E il Monte Sinai era tutto fumante, poiché vi era disceso HaShem in mezzo al fuoco. E saliva il suo fumo come il fumo di una fornace, e tutto il monte tremava molto (Esodo 19:18).
Nella storia del popolo ebraico, il Monte Sinai è un luogo di enorme importanza: qui gli Israeliti giungono per la prima volta dopo essere usciti dall’Egitto, e qui assistono a una rivelazione senza precedenti e ricevono il dono della Torah.
Tuttavia, per il loro condottiero Moshè, questo monte ha anche un altro significato. Egli infatti era già stato ai piedi del Sinai, e proprio nello stesso luogo aveva assistito a un’altra manifestazione divina, quella del “roveto ardente“:
E Moshè era pastore del gregge di Yitrò, suo suocero, sacerdote di Midian. E guidò il gregge oltre il deserto e giunse al Monte di Dio, a Chorev. E gli apparve l'angelo di HaShem in una fiamma di fuoco, in mezzo a un roveto. Moshè guardò, ed ecco il roveto ardeva con il fuoco, ma il roveto non si consumava (Esodo 3:1-2).
Poco più avanti, Dio stesso sottolinea il fatto che l’intero popolo ebraico, dopo la liberazione dalla schiavitù, si sarebbe accampato proprio nello stesso luogo dove era avvenuta la prima apparizione divina a Moshè: “Quando avrai fatto uscire il popolo dall’Egitto, voi servirete Dio su questo monte” (3:12).
Come stiamo per scoprire, il legame tra le due rivelazioni – quella “individuale”, riservata solo a Moshè, e quella “collettiva”, a cui assiste l’intera nazione – non si limita unicamente a una coincidenza geografica, ma va ben oltre, mostrandoci un aspetto spesso ignorato della storia dell’Esodo.
Il roveto e il Monte
Provando a leggere in parallelo il racconto del roveto ardente (Esodo 3-4) e quello della Rivelazione del Sinai (Esodo 19-20), possiamo notare molte interessanti analogie.
Subito prima dell’episodio del roveto, Moshè viene accolto dal sacerdote Yitrò (chiamato anche Reuel e Yeter), che diverrà poi suo suocero. Yitrò mostra riconoscenza verso Moshè dopo aver udito dalle proprie figlie che egli le aveva “liberate (hitzilanu) dalla mano (miyad) dei pastori” (2:19), e per questo gli offre del pane (lechem).
Anche prima dell’arrivo degli Israeliti presso il Sinai, il testo ci parla di Yitrò. E anche questa volta, egli ha sentito parlare di una certa liberazione: “E Yitrò si rallegrò di tutto il bene che HaShem aveva fatto a Israele, che aveva liberato (hitzilò) dalla mano (miyad) degli Egizi” (18:8).
Come la prima volta, il sacerdote offre del pane (lechem), ma non più in un semplice banchetto familiare, bensì in un rituale di ringraziamento nei confronti di Dio (18:12).
Tornando al primo racconto, Moshè giunge al “Monte di Dio” mentre pascola il gregge di suo suocero, e si ferma davanti a un roveto (o “cespuglio”), chiamato in ebraico sneh, che appare in fiamme, ma non si consuma.
Anche nel secondo racconto Moshè è alla guida di un “gregge”: non si parla però di pecore, ma del popolo d’Israele, spesso paragonato poeticamente a un gregge di proprietà di Dio (Numeri 27:7; Michea 5:3 Geremia 23:1 e altri). Il nome del Monte Sinai, menzionato qui per la prima volta, richiama foneticamente il roveto (sneh). E in questo caso non è una semplice pianta a essere “in fiamme“, ma l’intera montagna (19:18).
Presso il roveto, inoltre, a causa della sacralità del luogo, Dio ordina a Moshè: “Non avvicinarti!” (3:5). Similmente, in seguito dirà: “Nessuno deve salire sul monte e neppure avvicinarsi” (19:12).
Sembra dunque che il testo biblico, in accordo con il suo tipico gusto per i parallelismi lessicali e tematici, insista molto nel presentarci le due rivelazioni divine come strettamente connesse: la prima appare come la prefigurazione, o anticipazione profetica, della seconda. Il roveto ardente è insomma un Monte Sinai in miniatura, e la rivelazione individuale si riflette amplificandosi nella rivelazione collettiva che avviene più tardi.
