“Non avere pietà”
Così dice HaShem delle schiere: Io punirò Amalek per ciò che fece a Israele quando gli si oppose sulla via, quando uscì dall’Egitto. Ora va’, colpisci Amalek e vota allo sterminio tutto ciò che gli appartiene senza avere alcuna pietà di lui (1 Samuele 15:7-9).
Questa esortazione divina, qui rivolta dal profeta Shmuel al re Shaul, appare spaventosa per la sua violenza e drasticità. Il comando di annientare il popolo di Amalèk, già formulato (in modo meno esplicito) nella Torah (Deut. 25:17-8), ha generato infatti animati dibattiti nel corso dei secoli, ed è percepito come particolarmente problematico agli occhi di chi, come molti nella nostra epoca, considera quella dello “sterminio sacro” un’idea aberrante.
Della questione dei massacri prescritti del testo biblico ci siamo già occupati in un altro articolo (vedi “La Torah è immorale? Dibattito con un nostro lettore“), a cui rimandiamo. Anche in questo caso vogliamo però far notare che tali comandi divini, benché sconvolgenti nella loro aspra formulazione, dovrebbero essere interpretati alla luce del linguaggio militare del Vicino Oriente antico. Questo linguaggio, da quanto possiamo dedurre da alcune fonti del tempo, impiegava esagerazioni retoriche volte a enfatizzare la portata di un’impresa bellica, presentando grandi vittorie sui nemici come dei veri genocidi.
È dunque ragionevole pensare che le parole del profeta non alludano davvero a un meticoloso sterminio dell’intera popolazione di Amalek, ma alla necessità di eliminare con il massimo rigore la minaccia rappresentata da tale nazione. Ciò è confermato dal fatto che gli Amalekiti, che in questo capitolo sembrano andare incontro alla completa estinzione, ricompariranno alcuni anni dopo (vedi 1 Sam. 30) quando saranno nuovamente sconfitti da David.
Dal racconto emerge tuttavia anche un altro possibile problema morale: la guerra contro Amalek è presentata da Shmuel come una vendetta “per ciò che [questo popolo] fece a Israele quando gli si oppose sulla via, quando uscì dall’Egitto”. In effetti, gli Amalekiti attaccarono gli Ebrei appena usciti dall’Egitto, scagliandosi in maniera codarda contro i più deboli; ma perché mai i discendenti di quegli antichi nemici dovrebbero pagare per i crimini compiuti dai loro avi secoli prima?
In realtà, gli Amalekiti dell’epoca di Shaul appaiono come i degni eredi (in senso negativo) dei loro vili antenati. Dalla vicenda narrata in 1 Sam. 30 comprendiamo infatti che questa popolazione praticava ancora assalti e saccheggi, attaccando gli indifesi e compiendo gravi devastazioni. Inoltre, prima di uccidere il re di Amalek, Shmuel gli dice: “Come la tua spada priva di figli le donne, così tua madre sarà privata del figlio fra le donne” (15:33), a dimostrazione del fatto che la punizione qui inflitta riguarda le colpe degli Amalekiti viventi, che rinnovano quelle di cui si erano macchiati i loro avi nel deserto.
All’immagine di Amalek si contrappone però quella dei Keniti, alla cui stirpe apparteneva Yitrò, suocero di Moshè. Mentre gli Amalekiti avevano attaccato gli Ebrei usciti dall’Egitto, opponendosi al disegno della Redenzione, i Keniti li avevano invece aiutati, riconoscendo la salvezza operata dal Dio d’Israele (Esodo 18:8-12; Numeri 10:29-32).
In virtù di questo rapporto di amicizia e alleanza, che restò immutato nei secoli successivi, Shaul chiede ai Keniti di ritirarsi dal territorio degli Amalekiti prima di iniziare l’attacco, in modo da risparmiarli dalla distruzione (1 Sam. 15:6). La Bibbia ci ricorda così che fra le nazioni del mondo esiste anche un esempio positivo, rappresentato da coloro che non seguono l’esempio di Amalek e si schierano dalla parte degli Israeliti e del loro Dio.
Il fallimento di Shaul
E Shaul e l’esercito risparmiarono Agag e il meglio delle pecore e dei buoi, gli animali grassi, gli agnelli e tutto il meglio, e rifiutarono di votarli allo sterminio, ma votarono allo sterminio tutto ciò che era scadente e di nessun valore. E la parola di HaShem fu rivolta a Shmuel, dicendo: «Io mi pento di aver costituito Shaul come re, perché si è allontanato da me e non ha eseguito i miei ordini». Shmuel si rattristò e gridò ad HaShem tutta la notte (1 Sam. 15:9-11).
Leggendo dell’incapacità di Shaul di realizzare fino in fondo la missione affidatagli dal profeta, molti potrebbero ritrovarsi a provare quasi una certa simpatia per il re, considerandolo un leader pragmatico e ragionevole, che rifiuta di compiere un completo sterminio e agisce con un minimo di clemenza. Shmuel, all’opposto, potrebbe apparire come un fanatico sconsiderato, che non accetta compromessi nell’adempiere con la massima brutalità un precetto divino irrazionale.
