Tempo fa abbiamo dedicato una serie di articoli al celebre quanto enigmatico Libro di Daniele, esaminando in particolare il sogno della statua del re di Babilonia, la visione del montone e del capro e quella delle quattro bestie. Non potevamo però concludere la nostra analisi senza occuparci della famosa profezia delle “settanta settimane”, fonte di molte teorie e dibattiti millenari.
La profezia è contenuta nel capitolo 9, all’interno di un racconto in cui il saggio Daniel rivolge un’accorata preghiera a Dio, confessando i peccati di Israele e chiedendo la restaurazione di Gerusalemme. Mentre sta ancora pregando per il suo popolo, Daniel riceve la visita inattesa di un emissario divino, Gavrièl, che gli annuncia una rivelazione in merito a ciò che avverrà in futuro. Riportiamo il testo traducendolo il più possibile alla lettera:
Fa' dunque attenzione alla parola e intendi la visione: Settanta settimane sono fissate per il tuo popolo e per la tua santa città, per fermare la trasgressione, per sigillare il peccato, per espiare l'iniquità, per portare giustizia perpetua, per sigillare visione e profeta e per ungere il Santo dei Santi.
E sappi e comprendi: da quando è uscita la parola per restaurare e ricostruire Gerusalemme, fino a un principe unto, [ci saranno] sette settimane. E [in] sessantadue settimane sarà restaurata e ricostruita, strade e mura, ma in tempi angosciosi.
E dopo le sessantadue settimane, un unto sarà reciso, e non a lui. E il popolo di un principe che verrà distruggerà la città e il santuario. La sua fine [sarà] con un'inondazione, e fino alla fine [ci saranno] guerre e desolazioni decretate.
Ed egli stabilirà un patto con molti, una settimana, e a metà settimana farà cessare il sacrificio e l'offerta, e sull'ala [ci saranno] abominazioni del devastatore, finché tutto ciò che è stabilito si riverserà sulla devastazione (9:23-27).
Secondo le parole del messaggero Gavriel, questa rivelazione aveva lo scopo di chiarire le idee di Daniel permettendogli di “essere istruito” e di “intendere” (9:22). Agli occhi dei lettori, però, questi quattro versi, con il loro linguaggio criptico e le molte espressioni vaghe, sembrano invece portare molta confusione.
Ciò che risulta più evidente è il fatto che il testo non si riferisca qui a delle comuni settimane composte da sette giorni, ma a periodi molto più lunghi in cui avranno luogo eventi cruciali per la storia di Israele. Secondo l’opinione quasi universalmente accettata, si tratta di “settimane di anni”, dunque di 490 anni.
Con l’aiuto di questo schema, ci proponiamo di esaminare il testo obiettivamente per cercare di ricostruire al meglio il suo significato.
Prima, però, vogliamo occuparci dell’interpretazione più conosciuta, quella su cui è più facile imbattersi, in particolare su internet: quella proposta dalla tradizione cristiana, che vede le settanta settimane come una predizione incredibilmente accurata della venuta di Gesù Cristo e della sua morte.
Benché sia stata rigettata dal mondo accademico, questa teoria è ancora molto diffusa, ed è presentata da alcuni movimenti religiosi come una prova decisiva della veridicità della fede cristiana. Vale la pena allora discuterne e mettere alla prova la sua fondatezza.
Settanta settimane: la lettura cristologica
Tra coloro che scorgono in questo brano di Daniele un annuncio relativo alla vita e alla morte di Gesù, non esiste un parere unanime su ogni dettaglio della profezia: per alcuni, le settanta settimane si sono compiute nel 70 e.v., con la distruzione del Tempio di Gerusalemme ad opera dei Romani; secondo altri, solo sessantanove settimane hanno già trovato il loro adempimento, mentre l’ultima, la settantesima, è separata dalle precedenti e si compirà soltanto alla fine dei tempi.
Malgrado questa divergenza di opinioni, tutti concordano nel ritenere che la frase “Dopo le sessantadue settimane, un unto sarà reciso” (9:26) si riferisca alla crocifissione di Gesù, avvenuta intorno al 30 e.v. (la data esatta non è nota).
Per dare forza a tale interpretazione, alcune edizioni della Bibbia (Nuova Diodati, TNM) traducono il termine “unto” (mashìach) con un’espressione inequivocabile: “Il Messia“, ponendo l’articolo determinativo (e pure l’iniziale maiuscola), che non è presente nel testo ebraico.