Ma perché la Bibbia fa tutto ciò? Siamo davanti a una pura costruzione artistico-letteraria, oppure da questo sistema di analogie si può cogliere un messaggio per il lettore?
Cinque interazioni tra l’uomo e Dio
Tutti i parallelismi che abbiamo individuato finora riguardano il luogo geografico (Il Sinai/Chorev), il prologo delle due storie (l’incontro con Yitrò, il gregge/popolo, l’arrivo al Monte), e alcuni aspetti della manifestazione divina (il fuoco, il divieto di avvicinarsi). Non abbiamo però detto nulla a proposito del vero contenuto delle due rivelazioni: esiste forse un legame tra ciò che Dio comunica a Moshè presso il roveto e ciò che poi dichiara alla nazione ebraica ai piedi del Sinai?
Nel suo libro Exodus: A Parsha Companion (2020), Rabbi David Fohrman sostiene che tale legame esista e che sia fondamentale per comprendere il senso dei parallelismi tra i due racconti, facendoci scorgere “un filo nascosto che ci permette di intrecciare brani apparentemente non correlati del libro dell’Esodo per formare un insieme integrato”.
Nella loro prima conversazione, Dio annuncia a Moshè la sua intenzione di redimere gli Israeliti dalla schiavitù e di farli uscire dall’Egitto per condurli nella terra promessa ai loro padri. Da parte sua, Moshè reagisce con varie domande e obiezioni, cercando persino di tirarsi indietro.
L’episodio del roveto può essere suddiviso in cinque sequenze, ciascuna delle quali contiene un dialogo tra il Creatore e Moshè incentrato su un tema specifico:
- Dio si presenta e annuncia la Redenzione (3:6-10);
- Timore di Moshè e rassicurazione di Dio (3:11-12);
- Domanda di Moshè: “Qual è il tuo nome?”. Risposta di Dio (3:13-22);
- Obiezione di Moshè: “Non mi crederanno”. I tre segni (4:1-9);
- Sfiducia di Moshè. Dio gli affianca suo fratello Aharon (4:10-17).
Ebbene, secondo David Fohrman, è possibile riconoscere una corrispondenza tra queste cinque interazioni tra Dio e Moshè e i primi cinque Comandamenti del Decalogo, ossia quelli che regolano il rapporto tra Dio e l’uomo (bein adam laMakom).
1. “Io sono il tuo Dio”
Nel racconto del roveto, Dio inizia il suo discorso dicendo: “Io sono il Dio di tuo padre, il Dio di Avraham, il Dio di Yitzchak e il Dio di Yaakov” (3:6); e poi prosegue: “Ho visto l’afflizione del mio popolo che è in Egitto e ho udito il grido a causa dei suoi oppressori, poiché conosco i suoi affanni. Sono sceso per liberarlo dalla mano degli Egizi e per farlo salire da quella terra in una terra buona e spaziosa, in una terra in cui scorre il latte e il miele…” (3:7-8).
Davanti agli Israeliti redenti, Dio dichiara: “Io sono HaShem (Y-H-V-H), il tuo Dio, che ti ha fatto uscire dalla terra d’Egitto, dalla casa degli schiavi” (20:2).
In entrambi i brani, nel presentarsi, Dio si identifica come il liberatore di Israele. Nel primo caso, Dio annuncia di voler soccorrere gli Israeliti, mentre nel secondo la liberazione è già avvenuta, e la voce divina può menzionare l’uscita dall’Egitto come un fatto compiuto. Possiamo allora dire che il primo Comandamento rappresenti un’attestazione del fatto che il proposito di Dio si è adempiuto.
Benché entrambe le affermazioni si aprano con la stessa espressione (Anokhì – “Io sono”), subito dopo si nota una differenza: nel primo racconto, il Creatore si presenta come “il Dio di tuo padre” (Elohè avikha), mentre nel secondo Egli dichiara di essere “il tuo Dio” (Elohekha).
Ciò si spiega considerando che, prima dell’uscita dall’Egitto, il rapporto tra Israele e la sua Divinità era basato unicamente sul Patto stipulato con i patriarchi della Genesi. Ora, dopo la Redenzione, tale rapporto diviene più stretto, e HaShem può dichiarare di essere il Dio degli Israeliti, non solo dei loro antenati.
