Scintille di Torah: Deuteronomio

Scintille di Torah” è la raccolta di brevi commenti alla parashàh (porzione settimanale di Torah/Pentateuco secondo il ciclo di lettura annuale ebraico) che pubblichiamo ogni settimana sulla nostra pagina Facebook.
Di seguito troverete tutti i commenti al Libro del Deuteronomio pubblicati nel 2018.

devarim.jpgDEVARIM

“Voi state per passare i confini dei figli di Esav, vostri fratelli, che dimorano in Seir. Essi avranno paura di voi: state quindi bene in guardia e non provocateli, perché non vi darò niente del loro paese, neppure quanto ne può calcare la pianta di un piede, poiché ho dato il monte Seir a Esav, come sua proprietà. […] Seir era prima abitata dai Chorìm; ma i figli di Esav li scacciarono, li distrussero e si stabilirono al loro posto” (Deuteronomio 2:4-12).

Nel suo discorso agli Israeliti che si apprestano a entrare finalmente nella terra promessa, Moshè si sofferma sul diritto dei discendenti di Esav (Esaù) di abitare il paese di Seir, spiegando anche che essi avevano conquistato quella terra sconfiggendo i suoi precedenti abitanti.

Quella di Moshè non è però una lezione di storia o di geografia del Medio Oriente. La ragione per cui egli, in questa circostanza, pone enfasi sulla storia di Esav e del monte Seir sembra legata all’intento motivazionale del suo discorso alla nazione: Moshè vuole mostrare a Israele che i figli di Esav, per volere di Dio, riuscirono a prevalere sui temutissimi guerrieri Cananei e a conquistare così la terra assegnatagli secondo la promessa divina. In questo modo, gli Israeliti possono acquisire fiducia nel fatto che anche la loro impresa riuscirà, e che i Cananei ritenuti invincibili sono in realtà già stati sconfitti in passato, e lo saranno ancora.

Il testo ci dice dunque che Esav aveva ricevuto da Dio la promessa di ereditare il paese di Seir. Ma in quale occasione il Creatore gli ha assegnato tale eredità? Rabbi Menachem Leibtag spiega che ciò è avvenuto con il “Patto tra le parti” (Brit ben HaBetaim) tra Dio e Avraham. Al patriarca, la voce divina dichiara: “Alla tua discendenza io darò questa terra, dal fiume d’Egitto al grande fiume, il fiume Eufrate” (Genesi 15:17).
L’area geografica qui presentata risulta molto più ampia della terra assegnata a Israele che, secondo Numeri 35:1-15, si estende solo dal Mar Mediterraneo al Giordano. Il territorio promesso ad Avraham comprende invece anche le regioni che furono poi abitate dai figli di Esav, dagli Ismaeliti, dai Moabiti e dagli Ammoniti. Questi popoli, tutti di stirpe abramitica, hanno dunque anch’essi la loro porzione di eredità stabilita dal Patto tra le parti.


VAETCHANAN

“Ascolta, Israele: HaShem è il nostro Dio, HaShem è uno. E tu amerai HaShem, il tuo Dio, con tutto il cuore, con tutta la tua anima e con tutte le forze” (Deuteronomio 6:4-5).

La parashah di questa settimana comprende i celebri versi che aprono lo Shemà, spesso definito come la preghiera più importante dell’Ebraismo, nonché come la più sentita dichiarazione di fede del popolo d’Israele.
Entrambe le definizioni, per quanto ampiamente accettate, appaiono tuttavia piuttosto fuorvianti. In questi versi, infatti, non troviamo affatto una “preghiera” (nel senso di richiesta, lode o supplica rivolta all’Altissimo), ma un riconoscimento nazionale della lealtà che spetta a Dio e alla sua Legge.
Lo Shemà non è neppure propriamente una dichiarazione di fede: l’esistenza di un solo Dio non è il messaggio centrale del testo, ma il suo prerequisito. In altre parole, poiché Israele crede in un’unica Divinità, o meglio, in un’unica autorità suprema ultraterrena, si impegna a osservare i precetti della Torah e ad adempiere i propri obblighi.

