E il sangue sarà un segno per voi sulle vostre case: quando io vedrò il sangue, passerò oltre e non vi sarà piaga su di voi per distruggervi, quando colpirò la terra d’Egitto (Esodo 12:13).
Nel Libro dell’Esodo, l’appassionante racconto delle dieci piaghe si interrompe nel momento decisivo per lasciare spazio alle istruzioni relative al Korban Pesach (sacrificio pasquale) e alla “festa delle azzime” che il popolo ebraico dovrà celebrare ogni anno in tutte le generazioni. I dettagli del rito compiuto in Egitto sono piuttosto noti, ma non altrettanto compresi nei loro aspetti cruenti e misteriosi.
Secondo le indicazioni di Moshè, ogni famiglia israelita dovrà procurarsi un seh, termine che Samuel David Luzzatto traduce con “animale minuto” e che indica, come la Torah stessa spiega, sia un capretto che un agnello (Esodo 12:5). L’animale dovrà essere ucciso nel pomeriggio del giorno 14 di Nissàn, in primavera. Un po’ del suo sangue dovrà poi essere spruzzato sugli stipiti e sull’architrave di ogni casa ebraica tramite un fascio d’issopo, mentre la carne sarà arrostita e consumata in fretta nella stessa notte, con erbe amare e pane senza lievito.
Eseguendo questo rito, gli Israeliti si salveranno dalla piaga letale che sta per abbattersi sui primogeniti d’Egitto e potranno finalmente lasciare il paese. Ma qual è il senso di tutto ciò? È possibile spiegare in qualche modo il significato di questo sacrificio?
L’abominio degli Egizi
L’idea di un sacrificio offerto dal popolo ebraico era in realtà emersa molto prima della decima piaga. Fin dal suo primo incontro con il Faraone, Moshè aveva infatti chiesto al sovrano di lasciar partire gli Israeliti affinché essi potessero celebrare un culto sacrificale nel deserto in onore del loro Dio (vedi Esodo 5:3).
Più tardi, dopo la quarta piaga, il Faraone aveva convocato Moshè per proporgli un compromesso:
Allora il Faraone chiamò Moshè e Aharon e disse: «Andate, sacrificate al vostro Dio nel paese». Ma Moshè rispose: «Non si può fare questo [in Egitto], poiché faremmo ad HaShem, nostro Dio, sacrifici che sono un abominio per gli Egizi. Ecco, facendo sotto i loro occhi dei sacrifici che sono un abominio per gli Egizi, essi non ci lapideranno?» (8:22).
Secondo le parole di Moshè, i sacrifici offerti dagli Ebrei rappresentano un abominio agli occhi degli Egizi, ed è perciò necessario uscire dai confini nazionali per poter eseguire questi riti senza temere di essere lapidati. Il termine to’evàh, qui tradotto con “abominio”, indica qualcosa di offensivo, di ripugnante o di esecrabile.
Molto prima, in Genesi 46:34, il racconto biblico ci aveva già informato del fatto che “gli Egizi hanno in abominio (to’evah) tutti i pastori”. Proprio per questo motivo, la famiglia di Yaakov (Giacobbe), che praticava la pastorizia, aveva dovuto stabilirsi nella zona remota di Goshen, lontano dal cuore dell’Egitto.
Ma perché gli Egizi aborrivano i pastori (tra cui gli Ebrei) e i loro sacrifici? Nel pensiero rabbinico, la risposta più nota è quella adottata da Rashi, secondo cui gli Egizi adoravano le pecore e le capre, e consideravano quindi blasfemi coloro che sacrificavano questi animali. Ibn Ezra presenta questo concetto in modo diverso, suggerendo che gli Egizi fossero vegetariani e detestassero chi uccideva gli animali.
Rashbam, al contrario, scrive che “le pecore erano qualcosa di ripugnante per gli Egizi”, forse, possiamo immaginare, perché tali animali consumavano i prodotti agricoli della fertile valle del Nilo. In questo “abominio” potrebbe quindi celarsi l’antica diffidenza di una civiltà urbana e progredita come l’Egitto nei confronti delle popolazioni nomadi di pastori, viste come una minaccia in quanto sottraevano preziose risorse con il loro bestiame e le loro migrazioni.