2. “Sarò con te”
La seconda sequenza del racconto del roveto ci mostra un Moshè insicuro che appare scettico e timoroso di accettare la propria missione:
E disse Moshè a Dio: «Chi sono io per andare dal Faraone e far uscire dall'Egitto i figli d'Israele?» E gli disse Dio: «Va', perché io sarò con te. Questo è per te il segno che sono io che ti ho mandato: quando avrai fatto uscire il popolo dall'Egitto, voi servirete Dio su questo monte» (3:11-12).
Nel Decalogo, il secondo Comandamento recita alla lettera: “Non ci saranno per te altri dèi dinanzi a me […] e non li servirete” (20:3-4). Quale potrebbe essere dunque il nesso tra questo divieto e le parole di rassicurazione rivolte in passato a Moshé?
Sul piano linguistico, i due brani sono accomunati dall’uso del verbo essere al futuro (“Io sarò con te” – “Non ci saranno per te altri dèi”), e dal verbo ‘avad, cioè “servire” (“Servirete Dio su questo monte” – “E non li servirete”). Ciò tuttavia non è abbastanza per stabilire che vi sia un legame.
Nella sua analisi, Rabbi Fohrman sostiene però che tra questi versi esista in realtà un nesso molto più profondo:
“Ancora una volta, la conversazione privata tra Dio e Mosè appare un presagio della conversazione nazionale tra Dio e il popolo d’Israele. Il testo precedente offre una sorta di fondamento logico del successivo, aiutandoci a capire perché l’idolatria sia proibita. […]
Se Dio si è impegnato ad “essere” con Mosè affinché il popolo potesse ottenere la sua libertà, sarebbe ridicolo per il popolo “essere” con altri dèi e diventare così nuovamente schiavi. Di più: sarebbe un tradimento” (D. Fohrman, Exodus, p. 101).
Secondo questa lettura, la frase “Non ci saranno per te (Lo yihièh lekhà) altri dèi” del secondo Comandamento ha dunque lo scopo di impedire al popolo di dissacrare la solenne affermazione di Dio “Sarò con te” (Ehyèh immakh). La proibizione dell’idolatria diviene così la salvaguardia di un rapporto reciproco, quel mutuo “esserci” che unisce Dio al suo popolo.
Potrebbe sembrare una forzatura, se non fosse che lo stesso identico concetto è espresso in modo chiaro in un altro passo della Torah. In riferimento al popolo ebraico, è scritto infatti: “HaShem lo guidò da solo, e non c’era con lui alcun dio straniero” (Deut. 32:12); ma gli Israeliti, rigettando questa relazione esclusiva con il Creatore, “lo hanno fatto ingelosire con dèi stranieri
e provocato con abomini all’ira” (32:16).
3. Il Nome di Dio
Molto più immediata e intuitiva è la connessione fra la terza sequenza del brano del roveto e il terzo Comandamento. Nella prima, infatti, Moshè chiede a Dio di rivelargli il suo nome affinché egli possa riferirlo agli Israeliti, mentre nel secondo troviamo il precetto di “Non innalzare invano il nome di HaShem, il tuo Dio” (Esodo 20:7).
Non bisogna dimenticare che il “nome”, nell’antica cultura biblica, rappresentava la natura e l’essenza, e conoscere una persona per nome equivaleva a instaurare con essa un rapporto molto stretto.
Se quindi il Creatore del mondo ha dato a Israele l’onore di “conoscerlo per nome“, cioè di fare esperienza della sua vicinanza e fedeltà, come potrebbero gli Israeliti profanare tale nome?
4. Segni dell’Esodo
Moshè esprime a questo punto un nuovo timore: “Ecco, non mi crederanno, non ascolteranno la mia voce, ma diranno: Non ti è apparso HaShem!” (4:1). Dio risponde fornendogli tre “segni” (otot), ossia tre prodigi da compiere dinanzi agli Israeliti per dimostrare loro che “HaShem aveva visto la loro afflizione” (4:31).
Se la teoria che stiamo illustrando fosse corretta, questa sequenza del racconto del roveto dovrebbe corrispondere al quarto Comandamento: “Ricorda il giorno dello Shabbat per santificarlo” (20:8). Ma quale attinenza si può cogliere tra i tre prodigi operati da Moshè e lo Shabbat?