“Shemà Israel, HaShem Elohenu, HaShem echad”, afferma il verso in ebraico. “Ascoltare”, nel linguaggio biblico, non significa semplicemente “udire”, ma comprendere per mettere in pratica.
“HaShem (il Tetragramma sacro), è il nostro Elohim”, cioè il nostro Dio, il nostro giudice, il potere supremo che ci governa.
“HaShem è uno”: non un’affermazione matematica, ma una dichiarazione di esclusività. La parafrasi fornita da Rashi è particolarmente suggestiva: “HaShem, che ora è il nostro Dio e non il Dio delle altre nazioni, sarà in futuro [riconosciuto come] ‘Il Dio unico’, come è detto: ‘Allora darò ai popoli un linguaggio puro perché invochino tutti il nome di HaShem’ (Sofonia 3:9), ed è anche detto: ‘In quel giorno HaShem sarà uno e il suo nome uno’ (Zaccaria 14:9)”.

“E amerai HaShem…”: un’esortazione a osservare i precetti per amore, non per timore di essere puniti, secondo Rashi. “Amare” nella Bibbia significa però anche essere leali a un sovrano (1 Samuele 18:16): un’attestazione di completa fedeltà piuttosto che un impulso sentimentale.


EKEV

“E ora, Israele, che cosa ti chiede HaShem tuo Dio, se non che tu tema HaShem tuo Dio, che tu cammini per tutte le sue vie, che tu lo ami e serva HaShem tuo Dio con tutto il cuore e con tutta l’anima, che tu osservi i comandi di HaShem e le sue leggi, che oggi ti do per il tuo bene?” (Deut. 10:12-13).

Con queste parole, Moshè riassume dinanzi a tutto il popolo in cosa consiste l’obbligo di agire secondo la volontà di Dio, in modo da esortare gli Israeliti ad amare l’Altissimo osservando le sue leggi.
Molti secoli dopo, il profeta Mikhàh (Michea) pronunciò un discorso simile, impiegando espressioni analoghe a quelle usate qui da Moshè, ma spiegando in modo alquanto differente che cosa significhi fare la volontà di Dio:

“E cosa richiede da te HaShem, se non praticare la giustizia, amare la clemenza e camminare umilmente con il tuo Dio?” (Michea 6:8).

Mikhah fa riferimento al discorso di Moshè, offrendone però una speciale parafrasi che mira ad esprimere il suo senso autentico, che Israele aveva ormai dimenticato. Subito prima, infatti, il profeta aveva rimproverato la nazione con aspro sarcasmo, affermando: “Con che cosa verrò davanti ad HaShem e mi inchinerò davanti al Dio eccelso? Verrò davanti a lui con olocausti, con vitelli di un anno? Gradirà HaShem migliaia di montoni o miriadi di rivi d’olio? Darò il mio primogenito per la mia trasgressione, il frutto delle mie viscere per il peccato della mia anima?” (6:6-7).

Il popolo credeva dunque che per adempiere il comando di Moshè ad amare Dio con tutto il cuore fosse necessario offrire moltitudini di sacrifici, esagerare con i riti, praticare il culto fino all’estremo arrivando persino a offrire i propri figli sull’altare, facendo così degenerare la devozione religiosa richiesta dalla Torah. Mikhah dissente con forza, e insegna agli Israeliti che amare Dio significa prima di tutto amare gli uomini, e quindi agire con giustizia, clemenza e umiltà.


REEH

“Quando HaShem, il tuo Dio, avrà ampliato i tuoi confini come ti ha promesso, e tu, desiderando di mangiare della carne, dirai: “Vorrei mangiare della carne”, potrai mangiare della carne a tuo piacimento. Se il luogo che HaShem, il tuo Dio, avrà scelto per porvi il suo nome sarà lontano da te, potrai macellare del grosso e del minuto bestiame che HaShem ti avrà dato, come ti ho prescritto” (Deuteronomio 12:20-21).

La parashah di questa settimana contiene un nuovo capitolo di quella che potremmo chiamare “storia biblica dell’alimentazione”.
Nel primo mondo creato da Dio, secondo Genesi 1:29, all’umanità era stato prescritto di nutrirsi di “ogni erba che produce seme e ogni albero da frutto”. Ma quel mondo, a causa della violenza dei suoi abitanti, fu spazzato via dal Diluvio. A Noach, capostipite di una nuova umanità meno elevata spiritualmente, Dio permise invece di cibarsi anche di carne, a condizione di rispettare il principio della sacralità della vita (9:3-4).
Secondo il Levitico (17:3-4), al popolo d’Israele, in virtù della vicinanza al Tabernacolo, fu poi imposta una condotta alimentare più conforme all’ideale vegetariano stabilito in principio. Agli Israeliti, infatti, non era permesso scannare animali per cibarsi della carne: ciò era consentito soltanto nel Santuario, come parte dei riti sacrificali.
Ora, con l’approssimarsi dell’ingresso nella terra promessa, la situazione cambia, e il Deuteronomio concede al popolo di nutrirsi di carne annullando la precedente restrizione. A cosa si deve questa nuova licenza?

