninive, la grande città, e predica su di essa, poiché la sua malvagità è salita fino al mio cospetto». Ma Yonah si alzò per fuggire a Tarshish, [lontano] dal cospetto di HaShem (Giona 1:1-2).
Per quale motivo Yonàh (Giona) si sottrae inizialmente alla missione affidatagli da Dio? È una domanda che deve necessariamente trovare una risposta se si vuole comprendere la vicenda narrata in questo breve testo della Bibbia ebraica.
Eppure non è una domanda facile come si potrebbe credere, né è in alcun modo scontata, come dimostra la varietà di diverse teorie che sono state proposte nei secoli per spiegare l’impossibile fuga di questo profeta dal volere divino.
Secondo una certa linea interpretativa presentata nel Talmud (Pesachim 87b), adottata anche da Rashi, a motivare la fuga di Yonah fu il timore, da parte del profeta, che un eventuale pentimento degli abitanti di Ninive avrebbe gravemente sminuito gli Israeliti agli occhi di Dio, poiché il popolo ebraico non aveva di fatto mai accolto le esortazioni al ravvedimento da parte dei profeti.
Una spiegazione riportata nel Midrash denominato Pirkè deRabbi Eliezer, citata da Saadya Gaon e dallo stesso Rashi, sostiene invece che Yonah temesse di apparire come un falso profeta nel caso in cui il pentimento dei Niniviti non avrebbe fatto avverare la profezia sulla rovina della città.
Diversa è l’interpretazione di Isaac Abrabanel, che attribuisce a Yonah un forte spirito patriottico, affermando che egli sapeva già che, in futuro, gli Assiri avrebbero assediato Israele ed esiliato dieci delle sue tribù. Per questo motivo, Yonah si rifiutò di predicare per la salvezza di Ninive, capitale dell’Assiria, sperando così di impedire la futura distruzione del proprio popolo.
Queste spiegazioni, senza dubbio interessanti, arricchiscono la riflessione esegetica che l’Ebraismo ha sviluppato in merito al libro di Giona, ma condividono tutte uno stesso difetto: quello di non essere fondate su prove scritturali più o meno esplicite. Nel testo non si fa menzione infatti del proposito del profeta di sacrificarsi per la sua patria, della sua preoccupazione per i demeriti spirituali di Israele, né della sua paura di essere considerato un bugiardo. Proviamo allora a chiedere al nostro protagonista il motivo della propria irrealizzabile fuga dal Creatore del mondo, cercando la risposta all’interno del libro.
Subito dopo averci narrato del ravvedimento dei Niniviti e della decisione di Dio di non distruggere la città, il testo riporta:
Ma questo dispiacque molto a Yonah, che si adirò. Ed egli pregò HaShem, dicendo: «Oh, HaShem, non era forse questo che dicevo quand’ero ancora nella mia terra? Per questo sono fuggito in precedenza a Tarshish, perché sapevo che sei un Dio misericordioso e pieno di compassione, lento all’ira e grande di benignità, e che si pente del male. E ora, HaShem, ti prego, toglimi la vita, perché per me è meglio morire che vivere» (Giona 4:1-3).
Il profeta stesso dunque dichiara apertamente la ragione del suo tentativo di sfuggire al volere divino. Ma le sue parole destano una certa perplessità: Yonah sembra percepire la misericordia come un affronto, come un’ingiustizia, fino al punto che egli preferisce la morte piuttosto che accettare che Ninive sia stata risparmiata.
La descrizione di Dio espressa da Yonah suona familiare: si tratta infatti di una citazione al Libro dell’Esodo, e precisamente al brano in cui il Creatore si manifesta a Moshè sul Sinai dopo il peccato del vitello d’oro, rivelando “le sue vie”, cioè i criteri in base a cui Egli agisce nei confronti delle sue creature:
Hashem, Hashem, Dio misericordioso e pietoso, lento all’ira, grande di benignità e di verità… (Esodo 34:6)
Yonah, tuttavia, come si può notare, non cita la formula esattamente come appare nell’Esodo. Il profeta, infatti, sostituisce l’espressione veEmet (“e di verità”) con la frase veNicham al HaRa’ah (“e che si pente del male”). Un Dio di verità, secondo Yonah, non può rinunciare a scagliare le punizioni che aveva annunciato, né può “cambiare idea” a causa di un effimero ravvedimento mostrato dai malvagi. Per questo il profeta, che non a caso è “figlio di Amittai” (1:1), cioè letteralmente “figlio delle mie verità”, modifica la definizione delle qualità divine espressa nell’Esodo, eliminando proprio la verità.
La missione affidata a Yonah mette quindi in dubbio la concezione della Divinità che questo profeta aveva costruito nella sua mente. Yonah preferirebbe persino morire pur di non accettare il volere di un Dio che non si conforma alla propria visione religiosa, una visione che non prevede compromessi e pentimenti.
Il profeta dovrà imparare il valore della compassione riflettendo su una pianta di ricino che gli dava sollievo e che è appassita, generando in lui un forte rammarico (Giona 4:6-10). Con questa immagine, Dio lo invita a comprendere che a volte la misericordia supera le ragioni idealistiche, e che lo sconforto provato dalle creature è simile e al contempo inferiore a quello provato dal Creatore nel momento in cui vite preziose dovrebbero essere soppresse in nome del rigore e della giustizia universale.
Senza badare all esegesi puramente mistica ed ideologica del fatto biblico, direi che si può azzardare a supporre anche il carattere personale del profeta, forse dubbioso, insicuro, inadatto a svolgere a pieno il volere di Dio.