In Esodo 31:13, Dio spiega agli Israeliti: “Lo Shabbat è un segno (ot) tra me e voi, per le vostre generazioni, perché si sappia che io sono HaShem che vi santifica”.
Secondo la versione dei Dieci Comandamenti riportata nel Deuteronomio, il precetto del riposo dello Shabbat trae la sua origine dall’uscita dall’Egitto: “Ricordati che sei stato schiavo nella terra d’Egitto e che HaShem, il tuo Dio, ti ha fatto uscire di là con mano potente e braccio disteso. Perciò HaShem, il tuo Dio, ti ordina di osservare il giorno di Shabbat” (Deut. 5:15).
Alla luce di ciò, anche in questo caso emerge lo stesso meccanismo di reciprocità che abbiamo notato analizzando le altre sequenze: come Dio ha fornito a Israele dei “segni” che preannunciavano l’imminente liberazione dall’Egitto, così Israele deve a sua volta osservare un “segno” per testimoniare l’avvenuta liberazione.
5. “Chi ha dato la bocca all’uomo?”
L’ultima obiezione di Moshè nel brano del roveto ardente riguarda la sua scarsa abilità come oratore. Egli si ritiene incapace di parlare in modo fluido ed eloquente, perciò palesa con umiltà questo suo limite dinanzi all’apparizione divina:
E disse Moshè ad HaShem: «Oh, mio Signore, io non sono un uomo abile con le parole, non lo ero ieri, né il giorno prima, né da quando hai parlato al tuo servo, perché sono pesante di bocca e pesante di lingua». E gli disse HaShem: «Chi ha dato la bocca all'uomo? Chi lo rende muto, sordo, vedente o cieco? Non sono forse io, HaShem? E ora vai, io sarò con la tua bocca e ti insegnerò cosa dire» (Esodo 4:10-12).
Il quinto Comandamento, a cui questo brano dovrebbe corrispondere in base allo schema che abbiamo proposto, è “Onora tuo padre e tua madre, affinché si prolunghino i tuoi giorni nella terra che HaShem, il tuo Dio, ti dà” (20:12).
Leggendo i due testi in italiano, non sembrerebbe esistere fra essi alcun collegamento. In lingua originale, però, si riscontra una curiosa affinità nel lessico utilizzato: in ebraico, il verbo onorare è kavad, il cui significato letterale è “essere pesante”. La stessa parola è usata da Moshè quando si definisce “pesante (kevad) di bocca e pesante di lingua”.
Andando oltre questo semplice parallelismo lessicale, Rabbi Fohrman spiega che Dio, nel rivendicare di essere Colui che “dà la bocca all’uomo” e che gli assegna capacità e debolezze, si descrive qui come creatore, o addirittura come genitore. Egli infatti non solo forma l’essere umano conferendogli caratteristiche specifiche, ma si propone anche di “insegnargli” come agire, di guidarlo, venendo incontro alle debolezze della propria creatura e incoraggiandola a superare i suoi limiti.
Si deve a questo proposito ricordare che, nella tradizione ebraica, il Comandamento di onorare i genitori è annoverato tra i precetti relativi al rapporto tra l’uomo e Dio, poiché il padre e la madre sono “creatori” insieme all’Altissimo, e l’obbligo di onorarli deriva da quel “rapporto verticale” che unisce l’individuo a Dio.
Una visione inedita del Sinai
L’interpretazione che abbiamo esposto in questo articolo si fonda in parte su basi molto solide, come i numerosi parallelismi che è difficile ignorare, e in parte su deduzioni più soggettive. Ciò che tuttavia ne viene fuori, nel complesso, è una visione suggestiva e originale dei Comandamenti e dell’esperienza del Sinai.
Dio non si limita a comandare dall’alto, ma assume su di sé degli impegni nei confronti degli Israeliti. Si impegna a redimerli dalla loro afflizione (1); ad essere con loro (2); a farsi conoscere per nome (3); a dimostrare con segni tangibili il suo sostegno (4); e ad assisterli nelle debolezze che Egli stesso gli ha dato (5).
Di riflesso, gli Israeliti si impegnano a riconoscere Dio come loro redentore (1); a non volgere altrove la loro adorazione (2); a rispettare il suo nome (3); a dimostrare con un segno tangibile la loro fedeltà (4); e a onorare chi trasmette loro pregi e debolezze (5).