Permettere il consumo di carne nel solo ambito rituale, come avveniva nel deserto, avrebbe favorito il proliferare di “altari privati”, provocando scismi e alimentando il rischio dell’idolatria. Inoltre il popolo, vivendo lontano dal Santuario, non avrebbe potuto facilmente conformarsi all’ideale elevato che invece costituiva la norma nella vita nel deserto, dove l’intero accampamento di Israele era stretto intorno alla fonte della santità.
Ancora una volta, la Torah ci presenta l’autorizzazione a consumare carne come un’indulgenza accordata agli impulsi dell’uomo, un compromesso pratico per una realtà che non è perfetta, ma che può comunque aspirare a perfezionarsi.


SHOFETIM

“Quando sarai entrato nella terra che HaShem tuo Dio sta per darti e ne avrai preso possesso e l’abiterai, se dirai: ‘Voglio costituire sopra di me un re come tutte le nazioni che mi stanno intorno’, dovrai costituire sopra di te come re colui che il HaShem tuo Dio avrà scelto” (Deuteronomio 17:14-15).

La parashah di questa settimana ci pone per la prima volta davanti alla visione biblica della monarchia ebraica. Se da un lato l’istituzione del regno è presentata come una scelta del tutto umana, nata dall’iniziativa del popolo, dall’altro il testo ci dice che sarà Dio stesso a scegliere colui che regnerà. Due linee parallele si incontrano in questa visione al contempo divina e umana dell’autorità monarchica.

La coesistenza di questi due aspetti si rivela più chiaramente nelle storie bibliche dei primi re di Israele.
Shaul è consacrato re dal profeta Shemuel (1 Samuele 10:1), ma la sua carica diviene effettiva solo in seguito all’incoronazione da parte del popolo (10:17-26) e alla vittoria contro gli Ammoniti che gli fa ottenere l’approvazione di tutta la comunità (11:14-15).
David, analogamente, dopo essere stato unto da Shemuel come nuovo re (16:1), continua per molto tempo a rispettare Shaul quale sovrano legittimo, e pertanto non rivendica la corona finché tutte le tribù non lo eleggono ufficialmente per regnare su Israele (2 Samuele 5:1-3).
Senza un riconoscimento pubblico da parte della collettività, a nessuno è dunque concesso ascendere al trono, neppure in seguito alla consacrazione da parte di un profeta. Benché molti oggi ritengano che la democrazia sia un principio contrario all’Ebraismo, di fatto la Torah non ammette che un despota teocratico governi la nazione solo in virtù del diritto divino, senza aver ottenuto il consenso del popolo.


KI TETZÈ

“Se un uomo ha due mogli, l’una amata e l’altra odiata, e tanto l’amata che l’odiata gli hanno generato dei figli, se il primogenito è figlio dell’odiata, nel giorno in cui lascia per testamento i beni che possiede ai figli, non potrà assegnare la primogenitura al figlio dell’amata, preferendolo al figlio dell’odiata che è il primogenito, ma riconoscerà come primogenito il figlio dell’odiata” (Deuteronomio 21:15-17).

Che cos’è esattamente la Torah? Un testo narrativo, oppure un libro di leggi? Entrambe le cose, come è evidente. Molti studiosi si sono però interrogati sul complesso rapporto che esiste tra queste due componenti, discutendo sui possibili nessi individuabili tra le storie e le leggi.

Talvolta, la componente narrativa e quella giuridica appaiono strette da un forte legame, fino al punto che l’una sembra fare luce sull’altra. È il caso della legge del Deuteronomio relativa ai figli della “moglie amata” e di quella “odiata”. Tale legge rievoca in modo chiaro la vicenda di Yaakòv (Giacobbe) e delle sue due mogli Leàh e Rachèl. Il testo biblico ci dice infatti che Yaakov amava Rachel (Genesi 29:30), mentre Leah è invece definita senuàh (“odiata”), lo stesso termine utilizzato in Deuteronomio.
La predilezione di Yaakov per Yosèf, figlio di Rachel, a discapito dei fratelli più anziani, causa grandi animosità all’interno della famiglia (37:3), innescando una catena di eventi tragici.
Traendo da questa vicenda una lezione da tramutare in legge, la Torah proibisce a ogni padre che si ritrovi in simili circostanze di favorire un figlio in virtù dell’amore per la madre, fornendoci al contempo anche un giudizio morale sul comportamento di Yaakov che nella Genesi è solo implicito.
Alla drammatica storia di Yosef fa poi riferimento anche un’altra legge, inclusa nella stessa parashah: “Se si sorprende un uomo a rapire uno dei suoi fratelli tra i figli d’Israele, ed egli lo maltratta e lo vende, quel rapitore sarà messo a morte” (Deut. 24:7). Anche in questo caso, il Deuteronomio fa luce sulla Genesi, condannando nella maniera più severa le azioni compiute dai capostipiti delle tribù contro “un loro fratello tra i figli d’Israele”.