Una simile interpretazione, tuttavia, non aderisce in alcun modo al testo biblico. È bene comprendere infatti che Shaul, in questo racconto, non è condannato per aver risparmiato qualcuno (in fondo, abbiamo già detto che il comando dello sterminio non è da intendere alla lettera come un genocidio), bensì per aver cercato di trarre gloria per sé stesso da una missione che andava invece eseguita soltanto in nome di Dio, senza alcun vantaggio personale.
In realtà, Shaul non ha usato clemenza: egli ha soltanto agito per i propri interessi e per il proprio onore, impossessandosi della parte migliore del bestiame (15:9), edificando un monumento per autoglorificarsi (15:12) e risparmiando la vita non di un Amalekita qualsiasi, ma del re Agag.
Quest’ultima scelta riflette un’antica consuetudine dei tempi biblici, secondo cui il sovrano vittorioso era solito tenere in vita il suo omologo sconfitto allo scopo di umiliarlo pubblicamente per celebrare il proprio trionfo (vedi Giudici 1:6-6; 2 Re 25:27-28). Ecco quindi un’altra prova dell’intento egoistico e materialista del monarca.
Anche dopo essere stato rimproverato da Shmuel per la disobbedienza, Shaul dimostra di avere in mente soltanto il proprio onore: prima di tutto, infatti, egli getta la colpa sulle truppe (v. 21), per poi preoccuparsi di salvaguardare la propria dignità agli occhi del popolo non volendo mostrare di essere stato abbandonato dal profeta (vv. 25; 30).
Ma c’è di più: in questa ricerca del vantaggio personale, volgendosi contro tutto ciò che è “senza valore” (15:9), Shaul sembra persino adottare la cultura disumana di Amalek, basata appunto sulla sopraffazione dei deboli e sul più vile opportunismo (vedi “Le mani di Mosè e la guerra contro Amalek”).
Shaul rigettato due volte?
E Shmuel rispose a Shaul: «Io non ritornerò con te, perché hai rigettato la parola di HaShem, e HaShem ha rigettato te, perché tu non sia più re su Israele. […] Oggi HaShem ha strappato da te il regno d’Israele e lo ha dato a un altro, che è migliore di te». (1 Sam. 15:26).
La scena della condanna di Shaul da parte di Shmuel ci ricorda un altro episodio già narrato in precedenza: quello della disobbedienza commessa dal re durante la guerra contro i Filistei, a cui erano seguite le dure parole del profeta: “Ora invece il tuo regno non durerà. HaShem si è cercato un uomo secondo il suo cuore, e HaShem l’ha stabilito come principe del suo popolo” (13:13-14).
Se leggiamo il libro di Samuele come un’unica narrazione lineare, notiamo che Shaul è stato rigettato da Dio due volte, in entrambi i casi in seguito a un atto di disobbedienza. Il secondo caso, però, sembra del tutto indipendente dal primo, in quanto nel racconto non si fa alcun riferimento al “rigetto” precedente.
Parlando delle contraddizioni presenti all’interno del libro, abbiamo però già avuto modo di dedurre che questo testo risulta costituito da due racconti che si intrecciano, e che possono essere intesi come due voci o prospettive che si alternano nel narrare le vicende. Lo abbiamo notato in modo particolare per quanto riguarda l’istituzione della monarchia, prima presentata come un’iniziativa peccaminosa del popolo (capitolo 8), e poi come un’iniziativa salvifica di Dio (capitolo 9).
Allo stesso modo, anche l’apparente “duplicazione” della condanna di Shaul sembra derivare da tale singolare fenomeno letterario. La prospettiva “filomonarchica”, che fin dall’inizio aveva identificato i Filistei come gli avversari principali di Israele, ci narra il fallimento di Shaul proprio in riferimento alla guerra contro questo popolo; la prospettiva “anti-monarchica”, invece, indica la vicenda di Amalek come il momento in cui il sovrano perde il favore divino.
Ecco uno schema riassuntivo, basato sugli studi di Rav Amnon Bazak, che può aiutarci a comprendere la divisione del testo secondo la divisione delle due prospettive:
Prospettiva anti-monarchica | Prospettiva filomonarchica |
8 – Il popolo chiede di avere un re “come tutte le nazioni”, rigettando l’autorità di Dio. | 9:1-10:16 – Dio sceglie di liberare Israele dai Filistei suscitando un re. |
10:17-26 – Il candidato ideale è individuato attraverso un sorteggio. | |
11:1-11 – Vittoria contro gli Ammoniti. | |
11:12-15 – Tutto il popolo accetta Shaul come re. | |
12 – Shmuel rimprovera il popolo per aver scelto la monarchia. | |
15 – Shaul rigettato da Dio per la sua disobbedienza durante la guerra contro Amalek. | 13-14 – Shaul rigettato da Dio per il suo operato durante la guerra contro i Filistei. |
La storia corre dunque su due binari paralleli che iniziano però a comporre un messaggio complementare: entrambe le prospettive vanno verso il fallimento di Shaul, seppure attraverso motivazioni diverse. Vedremo, nei prossimi articoli, dove ci condurrà tale misteriosa biforcazione della storia.