Per far sì che l'”unto” ucciso nella sessantanovesima settimana possa essere identificato con il Nazareno, è necessario far partire la profezia circa 483 anni (69 settimane) prima della data approssimativa della morte di Gesù.
Per questo motivo, l’interpretazione cristologica sostiene che “la parola per restaurare e ricostruire Gerusalemme” che dà inizio alle settanta settimane sia da intendere come un decreto che permetteva la ricostruzione della città santa. Precisamente, si fa riferimento all’editto di Artaserse (457 a.e.v. circa), con cui il re di Persia permise al suo coppiere giudeo Nechemyah di recarsi a Gerusalemme per restaurare le mura della città e risollevarne le sorti (Neemia 2:5-8).
Se quindi le settanta settimane hanno inizio intorno al 457 a.e.v., la morte dell’unto potrà collocarsi nel I secolo, circa nel 30 e.v., cioè 69 settimane dopo l’editto di Artaserse. Questa, per alcuni esegeti cristiani, è una prova schiacciante del fatto che Daniel abbia previsto con precisione la crocifissione di Gesù molti secoli prima che avvenisse.
Una simile interpretazione risulta tuttavia insostenibile per diverse ragioni che ci apprestiamo a illustrare.
Innanzitutto, se si vuole davvero identificare “la parola per ricostruire Gerusalemme” con qualche decreto reale, la scelta non dovrebbe ricadere sull’editto di Artaserse, ma su quello emanato ottant’anni prima dal suo predecessore Ciro. Fu quest’ultimo, infatti, a far adempiere la promessa divina sul ritorno in patria degli Ebrei dopo l’esilio a Babilonia e sulla restaurazione della città santa, come racconta il libro di Esdra:
Nel primo anno di Ciro, re di Persia, affinché si adempisse la parola del Signore pronunciata per bocca di Geremia, il Signore destò lo spirito di Ciro, re di Persia, perché facesse un editto per tutto il suo regno e lo mettesse per iscritto, dicendo: Così dice Ciro, re di Persia: il Signore, il Dio dei cieli, mi ha dato tutti i regni della terra. Egli mi ha comandato di edificargli una casa a Gerusalemme, che è in Giuda. Chi di voi appartiene al suo popolo? Il Signore, il suo Dio, sia con lui; salga a Gerusalemme, che è in Giuda, e ricostruisca la casa del Signore, Dio d'Israele, il Dio che è a Gerusalemme. (Esdra 1:1-3).
Secondo il libro di Isaia, Ciro (e non Artaserse) sarebbe stato colui che avrebbe detto a Gerusalemme: “Sarai ricostruita!”, e al Tempio: “Sarai stabilito!”» (Isaia 44:28). L’editto di Artaserse, permettendo di riedificare le mura della città, contribuì certamente alla restaurazione della capitale ebraica, ma in maniera del tutto secondaria rispetto alla portata profetica dell’editto di Ciro. Eppure, allo scopo di “far tornare i conti” con l’interpretazione cristologica, molti ignorano del tutto questo dato scritturale.
Inoltre, tradurre il termine mashiach con “Il Messia” è una scelta senza dubbio fuorviante che impone ai lettori una certa comprensione del testo. Nella Bibbia ebraica, mashiach è un aggettivo generico che significa “unto”, e quindi “consacrato”, e si riferisce a qualsiasi persona unta con olio sacro, in particolare i sacerdoti (Levitico 4:3; 6:22) e i re (1 Samuele 2:10). Soltanto in epoca post-biblica, al tempo della dominazione romana, il termine cominciò a essere usato con un significato escatologico, in riferimento al liberatore finale di Israele inviato da Dio.
Per questi motivi, anche molti studiosi cristiani non accettano oggi la tradizionale interpretazione cristologica, che è invece tuttora difesa con forza dalle correnti più tradizionaliste del mondo protestante.
Il contesto: la redenzione di Israele
Esiste forse un modo per decifrare la profezia delle settanta settimane senza travisare il testo? Come sempre, il primo passo è tenere conto del contesto di cui questi misteriosi versi fanno parte. È necessario insomma chiedersi: qual è il vero tema del brano? Di che cosa parla questo capitolo?
