Il Libro del Levitico (Vayikrà), all’interno del capitolo dedicato alle feste ebraiche, ordina di compiere un certo rito all’inizio del periodo della mietitura del grano:
E parlò HaShem a Moshè dicendo: «Parla ai figli d'Israele e di' loro: Quando sarete entrati nella terra che io vi dò e ne mieterete la messe, porterete al sacerdote un omer, come primizia del vostro raccolto. Il sacerdote agiterà l'omer con gesto rituale davanti ad HaShem, in vostro favore; il sacerdote l'agiterà il giorno dopo lo Shabbat. [...] Non mangerete pane, né grano abbrustolito, né spighe fresche, prima di quel giorno, prima di aver portato l'offerta al vostro Dio. È un decreto perenne per le vostre generazioni, in tutti i luoghi dove abiterete (Levitico 23:9-14).
La parola òmer (spesso tradotta con “covone”), menzionata in questi versi, si riferisce a un’antica unità di misura, usata più volte nella Bibbia per indicare una modesta quantità di cereali o altri tipi di cibo.
Secondo il Levitico, come abbiamo appena letto, all’inizio di una nuova mietitura, agli Israeliti era proibito mangiare il grano appena raccolto fino a che non ne offrivano una piccola porzione (un omer, appunto) “davanti a Dio”, ossia nel Santuario. Ciò avveniva durante la festa di Pesach, la pasqua ebraica (per esattezza, secondo l’esegesi rabbinica, il giorno dopo il sacrificio pasquale).
Oltre a essere un requisito indispensabile per poter consumare il grano del nuovo anno, l’offerta dell’omer era importante anche per un altro motivo: essa segnava l’inizio di un periodo di sette settimane (vedi Levitico 23:15) al termine del quale si celebrava la festività della mietitura, Shavuòt (Pentecoste), ricordata dalla tradizione rabbinica come la “Festa del Dono della Torah” in quanto anniversario della Rivelazione sul Sinai.
Benché il rito dell’omer non sia più stato praticato dopo la distruzione del Tempio, nell’Ebraismo si osserva tuttora il precetto del “Conteggio dell’Omer” (Sefirat HaOmer), che prevede di contare verbalmente (attraverso un’apposita benedizione) le sette settimane tra Pesach e Shavuot.
Ma perché la Torah, invece di limitarsi a fornire le date delle due feste, comanda agli Israeliti di “contare” i giorni che intercorrono tra Pesach e Shavuot? E qual è il nesso tra questo conteggio e l’offerta dell’omer nel Santuario?
Il senso del precetto
Rabbi David ben Yosef Abudraham (XIV secolo) interpreta questa legge della Torah concentrandosi sull’importanza del periodo della mietitura, cruciale in ogni società agricola, e sulle sue conseguenze spirituali:
“Poiché il mondo si trova in difficoltà tra Pesach e Shavuot a causa del grano e degli alberi, […] Egli ci ha comandato di contare i giorni, in modo da poterci ricordare dell’angoscia del mondo e ritornare a Lui con tutto il cuore e supplicarlo davanti a Lui di avere misericordia di noi e delle creature e del mondo, e [pregare affinché] il grano sia sufficiente, poiché esso è la fonte della nostra esistenza, e se non c’è farina non c’è Torah” (Sefer Adudraham, Tefillot Pesach).
Il Conteggio dell’Omer avrebbe dunque lo scopo di portare l’uomo a riflettere sulla situazione precaria in cui il mondo si trova in questo periodo dell’anno, in modo da incoraggiarlo a pregare che la mietitura del grano, da cui dipende il sostentamento dell’umanità, sia sufficiente.
Maimonide (XII secolo), nella sua Guida dei Perplessi, offre una spiegazione differente che rende il precetto valido e significativo anche al di fuori del contesto agricolo:
“Si contano i giorni dalla prima delle feste [Pesach] fino alla seconda [Shavuot], come fa chi aspetta l’arrivo della persona che ama di più e conta perciò i giorni e le ore. Questa è la ragione per il Conteggio dell’Omer dal giorno in cui [gli Ebrei] lasciarono l’Egitto fino al giorno del Dono della Torah, che fu lo scopo e il fine della loro partenza” (Guida dei Perplessi, 3, 43).
