Allora Daniel fu condotto dinanzi al re, e il re gli disse: «Sei tu Daniel, uno dei Giudei che il re mio padre condusse qui in esilio da Giuda? Io ho sentito dire che tu possiedi lo spirito di Dio, che in te si trova luce, intelligenza e saggezza straordinaria» (Daniele 5:13-14).
Vogliamo parlare oggi di uno dei libri più misteriosi ed enigmatici della Bibbia, un’opera che ha esercitato un’enorme influenza tra gli Ebrei all’epoca del Secondo Tempio, che ha affascinato artisti come Rembrandt e pensatori come Isaac Newton, diventando oggetto di innumerevoli interpretazioni da cui traspaiono le ansie e le speranze di uomini di ogni tempo. Si tratta del Sèfer Danièl, il Libro di Daniele, al quale desideriamo dedicare una serie di articoli.
Poiché di questo antico testo è stato detto tutto e il contrario di tutto, si corre ormai il rischio di considerarlo un libro incomprensibile, fin troppo sibillino, preferendo evitare il confronto con i suoi brani più criptici. Per questo, il nostro obiettivo sarà di cercare di far uscire l’opera dalla nebbia in cui è stata confinata, proponendone una lettura il più possibile obiettiva che miri a coglierne fedelmente il senso.
L’autore e la struttura
Chi ha scritto il Libro di Daniele? Secondo il Talmud (Bava Batra 15a), il testo è stato composto dai membri della Knesset HaGhedollah, la “Grande Assemblea” fondata dopo la costruzione del Secondo Tempio.
Considerando però che il Libro contiene alcuni riferimenti precisi all’epoca ellenistica, e in particolare alle persecuzioni antiebraiche di Antioco Epifane, la critica biblica moderna sostiene che esso sia stato scritto in realtà al tempo della rivolta dei Maccabei (II secolo a.e.v.).
Accogliendo in parte questa ipotesi, gli autori del commentario Da’at Mikrà suggeriscono che il nucleo originario del testo, scritto dopo l’esilio a Babilonia, sia stato progressivamente arricchito e ampliato con nuovi dettagli da autori diversi, fino ad essere ultimato all’epoca dei Maccabei.
In ogni caso il testo, nella forma in cui lo conosciamo oggi, appare strutturato secondo una certa coerenza tematica. Come spiega Rav Yaakov Medan, il Libro è diviso infatti in due parti: i primi sei capitoli narrano gli eventi accaduti a Danièl e ai suoi amici e ci parlano delle visioni e degni enigmi che Daniel interpretò per i sovrani babilonesi; gli altri capitoli (da 7 a 12) sono invece dedicati interamente alle visioni di Daniel stesso.
All’interno del Libro si alternano due lingue differenti: il primo capitolo e gli ultimi cinque (da 8 a 12), sono scritti in ebraico, mentre dal secondo al settimo la lingua usata è l’aramaico.
Considerando soltanto i capitoli in aramaico, si può notare che i racconti in essi contenuti sono disposti secondo un chiasmo, la struttura simmetrica invertita di cui abbiamo già parlato in altre occasioni.
- A. Visione della statua: i quattro regni (2:4-49)
- B. Gli amici di Daniel gettati nella fornace ardente (3:1–30)
- C. Orgoglio e umiliazione di Nevukadnetsar (4:1–37)
- C’. Orgoglio e umiliazione di Belshatzar (5:1–31)
- B’. Daniel gettato nella fossa dei leoni (6:1–28)
- B. Gli amici di Daniel gettati nella fornace ardente (3:1–30)
- A’. Visione delle bestie: i quattro regni (7:1–28)
I parallelismi evidenziati da questo schema sono ben riconoscibili: le sezioni A e A’ riportano entrambe una visione allegorica in cui si parla di quattro regni umani che si succedono prima dell’istaurazione del regno di Dio. Le sezioni B e B’ sviluppano in maniera analoga il tema del fedele servo di Dio condannato a morte per la sua fede, che viene infine salvato miracolosamente. Nelle sezioni C e C’, il tema è invece quello del sovrano babilonese punito per il suo orgoglio, e in entrambi i casi ciò avviene attraverso un enigma risolto da Daniel.
Le parti in ebraico non sono inserite in questo schema, né lo interrompono, e sono perciò poste all’inizio e alla fine del Libro, facendo da “cornice” al chiasmo.
Perché è un libro atipico?
Il Libro di Daniele presenta molte interessanti differenze rispetto agli altri testi del Tanakh (Bibbia ebraica), rappresentando per alcuni aspetti un esempio unico nel canone ebraico delle Scritture, come si nota fin dal primo capitolo.
All’inizio della narrazione, il giovane Daniel viene condotto dal re di Babilonia insieme ad altri ragazzi di stirpe nobile e di bell’aspetto, con l’obbligo di istruirsi e partecipare alla vita di corte. Il nostro protagonista, però, decide subito di distinguersi:
Daniel prese in cuor suo la decisione di non contaminarsi con i cibi del re e con il vino che il re beveva, e chiese al capo degli eunuchi di non obbligarlo a contaminarsi (1:8).
Evidentemente, il cibo fornito dal re non era conforme alle norme della Torah sull’alimentazione. Tali norme, prescritte già da Moshè nel deserto, sono illustrate nei Libri del Levitico e del Deuteronomio.