Come abbiamo anticipato all’inizio, nel momento in cui Gavriel giunge ad annunciare il suo messaggio, Daniel è intento a pregare per il suo popolo. Il racconto, come ci viene detto espressamente, si svolge “nel primo anno di Dario, della stirpe dei Medi” (9:1), ossia, secondo la cronologia del libro, nell’anno della caduta di Babilonia (vedi Daniele 5:31).
Non si tratta di un caso: grazie alle parole del profeta Geremia, che Daniel stava studiando proprio in quel momento (9:2), egli sapeva che la “desolazione di Gerusalemme” sarebbe durata settant’anni. Ora, con la caduta dell’impero babilonese, anch’essa predetta dai profeti, Daniel spera che quel tempo stia per finire, e che le sorti di Israele stiano per subire una svolta favorevole.
Ma la redenzione che egli attende con fiducia non è ancora giunta. Daniel sembra preoccuparsi: forse teme che i piani di Dio siano cambiati poiché il popolo non si è dimostrato degno di essere riscattato. Per questo prega Dio dicendo: “Abbiamo peccato e abbiamo agito perversamente, siamo stati malvagi e ci siamo ribellati, allontanandoci dai tuoi comandamenti e dai tuoi decreti” (9:5).
Dopo aver confessato i peccati della nazione, egli chiede al Creatore di avere misericordia: “Fa’, ti prego, che la tua ira e il tuo furore si allontanino da Gerusalemme, la tua città, il tuo monte santo” (9:16); e gli chiede infine di “non tardare” (9:19), cioè di far adempiere le promesse di redenzione nei tempi previsti. È a questo punto che appare l’angelo, con il dichiarato intento di offrire “comprensione” a Daniel, ovvero di permettergli di capire ciò che Dio ha in serbo per il suo popolo.
Tu, Daniel – dice il messaggero divino – pensi che la redenzione giungerà dopo settant’anni di dominazione babilonese. Ma ecco, devi sapere che i settant’anni di cui parlava Geremia sono solo l’inizio di un processo più lungo. Per espiare i vostri peccati – quelli che hanno causato la vostra rovina – per far placare l’ira di Dio e farvi riacquistare l’onore che avete perduto, ci vorranno ben 490 anni, cioè sette volte settanta, e solo allora potrete riconsacrare il Luogo santissimo e vedere l’adempimento delle visioni.
Il punto di partenza
Quando inizia dunque il conto delle settanta settimane? In base al contesto, come abbiamo appena visto, si può dedurre che questa profezia sia strettamente connessa a quella di Geremia sui settant’anni di dominio di Babilonia (Geremia 29:10).
Nella frase “da quando è uscita la parola per restaurare e ricostruire Gerusalemme”, la “parola” (davar) in questione sembra essere proprio la parola profetica annunciata da Geremia, il cui tema era la restaurazione di Gerusalemme. Nel già citato brano di Esdra, tale profezia è chiamata proprio “la parola (davar) del Signore pronunciata per bocca di Geremia”. E soprattutto, anche in Daniele 9:2 si fa riferimento alla profezia di Geremia con l’espressione devar HaShem, la “parola di Dio”.
A conferma di ciò, si noti che il testo di Daniele usa in questo caso il tempo passato: la parola “è uscita”, non “uscirà”. Perciò si parla qui di un evento già avvenuto, che si era cioè già verificato nell’anno della caduta di Babilonia, quando Daniel rivolse la sua preghiera.
Il principe unto, l’unto ucciso e il principe non unto
Uno degli elementi che complicano la comprensione del brano è rappresentato dal fatto che il testo menziona tre personaggi chiamati in modo molto simile: il primo è un “principe unto” (mashiach naghid); il secondo è un “unto” (mashiach), ma non è un principe (naghid); mentre il terzo è un “principe” (naghid), ma non è un “unto” (mashiach).
Le settanta settimane sono quindi suddivise in tre periodi, ciascuno dei quali è incentrato su uno dei tre personaggi:
- Primo periodo (sette settimane): compare il principe unto.
- Secondo periodo (sessantadue settimane): compare l’unto, che viene “reciso” o “estirpato”. Il testo usa qui l’espressione “e non a lui” (veEn lo), che in ebraico si può intendere come “e non avrà nulla”, o “non gli resterà nulla”.