KI TAVÒ

“Mio padre era un Arameo errante; scese in Egitto, vi stette come un forestiero con poca gente e lì diventò una nazione grande, forte e numerosa. Gli Egiziani ci maltrattarono, ci umiliarono e ci imposero una dura schiavitù. Allora gridammo ad HaShem, al Dio dei nostri padri, e HaShem ascoltò la nostra voce, vide la nostra umiliazione, la nostra miseria e la nostra oppressione. HaShem ci fece uscire dall’Egitto con mano potente e con braccio teso, spargendo terrore e operando segni e prodigi, e ci condusse in questo luogo e ci diede questo paese, dove scorre latte e miele. Ora, ecco, io presento le primizie dei frutti del suolo che tu, HaShem, mi hai dato” (Deuteronomio 26:5-10).

In questi cinque versetti, la Torah riporta la dichiarazione che ogni agricoltore israelita pronunciava davanti al Santuario durante la cerimonia annuale di presentazione delle primizie del raccolto.
Offrire i prodotti della propria terra dinanzi a un altare era di per sé un atto religioso comune fra molti popoli della terra, che da tempi remotissimi hanno sempre sacrificato le primizie del suolo come omaggio alle divinità o agli spiriti della natura. Tuttavia, l’elemento rivoluzionario della cerimonia descritta nella Torah è proprio la dichiarazione che accompagnava l’offerta, in cui troviamo un riassunto delle origini del popolo ebraico e del suo rapporto con Dio. A questo proposito, Rabbi Jonathan Sacks spiega:

“Ciò che rendeva unico il rituale descritto nella nostra parashah, insieme alla visione biblica da cui esso deriva, è il fatto che i nostri antenati hanno visto Dio nella storia piuttosto che nella natura. Ciò che normalmente i popoli celebravano presentando le proprie primizie era la natura stessa: le stagioni, il suolo, la pioggia, la fertilità della terra e ciò che Dylan Thomas chiamò ‘La forza che nella verde miccia spinge il fiore’. La cerimonia biblica delle primizie è alquanto diversa. Essa non riguarda la natura ma la forma della storia, la nascita di Israele come nazione e la forza redentiva di Dio che ha liberato i nostri antenati dalla schiavitù. […] Questa storia è il patrimonio che ci appartiene come Ebrei ed è il nostro contributo all’orizzonte morale del genere umano”.


NITZAVIM-VAYELEKH

“Molti mali e molte angosce piomberanno loro addosso, perciò in quel giorno diranno: ‘Questi mali non ci sono forse caduti addosso perché il nostro Dio non è in mezzo a noi?'” (Deut. 31:17).

“Se al popolo che si proclama eletto da Dio capitano tante sventure, significa che Dio non esiste o non si cura degli uomini”. Questa argomentazione viene spesso presentata in arrischiati discorsi teologici relativi alle più terribili sofferenze subite dal popolo ebraico. Tale argomentazione, che tutti abbiamo sentito almeno una volta, è anticipata dalla Torah stessa nel verso appena citato.
Coloro che nel corso della storia hanno riflettuto sulle sciagure piombate sui figli d’Israele hanno prodotto però anche un’altra risposta, come è scritto in un brano precedente:

“Tutte le nazioni diranno: ‘Perché HaShem ha trattato così questa terra? Perché mai l’ardore di questa grande ira?’ Allora risponderanno: ‘Poiché hanno abbandonato il Patto di HaShem, il Dio dei loro padri. […] Per questo si è accesa l’ira di HaShem contro questa terra, per far venire su di essa tutte le maledizioni scritte in questo Libro. E HaShem li ha strappati dalla loro terra con ira, con furore e con grande indignazione e li ha gettati in un altro paese, come avviene oggi'” (Deuteronomio 29:24-28).