Eppure, in tutti gli altri racconti biblici, di queste prescrizioni non si parla praticamente mai: nessuno è lodato per averle osservate né condannato per averle infrante, al contrario di quanto avviene con molti altri precetti della Torah, sulla cui osservanza insistono spesso i Profeti (idolatria, proibizioni sessuali, osservanza dello Shabbat, leggi etiche).
Ma Daniel sembra andare qui persino oltre, astenendosi anche dal vino, che non è mai oggetto di proibizione nel testo della Torah (tranne che per i Nazirei).
Un altro elemento nuovo riguarda l’idolatria. Benché nella Bibbia si parli continuamente della proibizione di adorare divinità diverse dal Creatore, gli altri libri ci presentano l’idolatria come una tentazione, una pratica considerata allettante da molti Israeliti, che non di rado si volgono volentieri al culto degli dèi stranieri.
In Daniele, all’opposto, gli Ebrei protagonisti non hanno alcuna intenzione di prostrarsi davanti agli idoli, ma i sovrani pagani vorrebbero costringerli a farlo, come avviene nel racconto della statua d’oro di Nevukadnetsar (cap. 3) e in quello di Daniel nella fossa dei leoni (cap. 6). Per la prima volta, l’idolatria diviene un’imposizione tirannica a cui i giusti si sottraggono eroicamente.
Ma c’è molto altro. Pur assistendo a visioni sul futuro e a rivelazioni divine, Daniel non è un profeta. Né il testo biblico né la tradizione ebraica gli riconoscono questo titolo, e non a caso il Libro è inserito nella categoria dei Ketuvim (“Scritti”) e non in quella dei Neviim (“Profeti”).
Daniel, infatti, non usa mai la tipica formula “Così parla HaShem”, né annuncia la parola divina al popolo (immancabile mansione dei profeti biblici). Al contrario, a lui è richiesto di “sigillare” o “nascondere” le sue rivelazioni, affinché non siano comprese (12:4).
Sebbene non sia definito “profeta”, Daniel è tuttavia esaltato per la sua saggezza e conoscenza (1:17; 5:12): egli è un uomo dotato di una comprensione superiore, un’abilità che deriva pur sempre da un dono di Dio, ma che non corrisponde esattamente allo spirito profetico.
Solo nel Libro di Daniele troviamo inoltre la pratica di pregare tre volte al giorno rivolti in direzione di Gerusalemme (6:10) e in coincidenza con l’ora in cui venivano offerti i sacrifici nel Tempio (9:22); e solo qui si legge un riferimento chiaro ed esplicito alla resurrezione dei morti alla fine dei tempi (12:2; 13).
Daniele è poi l’unico libro della Bibbia in cui si parla di qualcuno che legge la Bibbia. È ciò che accade al capitolo 9, dove vediamo Daniel intento a “meditare sui libri” e in particolare a riflettere su un passo di Geremia. Non siamo davanti alla lettura pubblica della Legge di Dio, prescritta già nel Deuteronomio, ma a una vera e propria lettura individuale volta a comprendere il significato del testo.
Novità che non sono più nuove
Tutte le caratteristiche insolite o addirittura uniche che abbiamo individuato nel Libro di Daniele appariranno decisamente familiari agli occhi di molti.
Ciò che infatti in Daniele risulta nuovo (rispetto a ciò che troviamo nel resto delle Scritture) corrisponde a quelli che negli ultimi duemila anni sono divenuti elementi importantissimi dell’Ebraismo.
Cominciamo con la questione alimentare. Oggi il rispetto delle regole sui cibi permessi rappresenta senza dubbio una parte essenziale della religione ebraica, che nel corso della diaspora ha fatto della Kasherut un pilastro della sua identità.
Riguardo l’astensione dal vino, se nella Bibbia questa sembra una novità, la tradizione rabbinica conosce invece molto bene la proibizione del “vino dei non-Ebrei”, dovuta agli usi pagani legati a questa bevanda, comuni presso molti popoli.
Alla luce delle frequenti e terribili persecuzioni antigiudaiche e alle conversioni forzate, sarebbe difficile pensare all’idolatria come a un richiamo seducente, come era invece nell’epoca biblica. La figura del tiranno che vuole costringere gli Ebrei a rinunciare al loro culto specifico rispecchia molto di più l’esperienza vissuta dall’Ebraismo fin dai tempi dei Maccabei.
Il fatto che Daniel non sia chiamato “profeta”, bensì “saggio”, riflette lo sviluppo a cui il popolo d’Israele ha assistito all’epoca del Secondo Tempio, quando il tramonto della Profezia ha fatto emergere la figura del Saggio, lo studioso e maestro della Torah. Questo è il motivo per cui, da duemila anni, la guida religiosa dell’Ebraismo è il rabbino e non il profeta.
Che dire poi della preghiera tre volte al giorno, della lettura dei testi sacri e della resurrezione dei morti? Si tratta chiaramente di pratiche e concetti di importanza centrale, senza le quali sarebbe arduo immaginare la fede ebraica.
Possiamo affermare allora che quello di Daniele è il primo libro dell’Ebraismo rabbinico, un libro di transizione tra l’epoca biblica e quella post-biblica, che ci fornisce una testimonianza dei cambiamenti scaturiti dal variare delle circostanze storiche e dalle nuove esigenze avvertite dalla nazione ebraica, rivelando così la continuità tra la fede degli antichi profeti e quella dei Saggi che presero il loro posto.
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