- Terzo periodo (una settimana): compare il principe (non unto, non consacrato), un personaggio negativo che distrugge il Tempio e compie abominazioni, ma alla fine sarà colpito da una rovina come “un’inondazione”.
Non ci resta allora che interrogarci sull’identità dei tre personaggi e provare così a capire a quali eventi storici alluda realmente il brano.
A questo proposito, è necessario tenere conto del fatto che il capitolo 9 di Daniele fa parte della parte ebraica del libro, che comprende il primo capitolo e gli ultimi cinque (8-12). Come abbiamo spiegato nella conclusione del nostro articolo sulla visione delle quattro bestie, le profezie contenute in questa sezione del testo trattano dell’ascesa e il declino del regno di Persia, della persecuzione antiebraica di Antioco Epifane e della grande rivolta dei Maccabei. Il libro ritorna a più riprese e con immagini differenti su questi stessi eventi, rivelando ogni volta dettagli nuovi.
È ragionevole presumere allora che anche la profezia delle settanta settimane riguardi lo stesso periodo storico. Se è così, chi sarebbe dunque il “principe unto” che giunge dopo le prime sette settimane? Rashi e molti studiosi moderni ritengono che si tratti di Ciro di Persia, poiché in Isaia 45:1 Dio si rivolge a questo sovrano chiamandolo “Il mio unto” (mashiach). Fu lui infatti, come abbiamo visto, a far adempiere “la parola per restaurare e ricostruire Gerusalemme”.
Dopo l’avvento di Ciro, Gerusalemme fu gradualmente ricostruita e ripopolata, ma “in tempi angosciosi” (Daniele 9:25): i libri di Esdra e Neemia ci raccontano delle grandi difficoltà affrontate dagli Ebrei ritornati da Babilonia, con i lavori di riedificazione del Tempio che furono interrotti più volte e le angherie delle popolazioni vicine, che si opponevano alla rinascita della nazione ebraica.
L’unto che viene reciso “e non avrà nulla” sarebbe allora da identificare con Onia III, il sommo sacerdote che fu ingiustamente privato della sua carica da Antioco Epifane e fu poi trucidato dal governatore siro Andronico a causa della sua opposizione all’ellenismo. Onia era noto per essere un uomo giusto e fedele alla Torah, perciò la sua morte fu seguita da un grande lutto da parte degli Ebrei e anche di alcuni Greci.
Il principe che distrugge la città e il Santuario non può quindi che essere Antioco Epifane, colui che devastò Gerusalemme e profanò il Tempio ponendo “abominazioni” nel luogo sacro. Ciò è confermato dal primo libro dei Maccabei, che riprendendo il linguaggio usato da Daniele ci informa che “il re [Antioco] pose sull’altare l’abominio della desolazione“ (1 Maccabei 1:54).
Antioco fece anche “un patto con molti” (Daniele 9:27), rivolgendo agli Ebrei “parole di pace” (1 Maccabei 1:30) per poi tradire la loro fiducia compiendo stragi e imponendo l’interruzione dei riti nel Tempio (“farà cessare sacrificio e oblazione”), che ripresero solo con la sconfitta dei Greco-siriani, circa tre anni e mezzo dopo (“metà settimana”).
Il trionfo dei Maccabei su Antioco consentì al popolo ebraico di riconquistare quella tanto sognata indipendenza che Israele aveva perduto secoli prima, al tempo dell’esilio a Babilonia. Agli occhi degli Ebrei, questa vittoria rappresentò il ritorno del favore divino, la fine di un lungo periodo di sofferenza e il compimento delle profezie di redenzione.
Le date coincidono?
L’interpretazione che abbiamo appena proposto risulta coerente con il contesto del brano (la preghiera di Daniel sul ritorno dall’esilio e il riscatto del suo popolo), oltre che con le altre visioni della parte ebraica del libro, tutte relative a eventi che culminano con la vittoria dei Maccabei. Che dire però delle date? La suddivisione delle settanta settimane corrisponde davvero al periodo storico da noi indicato?