A questo proposito, possiamo notare che il sacrificio di un agnello all’inizio della primavera era in origine un rituale compiuto da alcune tribù nomadi. Nahum Sarna scrive infatti che “I pastori pagani offrivano questo animale allo scopo di assicurarsi la fecondità del gregge, proprio come i riti della festa del raccolto primaverile avevano lo scopo di garantire la fertilità del suolo. In Israele, questi riti furono recisi dalle loro radici magiche e mitiche” (Exploring Exodus, p. 89).
In ogni caso, sia che si tratti dell’uccisione di un animale sacro per gli Egizi, sia di un rito tipico dei nomadi (seppure compiuto dagli Israeliti con un significato del tutto nuovo), il sacrificio pasquale rappresenta certamente un affronto alla cultura egizia, come spiega Rav Chanoch Waxman:
“[…] un rito religioso che prevede il sacrificio della ‘to’evah dell’Egitto’, cioè qualcosa di sacro o di disgustoso, costituisce un atto fondamentalmente anti-egiziano. Spalmare il sangue dell’agnello sulla casa rappresenta una dichiarazione di indipendenza religiosa, una rottura con le norme culturali e con i tabù dell’Egitto. Questo atto definisce una nuova identità, una cultura non-egizia basata sulla fedeltà al Signore, il Dio dei patriarchi” (Torah MiEtzion, Vol. II, p. 148).
Appare dunque particolarmente appropriato che un simile atto sovversivo sia compiuto nel momento cruciale in cui si compie la vera separazione tra Israele e l’Egitto, un presupposto indispensabile per la nascita del popolo del Patto.
Dalla morte alla vita
Al di là di questo valore culturale e quasi politico del rito, esiste anche un’altra dimensione legata al Korban Pesach che racchiude significati più profondi e ancestrali.
Il sacrificio pasquale, con i suoi dettagli apparentemente insoliti e oscuri, non costituisce in realtà un caso unico nella Bibbia: esistono altri rituali prescritti dalla Torah che contengono alcuni elementi analoghi e sembrano appartenere alla stessa logica.
Pensiamo in particolare al rito della Parah Adumah, la mucca rossa le cui ceneri, secondo Numeri 19, sono in grado di purificare coloro che si erano “contaminati” con un cadavere. Anche in questo caso, un animale immacolato, senza difetto, viene sacrificato, il suo sangue viene spruzzato (non su una casa, ma “in direzione della Tenda di Convegno”) e il suo corpo è arso con il fuoco. Come il rito della Pasqua, anche quello della mucca rossa prevede inoltre l’uso di una pianta d’issopo.
Lo scopo della cerimonia della mucca rossa è quello di permettere a chi è entrato in contatto con la manifestazione più completa della morte (un cadavere) di essere purificato per tornare ad accostarsi alla realtà suprema della vita, rappresentata dal Santuario e dal culto di Dio.
Come abbiamo già spiegato in un nostro articolo precedente (a cui rimandiamo per maggiori dettagli), tutto ciò avviene tramite elementi simbolici che richiamano il concetto della vita che si estingue e che rinasce in una nuova forma. Una giovenca rossa, immagine universale di prosperità e fecondità, viene completamente incenerita. Le sue ceneri, però, sono poste in un vaso con acqua viva: il ciclo in questo modo si rinnova e i resti dell’animale diventano fonte di nuova vita. Anche il sangue rientra chiaramente in questa simbologia, poiché la Torah afferma che “la vita della carne è nel sangue” (Levitico 17:11).
Benché alcuni suoi dettagli restino misteriosi, sembra che anche la Pasqua biblica abbia un significato strettamente legato al passaggio dalla morte alla vita, che sul piano storico si riflette nella salvezza dalla piaga dei primogeniti, e sul piano cosmico nel rinnovamento della natura con l’inizio della primavera.
Tale interpretazione è coerente con uno dei temi più significativi dell’Esodo: il potere assoluto di Dio sulla vita e sulla morte; un tema già presentato più volte attraverso immagini emblematiche come la mano di Moshè colpita dalla tzaraat (la malattia che nella Bibbia richiama sempre la morte) che torna a essere sana (Esodo 4:6), o come il bastone, oggetto inanimato e senza vita, che si trasforma in un serpente, antico simbolo di immortalità nel Vicino Oriente (4:2-3).
La Redenzione, come insegna anche la visione delle ossa secche di Ezechiele, comprende sempre un processo di rinascita e di ri-creazione, una vera “resurrezione nazionale” per un popolo messo di fronte alla realtà della morte e dell’estinzione.