Da questa prospettiva, i Comandamenti non sono quindi concepiti come semplici imperativi ispirati dal rigore e dall’intransigenza, ma come elementi di un rapporto reciproco e intenso tra la Divinità e i suoi figli.
Infatti, per questo sono la roccia dura sulla quale si fonda il sistema etico umano. Sono le regole di base. Credi in Dio; onoralo in pratica; rispetta i tuoi genitori; rispetta la vita umana; controlla i tuoi impulsi sessuali (adulterio); non rubare; non mentire; e non permetterti fantasie contrarie a questi principi.
Ma la domanda delle domande è: la leggenda di Mosè ha un fondo di verità e storicità o è solo un mito? Anche perchè non dimentichiamolo la stesura di Genesi avviene alla luce della fede mosaica e non viceversa, e che tale figura sia stata talmente rielaborata da renderci impossibile distinguere i dettagli reali da quelli leggendari… come la vedi tu in proposito?
Per me quelle narrate nella Torah non sono di certo storie di fantasia, ma neppure resoconti storici. Diciamo che è una sorta di lettura teologica della storia presentata in maniera spesso poetica.
Caro redattore, il problema vero è questo, non sapere se credere o non credere a ciò che è scritto, e come interpretare la Bibbia. Ma se vuoi posso rispondere io ad Antonella, sempre se poi mi leggerà… e non mi risponderà male….Gli ebrei liberati dall’Egitto hanno visto tutto, più di Adamo in paradiso, avendo assistito a tutti i prodigi e miracoli fatti da Dio, eppure non sono entrati nella terra promessa. Hanno inventato i miracoli gli ebrei, eppure non sui miracoli si basa la loro fede, ma sull’ascolto di una voce silente, così come quella voce seguivano i patriarchi, non avendo mai assistito a nessun miracolo, come a nessun miracolo hanno assistito Giuseppe e Davide. In verità a un solo miracolo hanno assistito i patriarchi, alla nascita di un figlio. Perché la potenza di Dio non sta nei miracoli mi verrebbe da dire, ma nel tener fede alla sua parola e alle sue promesse, per sempre e nei secoli, perché è la sua parola ad essere per sempre stabile nei cieli. Ma sono tutte cose che vi ho detto già, e mi chiedo perché ripeterle, visto che voi seguite un’altra parola, quella frutto del pensiero umano. Ma se vuoi un consiglio, per risolvere ogni dilemma riguardo alla Bibbia, se sia tutto vero , o solo mito e leggenda, prendila in tutto come una favola per bambini, ma rapportati ad essa come un bambino si rapporta di fronte ad una favola. Prendi ad esempio l’episodio di Davide e Golia, famoso in tutto il mondo. Non si sa se è favola e realtà, ma il ragazzo di piazza Tienammen, ha fatto come Davide contro Golia, sfidandolo solo armato del proprio cuore. Nella favola ha vinto Davide, ma nella realtà ha vito Golia sembra, perché è morto quel ragazzo, ma tutto sta nel capire i confini fra favola e realtà. Come gli ebrei a corna, quando tradendo Dio e Mosè, dissero che quella terra divorava i suoi abitanti, nonostante era buona come aveva promesso il Signore. Divora o non divora la terra promessa? Mi sembra che te l’ho fatta già questa domanda, ma non mi hai risposto. Gli studiosi direbbero che questo passo è stato scritto durante l’esilio di Babilonia, conoscendo già gli eventi della distruzione del tempio e la conseguente diaspora. L’hanno scritta con il senno di poi la Bibbia, dicono gli studiosi, ma come sai il tempio è stato distrutto anche dopo che l’hanno scritto, avendo divorato di nuovo gli abitanti quella terra. Ed ancora oggi purtroppo è così, essendoci sempre il rischio, e sempre per il medesimo motivo, perché tutto è legato al tempio e al sacerdozio. Ma oramai tutti pensano al tempio e nessuno più crede nel sacerdozio, neanche i cristiani avendo purtroppo loro seguiti gli ebrei, o meglio il pensiero dei rabbini o dei filosofi e sapienti. Ma se togli il sacerdozio dalla Bibbia, cosa resta? E se togli i miracoli cosa resta? ma riguardo ai miracoli contano solo due, il primo e l’ultimo: la creazione del mondo e della vita, e la resurrezione dai morti per il trionfo della vita eterna. Stammi bene