Il seguente schema ci aiuterà a capirlo:
Daniele 9:24-27 | Eventi storici |
---|---|
La parola per ricostruire Gerusalemme | Profezia di Geremia sulla ricostruzione di Gerusalemme |
7 settimane (49 anni) | 587 – 538 a.e.v. (49 anni) |
Arrivo del “principe unto” | Ciro di Persia, “unto di Dio” (Isaia 45:1) |
62 settimane (434 anni) | 538 – 171 a.e.v. (367 anni) |
Unto ucciso Gerusalemme devastata Il principe compie abominazioni Cessazione dei sacrifici Fine del devastatore | Assassinio di Onia Gerusalemme devastata Antioco profana il Tempio Interruzione dei sacrifici Sconfitta di Antioco |
Settantesima settimana (7 anni) | 171 – 164 (7 anni) |
Come si può notare, se consideriamo che Geremia pronunciò la sua “parola” poco dopo la distruzione del Tempio, per quanto riguarda il primo periodo (49 anni) e l’ultimo (7 anni), si ottiene una piena corrispondenza tra gli eventi predetti nella profezia e l’adempimento che abbiamo proposto.
Lo stesso tuttavia non si può dire a proposito del periodo centrale, dove gli eventi che secondo Daniel si sarebbero dovuti verificare nel corso di sessantadue settimane sono avvenuti invece in circa cinquantadue settimane. Questa incongruenza dovrebbe forse portarci a considerare errata l’intera interpretazione?
Ciò non sarebbe ragionevole: le parole del brano rievocano in maniera piuttosto evidente la storia d’Israele nell’epoca persiana ed ellenistica, con la guerra contro Antioco, la dissacrazione del Santuario e la disfatta dell’invasore greco-siriano. Alla luce del contesto e delle altre profezie del libro, questi sono insomma gli unici eventi a cui il testo potrebbe riferirsi.
Una soluzione altamente preferibile consiste nel comprendere che la presunta incongruenza nelle date rientra a buon diritto nella logica che la Bibbia adotta quasi ogni volta che in essa si parla di anni e di cifre in generale: nelle Scritture, come in altri testi antichi, i numeri non andrebbero intesi alla lettera, ma inquadrati all’interno di una certa simbologia ricorrente.
È noto infatti che il sette, nella Bibbia, indica la completezza e la perfezione. I sette giorni della Creazione, le sette coppie di animali puri nell’arca, i sette anni di abbondanza e di carestia in Egitto e i sette bracci della Menorah sono solo alcuni esempi di una lunghissima lista che vede questo numero comparire, insieme ai suoi multipli, con una frequenza che non risponde alla logica dell’accuratezza storica o della precisione matematica.
Il settanta, dieci volte sette, è un numero altamente simbolico, ripreso dal vaticinio di Geremia sui settant’anni di dominio babilonese e applicato in Daniele a un periodo molto più lungo. Per il lettore consapevole delle convenzioni adottate dal testo biblico, il rispetto della simbologia tradizionale è quindi ben più importante e significativo dell’esattezza cronologica.
Qui vogliamo concludere la nostra analisi del Libro di Daniele, augurandoci che le nostre riflessioni possano accompagnare molti lettori nello studio di un testo così impegnativo, fornendo un po’ di chiarezza nella comprensione di bestie, regni, numeri e speranze di redenzione.
Tutte le profezie del libro di Daniele si riferiscono senz’altro alla rivolta dei Maccabei contro il dispotismo di Antioco Epifane e, sicuramente, i giudei che vissero quegli eventi non avevano dubbi che tali profezie si riferissero a loro e ai fatti storici che li riguardavano.
Ma la successiva caduta del regno giudaico indipendente degli Asmonei con il conseguente vassallaggio a Roma nel 37 prima dell’era volgare devono aver indotto gli ebrei a reinterpretare quelle profezie per adattarle a un futuro di liberazione relativamente prossimo.
Se non erro, proprio in quegli anni di sedicenti messia ne sorsero parecchi. Uno di questi tuonava probabilmente nelle strade accusando l’élite giudaica di collusione col potere romano. Di conseguenza, per il timore che fomentasse rivolte, penso sia stato tolto di mezzo tramite sicari oppure trascinato al patibolo con qualche accusa. In sostanza ne fecero un martire. Tanto il suo martirio quanto il calcolo forzato che faceva scadere quei 490 anni profetici giusto in quel periodo devono aver convinto i suoi seguaci che il loro defunto capo fosse davvero lui l’atteso messia.
Dopodiché furono imbastite storie leggendarie sulla figura di questo personaggio e si scavò nel Tanakh alla ricerca di altre profezie da inserire in dette storie affinché vi fossero ulteriori “prove” che il nazareno fosse il messia.