L’Esodo dall’Egitto, evento commemorato dalla festa di Pesach, rappresenta per Maimonide l’inizio di un processo che ha il suo culmine con l’arrivo degli Ebrei al Monte Sinai e con la Rivelazione dei Comandamenti. Per questo motivo la Torah, come sostiene anche il Sefer HaChinukh, esorta ogni Ebreo a esprimere il suo desiderio per il compimento di tale processo attraverso il conteggio delle sette settimane.
Questa interpretazione del precetto, per quanto coerente sul piano religioso, sembrerebbe però allontanarsi dall’intento originario del testo biblico poiché le Scritture, al contrario della tradizione rabbinica, non presentano mai Shavuot come “la Festa del dono della Torah” e non la pongono in relazione agli eventi del Sinai, ma soltanto alla mietitura.
Analizzando più da vicino ciò che la Bibbia ha da dirci sull’offerta dell’omer, possiamo tuttavia scoprire una sorprendente attinenza delle parole di Maimonide con la visione biblica di queste festività, apprendendo persino un’importante lezione sul rapporto tra Dio e l’uomo.
La prima menzione dell’Omer
La prima volta in cui compare nella Torah, il termine omer non è impiegato in riferimento al grano, bensì alla manna, la misteriosa sostanza che Dio fornì agli Israeliti per nutrirsi nel deserto, dopo l’uscita dall’Egitto. Il testo riporta:
E Moshè disse loro: «Questo è il pane che HaShem vi ha dato da mangiare. Ecco che cosa comanda HaShem: Raccoglietene quanto ciascuno può mangiarne, un omer a testa, secondo il numero delle persone con voi. Ne prenderete ciascuno per quelli della propria tenda» (Esodo 16:15-16).
Perché mai ciò dovrebbe essere rilevante? In fondo, il fatto che la stessa unità di misura compaia in entrambi i casi non indica che ci sia un legame tra i due brani.
Eppure, il racconto della prima discesa della manna in Esodo 16 presenta un’interessante affinità con quanto la Torah prescrive a proposito della mietitura. Subito dopo i precetti dell’offerta dell’omer e della festa di Shavuot, il Levitico afferma infatti:
Quando mieterete la messe della vostra terra, non mieterai fino ai margini il tuo campo e non raccoglierai le spighe lasciate indietro del tuo raccolto: le lascerai per il povero e per lo straniero. Io sono HaShem, il vostro Dio (Levitico 23:22).
Nel deserto, ciascun Israelita poteva raccogliere (in ebraico il verbo è lakat) solo la quantità di manna sufficiente per sé e per la propria famiglia, in modo da non privare gli altri di questo nutrimento; similmente, agli Israeliti è comandato di non raccogliere (ancora il verbo lakat) più grano di quanto necessario, per lasciarne una parte agli indigenti.
La logica è insomma la stessa: la raccolta del grano, come quella della manna, è presentata nella Torah come un’esperienza egualitaria volta a educare la coscienza morale del popolo, ponendo un limite all’approvvigionamento egoistico del cibo.
Il parallelismo è rafforzato anche da un altro elemento. Secondo il brano del Levitico citato all’inizio, l’offerta dell’omer doveva avvenire “dopo (macharat) lo Shabbat” (23:12). Nel racconto della manna, Moshè dice al popolo: “Domani (machar) è Shabbat, riposo sacro per HaShem” (Esodo 16:23).
Sembra allora che la Torah intenda descrivere la mietitura del grano come una “nuova versione” della manna, accostando il nutrimento che nasce dalla terra a quello che giungeva invece dal cielo. Non è quindi un caso che la manna sia definita proprio “il pane che HaShem vi ha dato” (16:15).