Questa visione diversa sostiene che proprio l’immensa portata delle sofferenze patite dagli Ebrei sia una dimostrazione del fatto che Dio guida la storia di questo popolo, in quanto esse costituiscono l’adempimento delle maledizioni predette “in questo Libro”, cioè nel Deuteronomio stesso.
Da ciò deriva l’idea espressa in maniera sbalorditiva dal profeta Amos: “Ascoltate questa parola che HaShem pronuncia contro di voi, o figli d’Israele […]: Soltanto voi ho conosciuto fra tutte le famiglie della terra; perciò io vi punirò per tutte le vostre iniquità” (Amos 3:1-2).
Essere il “popolo eletto” significa, secondo Amos, ricevere da Dio un trattamento più severo: una concezione piuttosto tragica che tuttavia ha contribuito a forgiare nei secoli l’identità ebraica.


HAAZINU

“E HaShem vide ciò e li respinse, a motivo della provocazione dei suoi figli e delle sue figlie, e disse: Io nasconderò loro il mio volto e vedrò quale sarà la loro fine, perché sono una generazione perversa, figli in cui non vi è alcuna fedeltà.
Essi mi hanno reso geloso con ciò che non è Dio, mi hanno provocato ad ira con le loro vanità, e io li renderò gelosi con un non-popolo, li provocherò ad ira con una nazione stolta” (Deuteronomio 32:19-21).

La parashah di questa settimana è quasi interamente composta da versi poetici. Alcune espressioni utilizzate nel “cantico di Ha’azinu” risultano pertanto di difficile comprensione.
Lo sdegno divino si esprime qui con l’idea, già presentata altrove nel Deuteronomio (31:17), nota come “Hester Panim”, cioè l’occultamento del volto di Dio. Il Sovrano dell’universo si rende inaccessibile alle sue creature, lasciando nel mondo il mistero della sua assenza. Il concetto appare in alcuni passi della Bibbia, come nei Salmi 27 e 44, in cui indica specificamente il rifiuto di Dio di esaudire la preghiera di chi non è degno.

In risposta alle azioni del popolo, che fa ingelosire il Dio unico volgendosi all’adorazione di idoli vani, il Creatore fa ingelosire Israele favorendo a suo discapito un “non-popolo” (lo-am). Cosa significa?
Secondo Rashi, la frase si riferisce ai Caldei, definiti “un popolo che non era” (Isaia 23:13), e agli Edomiti, chiamati invece “molto spregevoli tra le nazioni” (Abdia 1:2). Entrambi i popoli inflissero infatti grandi sofferenze a Israele nei periodi più bui della storia biblica.


VEZOT HABERAKHAH

Il grande maestro e condottiero Moshè conclude la sua vita benedicendo le dodici tribù d’Israele prima del loro ingresso nella terra promessa (Deuteronomio 33:1).
Proprio come aveva fatto Yaakov sul letto di morte con i suoi figli (Genesi 49), Moshè si rivolge a ciascuna tribù singolarmente per impartire una benedizione speciale. Mentre però Yaakov aveva elencato i suoi figli dal più anziano al più giovane (quasi senza eccezioni), l’ordine delle tribù nel caso di Moshè non segue la stessa logica:

1) Reuven; 2)Yehudah; 3)Levì; 4)Binyamin; 5)Efrayim; 6)Menashe; 7)Zevulun; 8)Yissachar; 9)Gad; 10)Dan; 11)Naftali; 12)Asher.

Su cosa si fonda questo ordine? E come mai la tribù di Shimon non compare nella lista?
Si può osservare innanzitutto che i figli di Leah e Rachel (le matriarche) precedono quelli di Bilha e Zilpa (le concubine), eppure sorprende notare che, ad esempio, Yehudah sia posto prima del suo fratello maggiore Levì, e che Binyamin preceda le due tribù di Yosef (Efrayim e Menashè).

Rabbi Menachem Leibtag spiega che le benedizioni seguono un criterio geografico secondo la divisione della Terra d’Israele: le tribù sono infatti elencate da est a ovest e da sud a nord. Moshè parte da Reuven, a cui fu assegnato un territorio a est del Giordano, per poi risalire lungo la regione (vedi la mappa), tenendo però conto della divisione in “figli delle matriarche” e “figli delle concubine”.
L’assenza di Shimon si spiega dunque considerando che questa tribù non ottenne mai un suo territorio indipendente, ma risiedette all’interno di Yehudah. Levì, inoltre, è menzionato dopo Yehudah e prima di Binyamin poiché il Santuario (sede dei Leviti) si trovava non a caso al confine tra le tribù di Yehudah e Binyamin.
Pur non potendo entrare nella terra promessa, Moshè dunque guarda le dodici tribù proiettandosi nel futuro e ammirando, benché solo nella sua mente profetica, la disposizione dei figli di Israele nella loro eredità.

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