L’insegnamento che viene così trasmesso ci permette di comprendere il senso del precetto biblico dell’omer: fino a quando il popolo era accampato nel deserto, mantenendosi in vita grazie a un cibo che scendeva dall’alto, era più facile per gli Israeliti percepire la loro dipendenza da Dio e avvertire la presenza del Creatore in mezzo a loro.
Con l’insediamento nella terra promessa, però, la situazione cambia: ora il popolo deve darsi da fare, coltivare i campi, lavorare con asprezza per ottenere il cibo. In questo nuovo contesto, l’uomo è condotto a illudersi di avere il controllo del proprio destino, di fabbricarsi da solo i mezzi di sussistenza, dimenticando Dio.
Per questo motivo, la Torah comanda di portare al Santuario la prima porzione della mietitura, presentandola davanti alla Divinità, riconoscendo così che anche questo cibo ottenuto con fatica, spuntato dal suolo e non venuto giù dal cielo, è in realtà un dono del Creatore, e deve pertanto essere ricevuto con gratitudine.
A questo proposito, si deve ricordare che il dono della manna era stato elargito dopo l’uscita dall’Egitto, ma prima dell’arrivo al Monte Sinai. Secondo il testo, l’esperienza della manna rappresentava una prova per gli Israeliti, con lo scopo di verificare, come dice la voce divina, “se il popolo cammina secondo la mia legge oppure no” (16:4).
Tale prova anticipa la Rivelazione della Torah mettendo per la prima volta il popolo ebraico di fronte a delle norme (il divieto di raccogliere manna in eccesso, di conservarla per oltre un giorno e di uscire a raccoglierla nel giorno di Shabbat) e preparandolo così al grande evento del Sinai.
Allo stesso modo, l’offerta dell’omer, in quanto rievocazione della manna, deve avvenire tra la festa che commemora l’Esodo (Pesach) e l’anniversario della Rivelazione dei Comandamenti (Shavuot).
Le sette settimane dell’omer sono quindi intese, nel testo biblico prima ancora che nelle fonti rabbiniche, come un periodo di preparazione e di crescita tra la fine della schiavitù e il solenne incontro con Dio e con la sua Legge.
La fine della manna
Tutto ciò che abbiamo detto finora trova un’interessante conferma in un brano del Libro di Giosuè, dove si narra della prima volta in cui il popolo d’Israele consumò il grano della terra promessa:
I figli d'Israele si accamparono a Ghilgal e celebrarono Pesach il quattordicesimo giorno del mese, al tramonto, nelle pianure di Gerico. Il giorno dopo Pesach mangiarono dei prodotti del paese, pane azzimo e grano arrostito, in quello stesso giorno (Giosuè 5:10-11).
Perché gli Israeliti dovettero attendere “il giorno dopo Pesach” per assaggiare “pane azzimo e grano arrostito” della Terra di Kenaan? Alla luce delle leggi del Levitico, la risposta è chiara: per poter usufruire dei frutti della mietitura era necessario compiere prima l’offerta dell’omer, e questa avveniva, come sappiamo, proprio il giorno dopo la celebrazione pasquale.
A questo punto, il racconto di Giosuè ci informa del fatto che “il giorno dopo che ebbero mangiato dei prodotti del paese, la manna cessò. Così i figli d’Israele non ebbero più manna” (5:12).
La prima offerta dell’omer della storia d’Israele coincide dunque con la fine della manna. E non è certo un caso: il nutrimento che arriva dall’alto cede in questo modo il posto alla mietitura e ai prodotti della terra, segnando l’inizio di una nuova fase per la nazione ebraica. Ma grazie al precetto del Conteggio dell’Omer, Israele può ricordare ogni anno che anche il grano, come la manna, proviene da Dio, e che la mietitura non va celebrata esaltando il lavoro umano o dando sfogo a desideri egoistici, ma ripercorrendo la via spirituale che conduce ai piedi del Sinai.
Bravo
Amico mio , non scrive e non commenta più nessuno qui. E la mia proposta non l’hai accettata per cercare di ravvivare il sito